Meraviglioso Myanmar
(racconto di viaggio dal 24 maggio all’8 giugno di Carlo)
Attenzione attenzione! notizie fresche (calde) dal Myanmar!
Stiamo benissimo, il clima è buono, fa MOLTO caldo “solamente” nelle ore centrali della giornata (10-16), se no si sta abbastanza bene, e poi alla sera viene una pioggia di mezz’ora o un oretta e si rinfresca e a volte si alza un venticello. Zanzare non ce ne sono in questa stagione nemmeno sul lago (solo qualcuna a Mandalay ma basta uno zampirone sotto il tavolo).. Il paese è bellissimo, e il viaggio stupendo. Proprio una terra favolosa. La gente è gentile, ordinata e pulita. I rapporti cordiali, e la parola data la ricordano, sono precisi. Sempre sorridenti si preoccupano molto di venirti incontro e farti sentire a tuo agio. Ci sono posti fantastici ed eccitanti. Abbiamo usato molti svariati mezzi di trasporto, il che è anche interessante e a volte divertente. Turisti quasi non ce ne sono, tutto è molto autentico, calmo e gradevole. Si mangia molto bene, cose strane ma tutte buone (a parte la cavalletta fritta che Michele ha voluto assaggiare, e che dice che era croccante e sapeva vagamente di pesce…).
Ma ora incomincio da principio. Prima di partire ci informiamo su come fare un viaggio “etico” come si suol dire, e in questo c’è l’aiuto di internet (wikivoyage.org oppure imondonauti.it) con i suggerimenti di altri viaggiatori (viaggiareliberi.it oppure turistipercaso.it), e la guida Lonely Planet (ma anche la Routard) che è molto attenta a darti indicazioni su come favorire il meno possibile gli enti statali e governativi (evitando alberghi e locali e mezzi di trasporto, dello Stato). Poi facciamo varie vaccinazioni in anticipo, o richiami. Quindi ci procuriamo il visto presso l’ambasciata a Roma. Poi contatto via internet una piccola agenzia locale di Yangon (vedi https://teomyanmartravel.com/?lang=it) in cui c’è il titolare (Teo) che sa l’italiano e chiedo a lui di organizzarci i trasporti per un viaggio individuale indipendente e personalizzato come piace a noi. E poi anche cambiamo in banca gli euro in dollari (in Birmania accettano solo dollari perfetti, nuovi, sono un po’ noiosi), e ne cambiamo 1770€ perché non si possono inviare soldi in anticipo nemmeno con vaglia internazionale!, e quindi certe prenotazioni di alberghi, fatte via internet, andranno pagate al primo giorno a Yangon in contanti, dato che non si possono fare pagamenti con carta di credito neanche in loco!. Teo chiede 530€ a testa per l’organizzazione del viaggio, che cioè comprende la disponibilità di un’auto in ogni luogo in cui andremo, quindi la benzina, i pedaggi stradali (che saranno molto frequenti), un autista che parla inglese, il suo vitto e il suo alloggio durante il viaggio, la prenotazione e l’acquisto dei biglietti aerei per i voli interni (e noi ne facciamo due), le barche, i traghetti, e altri mezzi di trasporto. La cifra dunque contempera il fatto che da un lato è bassa stagione, con il fatto che però siamo solo in due a condividere le spese dell’auto (ma non ci sono, come ci accadeva in India, supplementi per l’aria condizionata…).
Il 24 maggio dunque passa tutto in viaggio, da casa alla stazione di Ferrara, poi col treno a Bologna, e quindi alla stazione di Milano, lì prendiamo il pullman per l’aereoporto della Malpensa, e una volta fatto il check-in col dovuto anticipo, ci imbarchiamo sul volo Thai per Bangkok. Il giorno seguente arriviamo presto, e gironzoliamo un po’ per l’aeroporto in attesa della coincidenza, Michele compra al duty free una card da 4 giga per la fotocamera, quindi prendiamo il volo per Yangon (la ex Rangoon) dove dopo un paio d’ore atterriamo circa alle 9 del mattino locali.
25 maggio
Dopo essere passati attraverso il filtro dell’ambiente di quel non-luogo che sono i grandi aeroporti internazionali, con la vetrina del Mondo che ti passa davanti agli occhi, eccoci ora atterrati nel Paese tropicale del buddhismo theravada e del “dispotismo asiatico”, ma che è anche Suvanna Bhumi, the golden land, la Terra Dorata. E’ un paese grande il doppio del nostro, con una cinquantina di milioni di abitanti, e decine di etnie grandi e piccole, e dunque non possiamo immaginare di vederlo e conoscerlo tutto, ma solo in piccola parte.
La differenza di fuso orario è di quattro ore e mezza (quindi adesso alle 9 del mattino di qui, in Italia sono ancora appena le quattro e mezza della notte per noi appena trascorsa).
Teo (cioè Htay Aung che si pronuncia ti-o) è già lì che ci aspetta all’uscita e si fa riconoscere con un cartello. L’accoglienza è cordiale e amichevole. Saliamo nella monovolume, alla guida c’è Thant zin, simpatico. Tolta la cifra per Teo, ci restano l’equivalente di settecento euro in dollari, e quindi andiamo subito a cambiarne un po’ in valuta locale il kyat (pronuncia giàt ). Prendiamo 200 mila kyats, cioè 180 €uro (sono circa 1150 kyats per un €uro), che ci dovrebbero bastare più o meno per il resto del viaggio (considerando che gli alberghi si pagano in dollari) e per il mangiare (se non spenderemo poi troppo in acquisti, ed in extra).
Il cambio avviene in un certo posto davanti a dei bar lì sul marciapiedi, in pubblico sotto lo sguardo di tutti, ma nessuno se ne interessa dato che si sa che questo è il posto dei cambiavalute. Nessuna ricevuta, solo un accordo orale e una stretta di mano. Contiamo i duecento biglietti da mille kyats lì sui due piedi all’ aperto. Poi andiamo altrove ad un altro angolo di strada per comperare una phone-card, l’auto solo accosta, scende Michele e l’acquisto avviene proprio nel bel mezzo del traffico: una scheda da 50 dollari. Teo ci impresta un cellulare locale con il suo caricatore, che gli restituiremo al ritorno. Così abbiamo risolto il problema delle comunicazioni con casa, che ci premeva molto e per il quale eravamo un po’ preoccupati dato che tutti i nostri cellulari in Myanmar non funzionano, e telefonare dagli alberghi costa molto.
Poi andiamo in un ufficio di una ditta in un grande condominio, il Blazon Building, dove paghiamo la notte che passeremo al Mountain Top Hotel, un bell’albergo vicino al sito di visita, che avevo combinato via internet con il signor Yinn Mar in 26€ per due, colazione inclusa (special internet rate). Ci apre una impiegata di questo che mi pare sia un ufficio di un avvocato che cura gli interessi di questa società e di altre. Lasciamo i sandali fuori dalla porta, ed entriamo io, Michele e Teo a piedi nudi, così come sono a piedi nudi tutte le impiegate dell’ufficio, e anche un signore che entra e viene in sala d’aspetto dove ci hanno fatto accomodare. Regolato il pagamento con la segretaria scalza, Teo telefona all’altra organizzazione con cui avevo prenotato due altri hotel e ci dice che verrà la responsabile da noi al nostro albergo a ritirare i soldi, la signora Nawe Nawe.
Intanto così, sia per il lungo percorso dall’areoporto al centro, sia per queste incombenze iniziali, cominciamo a vedere un po’ la città e a girare anche per vie “comuni” e non di itinerari turistici. Quindi si vede una città con vari parchi, e comunque con molto verde (ci dicono subito, passando sul lato del Inya Lake, che dall’altra sponda c’è la casa “della premio Nobel”, cioè Aung San Suu Kyi).
Una metropoli moderna con tanti monaci in giro, con tonache color giallone o bordeaux, o marroni, o viola, o rosate, che vanno in giro di mattina a chiedere un’offerta. Si mettono in fila e il primo, che di solito è un bambino-novizio, suona un gong, e poi attendono di ricevere un’offerta (di solito un po’ di riso). I monaci più anziani hanno un grande ventaglio a forma di foglia, rosso, con cui anche si riparano dalla pioggia.
Dopo l’indipendenza nel gennaio del 1948 il Myanmar (che dunque ha esattamente la mia età) è divenuto sempre più fortemente nazionalista ed è finito sotto un regime di militari; ora ci sono state delle cosiddette elezioni nel novembre scorso e il governo è misto di civili e militari (un quarto), e nel parlamento c’è pure qualche deputato (9%) non appartenente alla fazione al potere, e Aung San Suu Kyi non è più agli arresti domiciliari; quindi le redini si sono rilassate e c’è una certa maggior propensione a lasciar fare e dire, pur che non ci siano manifestazioni organizzate pubbliche di tipo politico, e non si stampino testi antigovernativi. La bandiera nazionale è cambiata qualche tempo fa ed è di tre strisce gialla-verde-rossa con una stella bianca al centro. Si riconoscono maggiori autonomie culturali alle varie etnie minoritarie, che, in molti casi dopo aspri scontri e guerriglie, hanno ottenuto degli stati autonomi propri (i birmani, o bamar, infatti sono solo circa il 65%). La nuova capitale, al posto di Yangon, è una città di recente costruzione nel centro del Paese, Nay Pyi Taw che significa la città-gemma.
Dunque a questo punto andiamo all’albergo che avevo prenotato in centro per due notti, la camera doppia con prima colazione, è in offerta per 22 dollari ovvero 15 €uro, essendo bassa stagione. Si tratta del “Three Seasons” guest house, una pensioncina a gestione famigliare nel centro storico della vecchia Rangoon del periodo coloniale britannico, nella 52esima, una laterale tra le centralissime Mahabandoola st. e Anawratha st. Ci accoglie molto cordialmente la signora Hla-hlà, che ha una espressione strana del volto ma sarà sempre gentile e premurosa; ci sono anche il marito e altri membri della famiglia, ma è lei che gestisce e si occupa della ricezione e di tutto. Entriamo togliendoci i sandali che si ripongono in una scaffalatura vicino all’entrata. L’ingresso è tutto rivestito in legno, saliamo a piedi nudi con le nostre valigie su per delle scale di legno e ci troviamo al piano rialzato dove si fa la prima colazione e c’è un balconcino; la nostra camera è pure rivestita in legno, pulita, con condizionatore, ventilatore, bagno, con doccia e acqua calda. Siamo contenti. Poi ci sediamo nel mini cortiletto esterno che da sulla cancellata sulla strada. Ci sono delle panche e delle poltrone in vimini e dei vasi con piante e fiori. Lì paghiamo Teo, che ci dice che Thant zin ci passerà a prendere più tardi in modo che ora ci facciamo una doccia, ci cambiamo e ci riposiamo.
Tutto mi pare un po’ più tranquillo e ordinato rispetto all’India, e per un altro verso mi rimanda ricordi del nostro viaggio di trent’anni fa in Thailandia, oramai così lontano nel tempo, ma anche a certi contesti dell’India di trentacinque anni or sono… Ma sono confronti del tutto soggettivi e di fatto depistanti.
La gente mi pare tutto sommato tranquilla anche nel traffico di questa che è la grande città moderna, e in generale il traffico mi appare più rilassato e scorrevole di quanto accade nel caos nervoso di molte altre grandi città del “terzo mondo”. Qui davanti alla nostra pensione passano ambulanti con i loro caratteristici “gridi” e richiami, che d’ora in poi sentiremo ogni giorno a cominciare dal mattino presto. La gente ascolta la radio, dai negozi o locali proviene musica. In città, persino nel centro storico con le sue vie a reticolo e ad angolo retto, c’è molto verde, nonostante quelli che ci dicono essere stati i disastri dell’uragano Nargis del 2008, che aveva estirpato o rotto molti grandi alberi.
Viene la signora Nawe-Nawe Myint Oo, la paghiamo in dollari, e ci da la ricevuta del pagamento per due notti al lago Inle a 34 dollari per camera doppia (pari a 24 €uro in due) a notte; e tre notti a Bagan per 43 dollari a notte in due (30 €uro), sempre con prima colazione, totale 137€, e anche questa era una offerta per prenotazioni su internet, in bassa stagione. Sono dei bellissimi hotel, che ho pensato di provare, uno per la zona del lago e uno per gli ultimi giorni come gran finale. Il resto del viaggio invece lo faremo in pensioni famigliari, come questa a Yangon, o in alberghi diciamo “medi”.
Poi Thant zin ci viene a prendere e andiamo a girare un po’ Yangon (che significa “fine della guerra”, cioè città della pace) e innanzi tutto a vedere il bel parco sul Lago Reale, il Kan-daw-gyi, dove c’è anche una finta grande imbarcazione (tipo il Bucintoro, la galea dogale veneziana) ma in muratura, chiamata Karaweik, che rende l’idea di che cosa doveva essere la grande galea regale, ed è ora la sede di un ristorante con spettacoli di anyeint, combinazione di musica, canti, e danze tradizionali (con la famosa arpa birmana e lo xilofono di bambù, e dove si svolgono manifestazioni culturali. Ci sono poi molti bar e ristorantini lungo il bordo del lago, molto carini.
Quindi su uno spiazzo assistiamo allo spettacolino di un finto elefante ballerino, che è tipico della regione di Mandalay, che è simpatico e buffo con le sue mossette al ritmo di una musica incalzante e allegra. Bravi i due tizi che lo muovono dall’interno (chissà che caldo là sotto…).
Poi andiamo a vedere il reclining Buddha, il grande Buddha sdraiato su un fianco, lo Chaukhtagyi, dove incrociamo un gruppo di monachelle rapate vestite di rosa e azzurrino.
Andiamo a pranzo in una “trattoria” tipica di cucina birmana, “Aung Thuka”, molto popolare, che è infatti piena di gente che fa l’intervallo-pranzo. E’ tra i viali Inya e Dhamma Zedi (=stupa del Dharma), e Shwegondine, ma un po’ rientrata in uno spiazzo di terra, nascosta dagli alberi. E’ un locale che ci è piaciuto moltissimo. Si va in fondo dove si vedono i pentoloni con i vari mangiari, e si ordina indicando col dito, poi le cameriere ti porteranno al tavolo il riso bollito bianco che fa da base, una soup calda di verdure, una insalata fresca, e tutta una serie di scodelline con i vari condimenti che hai richiesto, di verdure, di carne, o di pesce, che chiamano genericamente curry. Poi dal tavolo puoi chiedere del thé o/e dell’acqua in bottiglia, e altri curry. Ne assaggiamo vari per provare, e sono quasi tutti buoni. Alla fine ci sono dei semini da sgranocchiare, e poi dei dolcini molto zuccherati. Paghiamo circa 5 €uro in due avendo mangiato bene e a sazietà. Facciamo due chiacchiere con un giovane indonesiano e con un signore di Yangon molto gentile.
Ritorniamo in albergo per riposarci, perché ci sono 34° gradi di caldo umido e c’è soffoco.
Quindi nel pomeriggio andiamo alla collina di 50 metri su cui sorge la grande pagoda dorata, che è il simbolo della città e della Birmania, ed uno dei più grandi luoghi sacri del buddhismo (sorge su una piattaforma di ben 5 ettari), e saliamo con l’ascensore (già a piedi nudi) anziché fare tutto il percorso coperto della grande scalinata, tanto più che comunque gli stranieri debbono passare di qui per pagare un biglietto d’ingresso di 5$. Lo spettacolo della Shwe Dagon paya è strabiliante. Entriamo proprio dove c’è un banyano che si dice tragga origine dall’albero stesso sotto cui Gautama raggiunse l’illuminazione nel villaggio di Bodhgaya, e qui, sotto questo alberone c’è anche una statua che ricorda l’evento. Facciamo tutto il giro del grandioso stupa in parte dorato (ricoperto da 8700 lastre d’oro) e in parte proprio d’oro. Vediamo il museo storico fotografico dei restauri dopo il terremoto, e del ripristino della punta con il suo ombrello reale hti, la cui sommità è a 98 metri, sostenuto da sette supporti d’oro e 420 d’argento, ha in cima un enorme smeraldo, ed assistiamo ai continui cambiamenti di colore dello stupa e della pavimentazione in marmo con il calare del sole. Vediamo la gente che viene a portare offerte suddividendosi per nati in ciascuno degli otto giorni tradizionali della settimana (si contano separatamente il mercoledì antimeridiano e pomeridiano). Ma intorno, lungo tutto il percorso lastricato di marmo, ci sono ben 64 tra templi vari e 4 padiglioni. Accanto allo stupa degli otto giorni, con guglia in oro, c’è una grande campana di 23 tonnellate che gli inglesi, conquistata Yangon nel 1825, vollero portarsi a Londra, ma la campana sfuggì di mano mentre stava venendo caricata su un vascello e cadde sul fondo del fiume; solo dopo l’indipendenza si riuscì a recuperarla, e comunque nel 1841 se ne costruì un’altra di 42 tonnellate alta 15 metri. La Shwedagon paya è uno dei primi luoghi di pellegrinaggio buddhista dato che custodiva otto capelli che Siddharta Gautama il Buddha diede a due mercanti provenienti dal Myan-mar, dalla località su cui poi verrà fondata la città di Yangon. Dal 14 sec. i monarchi birmani la ricostruirono e impreziosirono con le più di tremila campanelle d’oro sul cosiddetto ombrello sopra la punta, e in totale lo stupa è decorato con quasi 5500 diamanti e altre pietre preziose (2317), che conferiscono quella luminosità particolare del grande stupa che cambia di tonalità a seconda delle ore del giorno (e soprattutto durante il tramonto). Luogo magico e stupefacente!
Poi scendiamo e andiamo a cena con Thant zin all’ “Oriental house” appena lì sotto, un ristorante cinese (ci dicono che i birmani mangiano fuori solo a pranzo, e che quindi per cena è più consigliabile andare ad un cinese) dove cucinano bene e a buon prezzo. Siamo contenti e però stanchi per il caldo umido, per il cambiamento di fuso orario, e insomma un po’ per tutto, cambio di clima, alimentazione, ecc., per cui andiamo a dormire subito.
Il nome della nostra guest house è dovuto al fatto che qui ci sono effettivamente tre stagioni, la calda-secca, quella delle piogge tropicali, e quella fresca. Sono sconosciute in senso stretto le nostre primavera, autunno e inverno. Questo periodo attuale è per il turismo bassa stagione perché sta tra la fine della stagione torrida e l’inizio dei monsoni; mentre la stagione più alta di visitatori è tra novembre e febbraio.
Il primo mese del calendario lunare birmano inizia con la festa dell’acqua (Thingyan = cambiamento) che quest’anno cadeva col plenilunio del 17 aprile, in cui oltre a fare grandi pulizie in casa e nel negozio, più che altro ci si getta dell’acqua addosso a vicenda, per festeggiare la fine della stagione secca, e termina con il plenilunio di primavera, del 17 maggio, in cui si celebra il Vesak, l’anniversario del Buddha; quindi l’anno nuovo è iniziato da poco…
26 maggio
Mi alzo prestissimo e vado fuori sulla panchina nel cortiletto davanti, a guardare chi passa per strada, i vari venditori ambulanti, i bimbi e i ragazzi che vanno a scuola, la gente. Intanto mi godo la frescura mattutina e ascolto gli uccellini.
Lasciamo i bagagli in consegna alla signora Hla-hla, dicendole che ritorneremo l’indomani sera, e così non paghiamo questa notte di intermezzo. Subito dopo la colazione fatta al tavolo vicino al balconcino, viene Thant zin a prenderci e partiamo un po’ prima delle otto. C’è con lui anche la moglie Thant Su, che lo accompagna e sta attenta ai sorpassi (perché l’auto ha il volante sul lato destro…).
Andiamo dunque a fare una “gita” da Yangon a Kyaikhtiyo, in campagna, dormiremo su un monte a 1100 metri di altezza, dove c’è un grande masso in bilico su una sporgenza della roccia, che è da tempi immemorabili meta di pellegrinaggi.
Riattraversiamo Yangon, che è più grande di quel che ci era sembrato (l’agglomerato urbano ha 4 milioni di abitanti), intravediamo altre pagode, e infine usciamo in campagna. Vediamo dei bei villaggi con capanne a palafitta, con le pareti fatte di stuoie intrecciate.
Ci fermiamo per riposarci e pranzare dopo quattro ore di viaggio (per un totale di 160 km.), in un bel resort con ristorante all’aperto, piscina, giardino e addirittura un piccolo zoo. Vediamo un piccolo cagnetto tipo chow-chow, dei gatti, altri cani, delle galline, un lemure, delle aquile, degli uccellacci che pretendono cibo facendo un versaccio volgare a tutto volume, e poi un pellicano libero, che pure chiede cibo spalancando il grande becco, un povero orso accaldato, che sta seduto in posa umana disperata, un leopardo, uno struzzo, dei daini, scimmiette, macachi, una specie di gibbone e un orango buono, un paio di cuccioli di elefante asiatico addestrati a suonare l’armonica, e a ballare, delle lontre, eccetera. Insomma ci rilassiamo e ci distraiamo. A tavola portano tutti i piatti su una scaffalatura in vimini e poi ce li dispongono tutti assieme sul tavolo. Mangiamo bene, abbondante e a buon prezzo.
A Kyaikhtiyo si arriva nei pressi con l’auto, entrando nello Stato dei Mon, con tanto di confine e richiesta di passaporto (è uno dei membri dell’Unione di Myanmar), poi da questo villaggio che si chiama Kin Pun c’è una stradina apposita in salita ripidissima che riescono (e che possono) fare solo dei camion potenti. Mettono nel cassone del camion delle assi di legno strette e ci fanno stipare il maggior numero possibile di persone (o un po’ di più), e poi vanno a gran velocità su in prima. Noi eravamo per cosi dire seduti con tra le gambe e sotto ai piedi dei grossi sacchi di patate e altre verdure, e con davanti degli scatoloni. Ci si doveva reggere molto ma molto molto forte per circa tre quarti d’ora (ma senza appigli) …. ma ogni tanto il sedere mi cadeva all’ indietro giù dalla stretta panca (per via della pendenza della salita, e delle frenate e accelerate) e mi ritrovavo in braccio ad un tizio della fila dietro. La salita a mio avviso deve essere del 25 %, il camion va su in prima velocissimo; insomma un’avventura arrivare su fino a quel paesino in collina, in mezzo ad un paesaggio tropicale favoloso, con un sole spacca-cranio. Più a lungo di quei tre quarti d’ora, aggrappato stretto stretto al sedile davanti, con quel caldo, non so se avrei potuto farcela…
Poi là c’è una salita abbastanza ripida che si può fare solo proseguendo a piedi e ci si mette circa un’oretta. Ma io ero spossato, e mi sono fatto venire a prendere dai portatori che mi hanno fatto salire su una “portantina” che reggevano in quattro giovani sulle spalle (praticamente stando seduto su una sdraio di legno attaccata a due grandi bamboo). I portantini poveretti sudavano e sbanfavano per il caldo umido, eravamo oramai dentro una nuvola, quindi c’era soffoco e afa. Si sono fermati per tre volte a riposare ed ho offerto loro delle bibite fresche da bere. E così ho fatto come i nobili signori di una volta, e sono arrivato in cima come un pascià….
Bello l’hotel Mountain Top, dove c’era un solo altro cliente oltre a noi. Andiamo subito verso la golden rock, fermandoci al posto di blocco per pagare la tassa turistica e ricevere un cartellino verde di riconoscimento. Poi una volta là si fa una camminata leggermente in salita, ma quasi in piano, già a piedi scalzi, e si arriva ad uno spiazzo lastricato, da dove c’è un panorama da favola, si vedono tra il verde vari monasteri, stupa, pagode, tutti coloratissimi, e si sentono salmodiare canti e preghiere buddhiste dai monasteri. Stupendo, c’è un’atmosfera molto particolare. Molti pregano, o fanno meditazione nelle sale dei monasteri, o portano scaglie d’oro alla roccia. Le nuvole intanto cominciano a dileguarsi un poco e si riesce a godere meglio del panorama.
Qui c’e’ la Golden Rock, che è semplicemente un masso che sta in bilico “per miracolo” (qui dicono che se si facesse passare dalle due parti un capello, questo non si spezzerebbe), e che era meta di pellegrinaggi già prima del buddhismo, interamente dorato perché ricoperto appunto da sottili foglietti d’oro appiccicati sul masso dai fedeli nel corso del tempo.
Poi ci fermiamo ad ammirare dalla balaustra il vasto panorama della valle boscosa sottostante. Ci raggiungono Thant zin e Su. Ci sediamo sotto un grande ombrello di cemento e ci accorgiamo che vicino c’è un grande insettone con lunghe antenne. Poi inizia a diluviare, aspettiamo ma non accenna a diminuire, anzi diventa una cascata. Mi tolgo la camicia e torniamo all’hotel, arrivando fradici dopo tutta la camminata, ma con la prospettiva di farci una bella doccia calda. Ci fermiamo a cenare al nostro hotel, che con il “Kyaikhtiyo hotel” è uno dei soli due hotel vicini alla Golden Rock (al di là dei nomi promettenti di altri alberghi che invece sono in realtà tutti lontani dal sito), e mangiamo bene. Ad un altro tavolo ci sono anche Thant zin e sua moglie Su, che è una giovane deliziosa, e insieme erano simpatici e scherzosi, così ci siamo conosciuti meglio. Quando si aprono le nuvole si vede in lontananza la golden rock illuminata che è proprio splendente nel buio fitto.
27 maggio
Al mattino alle sei, Michele va a fare un giro per approfittare che spunta un po’ di sole. Poi io lo raggiungo e ci godiamo lo spettacolo. Dopo colazione arrivano poco prima delle otto i portantini a prendermi per il percorso di discesa fino al piazzale dei camion. All’arrivo pago ottomila kyats (quasi sette euro) per l’andata e ottomila per il ritorno, per tutti e quattro i portatori, con la mancia che do loro, spendo un totale di 15 €uro.
Mentre sono giù al piazzale che aspetto Michele e la coppia Thant, mi parla e mi segue un bambino di circa nove/undici anni, è carino e dopo un po’ gli regalo un pallone da calcio che vedo in un negozietto. E’ addirittura felice, e comincia subito a giocare con un suo amico, per farmi vedere quanto lui è bravo col pallone.
Essendo ancora mattino presto ci sono i monacelli che vanno a chiedere una donazione per il loro monastero e si mettono in fila, ognuno con la sua pentola, il più piccolo sta in testa, e si fermano ad ogni negozio o punto ristoro, il piccolo suona un gong che tiene sospeso dinnanzi a sé, e poi aspettano che il proprietario venga e dia loro delle porzioni di riso bollito in ciascuna pentola.
Arrivano Michele e i Thant e commento con Thant zin che mi pare assurdo che io abbia speso la stessa cifra che ho dato a loro per andata e ritorno con inclusa la mancia, solo per le bibite che ho offerto da bere, e mi spiega che quelle (cocacola, fanta) sono marche di importazione, e quindi molto care, così scopriamo la “Star Cola” e una aranciata che sono imitazioni birmane e costano molto molto meno.
Appena arrivati loro, saliamo su un camion che ha appena posteggiato ed è ancora vuoto. Ma siccome la regola è che i camion partono solo quando sono pieni (ovvero strapieni zeppi), per questo chissà quanto tempo ci sarà da aspettare. Comunque prendiamo i posti sulla panca in fondo, dove non ci saranno pacchi, sacchi o scatoloni, che vengono sempre accumulati sul davanti. Intanto giunge un intero clan familiare da un villaggio mon (hanno gli stessi cappelli col ciuffetto rosso in cima). Ma intanto la previdente Su scende avendo avvistato un gruppo di turisti thai. Questi in effetti, come a volte accade, hanno affittato un camion tutto per loro, che quindi partirà subito appena tutto il gruppo è salito, allora lei chiede se pagando potremmo aggregarci anche noi, e accettano. Così partiamo e attraversiamo a ritroso la valle boscosa con il sole, e arriviamo dopo 11 kilometri a Kin Pun dove i thai hanno l’albergo, e dove noi avevamo posteggiato l’auto.
Ripartiamo e attraversiamo di nuovo paesini e cittadine interessanti, e dei bei panorami, come quelli lungo il fiume Sittaung.
Al ritorno ci siamo poi fermati in una antica capitale del X/XII secolo, rifiorita nel XVI sec., Bago (o Pegu), e visitata all’inizio del Quattrocento da Niccolò de’ Conti, e poi a metà del Cinquecento descritta da Cesare Fedrici. Entriamo pagando un ticket turistico di 10$ a testa. Ma è un luogo magico… Visitiamo la grande pagoda dorata e là, dietro ad un immenso stupa splendente, c’era un baracchino di un indovino…, e così sono andato da questo diviner, o veggente (seer, o soothsayer), chiromante, astrologo o parapsicologo, come pure si autodefinisce, in questa famosa antica pagoda al momento deserta…. e silenziosa: la bella e mistica Shwe Maw Daw.
Entriamo nella sua casetta o baracchino di legno. Ci riceve a petto nudo, con i lunghi capelli arrotolati in uno chignon in cima al capo di lato, e accende un ventilatore, e degli sticks profumati. Intorno ci sono foto dei suoi maestri, e varie statuette. Ci accucciamo a gambe incrociate in modo da starci tutti e cinque, e Thant zin mi fa da interprete coadiuvato dalla moglie. Innanzi tutto devi sapergli dire in che giorno della settimana sei nato, e la data precisa, e così poi mi sono fatto leggere la mano, fare i “tarocchi” e calcolare la numerologia della data di nascita, con previsione del futuro… Io, come quasi tutti noi, non sapevo che giorno della settimana fosse quando sono nato, quindi lui è andato a vedere su un libro che riporta tutti questi dati per gli scorsi cent’anni e per i decenni prossimi. Sono nato di martedì e quindi come per tutti i nati di martedì il Leone è il mio simbolo sotto la cui egida debbo muovermi. In sostanza l’indovino mi ha detto che aspiro a cambiamenti, ma per il 2011 devo portare ancora pazienza perché non è l’anno per me propizio, ci sono problemi finanziari e di salute che riguardano me e/o chi mi è vicino, ma intanto devo progettare, e poi dopo il mio compleanno prossimo, il ’12 e il ’13 saranno anni molto belli pieni di realizzazioni e tutto andrà bene, mentre per quest’anno e per il ’14 ci saranno possibili interferenze negative da parte di nati il mercoledì o il sabato, ma comunque mi diceva di non preoccuparmi perché leggendomi la mano vede che avrò una vita lunga, oltre gli ottant’anni… Questo in breve sintesi il responso di Saya (titolo reverenziale) Ze Ya Tu. Anche l’oroscopo trimestrale che trovo su una rivista locale in inglese –e che va per giorni del mese-, mi pone sotto il segno delle coppe, proprio perché si dice che nei prossimi anni si realizzeranno buone cose per quelli come me nati il giorno 20 di qualsiasi mese (si parte dai nati nell’1, 10, 19, e 28, e si prosegue per i nove segni previsti).
Nel 1930 lo straordinario stupa d’oro fu danneggiato da uno dei frequenti terremoti, e parte cadde a terra, poi fu ricostruito, e ora con i suoi 113 metri di altezza è il più alto del Myanmar. Visitiamo l’antico palazzo reale anch’esso recentemente ricostruito, e un Buddha sdraiato di 54 metri, cui è legata una antica leggenda, e che dopo il saccheggio della città a metà del settecento, rimase abbandonato per 120 anni e fu letteralmente sommerso dalla giungla, dopo la sua riscoperta nel 1880 venne riportato alla luce e restaurato. Poi andiamo a mangiare in un buon “ristorante” popolare che Thant zin conosce, e che ci piace molto per l’atmosfera che c’è, oltre che per il buon cibo. Poi ci fermiamo a comperare i primi souvenirs e regalini che avevamo adocchiato in un negozietto vicino. Un bambino di dieci anni insiste molto che io comperi delle vecchie monete, anche se gli dico che non mi interessano, allora alla fine gli do dei soldini per comprarsi qualcosa, ma lui li rifiuta e li lascia cadere per terra, dove rimangono senza che nessuno li raccolga, e dopo un po’ io me li riprendo. E dopo andiamo a vedere i quattro Buddha rivolti ai 4 punti cardinali (Kyaikpun pagoda), anch’essi restaurati dopo il terremoto. Ci sarebbero molti altri luoghi degni di essere visitati con calma, ma noi non abbiamo tempo purtroppo. Comunque è una città gradevole, molto caratteristica, piena di magnifici luoghi, e non turisticizzata (almeno per ora…).
Dopo siamo stati in un piccolo villaggio campagnolo della etnia Mon dove fanno tessuti a mano con i telai di legno, e dove confezionano i famosi sigari birmani (in inglese cheroots) che oltre a un po’ di tabacco tritato aromatizzato con tamarindo, contengono dentro alla foglia arrotolata, erbe e paglie varie, persino midollo di piante. Sono o spuntati, o con le due punte, di cui una contiene un filtro di buccia di granturco secco arrotolata. Questi sigaroni casalinghi li fumano tradizionalmente sia gli uomini che soprattutto le donne.
Io chiedo di poter andare in un bagno (che si rivela correttissimo e pulito), e allora intanto che ci soffermiamo, anche qui comperiamo, in particolare un longyi (ampio tubo di stoffa che si piega e allaccia con un nodo, e fa da panta-gonna agli uomini) che Michele vuole incominciare ad indossare e che porterà per gran parte del viaggio.
Ritornati a Yangon, acquistiamo già un’altra schedina per foto, e rientriamo al “Three Seasons” accolti cordialmente dalla signora Hla-hla.
Siamo un po’ stanchini e dunque non andiamo a vedere la Kaba Aye paya, la pagoda della pace nel mondo, che fu costruita a seguito del grande sinodo buddista (Chatta Sanga yana) del 1954-56, che si svolse in una grande grotta, Maha Pasana Guda, radunando in occasione del 2500esimo anniversario della illuminazione del Buddha Gautama, rappresentanti di ogni paese del mondo. Così come nel 1980 fu costruita la Maha Wizaya (o Vijaya) in occasione del concilio di riunificazione del buddismo theravada (=”la via antica”) in Myanmar.
E anche non abbiamo visitato il Bogyoke market, il cui ingresso avevamo visto dalla macchina, e che è il più grande mercato del Myanmar. Peccato, però magari sarà per il nostro ultimo giorno prima di partire, quando ritorneremo a Yangon…
Un’altra cosa che non abbiamo fatto: ho letto su una rivista locale in inglese che ci sono dei corsi di meditazione, aperti anche agli stranieri, in inglese, a 15 min. a piedi dall’entrata est della Shwe Dagon, presso il monastero Wingabar Yele, ma che durano dieci o venti giorni.
Seguono la famosa “scuola birmana” di U Ba Khin, che fu maestro di S.N. Goenka, di madre Mya Thwin, e di John Coleman (e poi anche di T. Terzani), e fu uno degli organizzatori del famoso sinodo mondiale del 1954. C’è anche la “scuola” di sayadaw U Pandita in Than Lwin Road.
Alla sera andiamo a piedi alla vicina Botataung paya, una delle tre maggiori di Yangon, che è al di là dei binari ferroviari, e vicino alla riva del fiume. E’ stupenda! Dentro allo stupa c’è un labirinto di teche dorate e intarsiate. C’è anche, in un altare esterno, un grande Buddha dorato che è in una posizione fuori dalle solite stereotipate, molto bello artisticamente. Mentre la statua dorata del Buddha più venerata è della metà dell’Ottocento, fatta sotto re Mindon, ed è divenuta un simbolo. Questa statua si trovava nel palazzo reale ancora all’epoca dell’ultimo re Thibaw (su cui sto leggendo un romanzo storico di A.Ghosh) a Mandalay, e fu portata a Londra con la conquista britannica; poi dopo l’indipendenza il Myanmar riuscì ad ottenere che fosse restituita, e venne collocata qui, come risarcimento perché nel novembre del 1943 i britannici bombardarono Yangon occupata dai giapponesi e la Botataung fu gravemente distrutta. C’è pure un piccolo giardino tropicale, con uno stagno con centinaia di tartarughe, e un grande piazzale pavimentato. E un tempietto ai Nats, gli spiriti della natura con una immagine della “Saraswathi locale” che è la dea dell’apprendimento. Intanto comincia ad imbrunire e presto viene buio, per cui lo stupa dorato viene illuminato e risplende. Usciamo mentre stanno liberando tanti uccellini dalle gabbie (come si usa per capodanno, cioè a inizio maggio) forse per acquisire buoni meriti (da verranno registrati in un apposito libricino). Sbirciamo nella casa delle offerte e donazioni. Intanto c’è tanta gente che sta arrivando al fiume per prendere gli ultimi traghetti nel buio fitto della notte.
Poi gironzoliamo nei dintorni sulla riva, e infine andiamo a piedi nel buio più totale per cercare di trovare il ristorante Monsoon per stranieri, in Thein Byu, dove mangiamo delle squisite soup (io ne prendo una dolce-salata molto particolare). Rientriamo, anche se ci siamo dimenticati di prendere con noi la pila che avevo appositamente portato, e abbastanza facilmente ritroviamo la strada anche se le scritte e i numeri sono quasi solo in alfabeto birmano.
sabato 28 maggio
eccoci di nuovo in auto con Thant zin e Teo verso l’aeroporto. Teo ci ha lavorato per quindici anni, poi ha avuto l’idea di provare a metter su una agenzia, e ha scelto di occuparsi principalmente di italiani perché aveva constatato che sono i più simpatici, alla mano, e flessibili, e che ci tengono a stringere subito un rapporto più personale e umano, E poi perché proprio per questo aveva cominciato a studiare la nostra lingua. L’iniziativa ebbe successo e lui e altri suoi amici in altri aeroporti nazionali si sono licenziati e hanno messo assieme la liquidazione, creando una rete di autisti e di guide.
Restiamo in attesa davanti all’unica porta del settore voli interni (gate domestic flights) per andare a Heho. Una signora italiana ci attacca bottone, e ci dice che lei sta da anni per una parte dell’anno a Kuala Lumpur in Malesia, mentre ora sta andando in una cittadina dove da poco è stato aperto un casinò. Ci torna in mente quell’italiano che inizialmente era seduto vicino a noi sull’aereo per Bangkok, il quale pure lavora solo metà anno e il resto lo passa in Thailandia al mare a fare niente assieme ad altri suoi amici fancazzisti di cui alcuni vivono lì stabilmente (o forse lì lui ha una compagnia particolare?), perché qui si può vivere con poco grazie al cambio favorevole. Tipi strani su cui ci piace fantasticare immaginando le loro vite.
Proprio all’ultimo istante, prima di passare il metal detector, Teo ci aveva chiesto di portare per lui un gran pacco di soldi, e noi abbiamo accettato solo per fiducia nei suoi confronti. Quindi abbiamo in borsa come bagaglio a mano 650 banconote da mille kyats, il che forma un bel pacco! Lo consegneremo al suo collega che verrà a prenderci all’arrivo. Teo ce lo ha chiesto come fosse la cosa più naturale del mondo.
Si parte e apprendiamo solo ora che il nostro aereo farà diverse fermate in un lungo tragitto. Per fortuna Heho è la prima, e ci arriveremo dopo poco più di un’ora.
Oggi dunque siamo nel centro del Myanmar. All’aereoporto ci vengono a prendere Than e un giovane autista, anziché come ci aveva preannunciato Teo un certo Myo. Mister Than ci dice che anche lui è amico ed ex collega di Teo, di non preoccuparci, che Myo oggi è occupato ma da domani sarà con noi. E dall’aeroporto in poco più di mezz’ora si giunge in questa cittadina dove siamo ora, Nyaung Shwe, nello Stato dei Shan (che è lo stato dell’ Unione più grande e importante, dopo la Birmania naturalmente).
Lungo il percorso però siamo passati a pagare la tassa di soggiorno per stranieri di 5$ a testa e poi dopo poco ci siamo fermati e siamo stati a visitare un antico monastero di legno dove insegnano ai bambini a diventare novizi monaci. E’ un luogo stupendo! All’improvviso mi ricordo che la foto che da tempo ho messo sugli scaffali della libreria nel mio studio a casa, ancor prima di pensare a fare questo viaggio, è proprio di questo posto! Ritrae dei giovani monaci affacciati ad un paio di finestre. Ci facciamo dunque delle foto proprio affacciati a quella stessa finestra ovale…
Il monastero Shwe Yan Pyay è aperto, gironzoliamo dentro, è tutto in legno, e vediamo un angolo che sembra come una biblioteca in cui c’è un monaco che sembra un maestro, che sta chino, leggendo con molta attenzione e non si fa distrarre, poi arrivano dei novizi e cominciano come a fare dei compiti sdraiandosi sul parquet con i loro quaderni, vicino ad un angolo dove c’è una lavagna alla parete; la cucina è molto incasinata, in altre stanze non entriamo perché ci sembrano dei dormitori con stuoie sul pavimenti. C’è silenzio, e si resta incantati in questo ambiente in cui pare di essere sbalzati indietro nel tempo in un qualche secolo del medioevo.
Con Than andiamo poi ad un ristorantino-bar cinese “Daw Nyunt Yee”, di suoi amici, dove mangiamo un piatto di noodles con verdure, e lasciamo lì i bagagli perché la barca che ci porterà all’albergo arriverà più tardi fra tre ore almeno, per cui Than ci dice che potremmo intanto girare un po’ qui intorno.
Quindi siamo andati in giro per Nyaung Shwe e per la campagna circostante, affittando per il pomeriggio una bicicletta (di quelle un po’ robuste) per un euro ciascuna, e così abbiamo poi fatto un bellissimo giro, prima per le strade della cittadina, e poi andando verso fuori lungo la riva del fiume, sino ad un grande monumento al Buddha che si vede emergere tra il verde. Poi tra le risaie, e in mezzo a vari piccoli villaggi di contadini shan, per viottoli di terra battuta. con le mucche.
Infine ritorniamo dal cinese a ritirare i nostri bagagli, e viene un ragazzo a prenderci per portarci in barca all’albergo e intanto farci vedere un po’ il lago con i pescatori.
Qui ora siamo in effetti sul lago Inle (o Inlay), che è a 900 metri di altitudine (ma fa caldo, ci sono anche qui 34° gradi circa), ed è veramente grande (22 km di lunghezza e 10 di larghezza), tanto che per venire nel nostro albergo abbiamo fatto un percorso di tre quarti d’ora su una piroga, che è come una lancia a motore stretta e lunga che va piuttosto veloce, e abbiamo visto i pescatori che remano con un piede in un modo molto particolare che è tipico della etnia locale Inthas. Ora scrivo da un albergo su palafitte sul lago (il Paramount), dove hanno la connessione internet (ma la tastiera è doppia anglo-birmana e non ha gli accenti).
domenica 29 maggio
Stiamo in camera a riposare e a dormire molto, chiacchieriamo un po’ in spagnolo con l’unica altra cliente che è una giovane donna argentina di nome Maria, che sta a Manhattan per specializzarsi in studi aziendali e finanziari, e che è simpatica e cordiale. E’ la prima volta che viaggia da sola, ma ha visto che qui non c’è nessun problema al riguardo. Intanto mi telefona al cellulare Teo per sapere come stiamo e come sta andando il viaggio. Allora commento la cosa con Maria che rimane meravigliata da come Teo ci segua e ci accompagni lungo il percorso, e dice che se prima di partire avesse saputo di una soluzione simile sarebbe partita più tranquilla. Qui dunque passiamo un po’ di tempo su internet. Michele sale su una torre panoramica e fa foto. Diamo un’occhiata alla tv locale e a riviste. Mangiamo nel ristorante dell’hotel (meat ball soup; cream corn soup; vegetable steamed rice; e fried banana with honey, per dieci euro in due). La responsabile della reception è gentile e parla abbastanza benino inglese (ma con una pronuncia….), mentre le altre sono molto servizievoli ma faticano a capirci quando ci esprimiamo in inglese, proprio come noi fatichiamo a capire loro.
lunedì 30 maggio
Facciamo colazione e impacchettiamo le nostre due valige. Tutto lo staff si presenta per salutarci, do una mancia a una cameriera, ma non l’accetta, mentre un’altra (che non sa spiccicare una parola in inglese) è ben contenta di prenderla. Quella della reception ci fa varie raccomandazioni (tipo di non mangiare mai carne di maiale con questo caldo, né mango né papaya). Viene a prenderci alle 8 il ragazzo con la barca a motore, e partiamo per dei giri nell’intrico dei canali. . .
Scendiamo in un villaggio di palafitte sul lago, dove ci sono dei Padaung (o palaung), in particolare ci sono due donne che tessono a mano senza un vero e proprio telaio, ma con la tela agganciata al muro e tenuta tirata, e anche due ragazze, pure loro con il collo inanellato, delle quali ora non ricordo più il nome (una mi pare si chiamasse Kwy-kwy). Il popolo dei Padaung costituisce una minoranza etnica nello Stato Shan e nel vicino Stato dei Kayah. Si ripartiscono in “colli corti” (i Lahta) e “colli lunghi” a seconda se le donne portano o meno gli anelli che allungano il collo. I secondi mettono alle bambine a cominciare dai cinque-sei anni degli anelli al collo per allungarglielo, aggiungendone uno ogni quattro anni sino a nove volte. Questi anelli di bronzo luccicante, sono delle spirali e più se ne aggiungono e più il collo può allungarsi e le spalle abbassarsi (sino al massimo all’età di 45 anni). Nei casi maggiori gli anelli possono raggiungere un peso complessivo di 5 kg., e ve ne sono altri alle gambe.
Un tempo queste donne erano ridicolizzate e chiamate dagli inglesi spregiativamente “donne-giraffa”, e venivano portate in Europa ed esibite come fenomeni da baraccone. Ora invece si comprende che si tratta di una cultura ricca e interessante e l’atteggiamento è rispettoso.
I padaung sono cacciatori oppure contadini, e coltivatori di cotone; le donne sono abili tessitrici. Vi è una interessantissima descrizione dei loro moduli di vita nel bel diario autobiografico di Pascal Khoo Thwe, From the land of green ghosts, del 2002 (tradotto in it. nel 2008 col titolo: Il ragazzo che parlava col vento), in cui racconta anche delle sue nonne e delle sue zie con gli anelli al collo, con grande affetto e tenerezza indicandole come le uniche depositarie del patrimonio di leggende e tradizioni specifiche della loro cultura.
Poi andiamo in un’altra cittadina, Nam Pan, tutta di palafitte sull’acqua, dove visitiamo un laboratorio artigianale di fusione dei metalli, in cui fanno gioielli in argento, rame, silver-plated, e incastonano pietre dure. Molto interessante, si vede un mondo e un modo di produzione da noi oramai scomparso. Prendiamo due orecchini argentati rappresentanti due palline, di quelle tipiche birmane del gioco del chinlone, in cui ci si mette in circolo in quattro o sei e ci si lancia una sfera fatta di canne ripiegate, che non deve mai toccare terra e non può essere colpita con le mani ma solo con altre parti del corpo.
Ogni volta che si riprende la barca e si riparte si viene prima affiancati da barche che fanno il mercato galleggiante (floating market), offrendo gli stessi prodotti, o prodotti di minore qualità, ad un prezzo un pochino più basso dei negozi su palafitte. In effetti qui ci sono alcuni mercati su barche anche per i prodotti degli orti e dei giardini galleggianti, cui si aggiungono quelle con i prodotti artigianali e anche i souvenirs per turisti.
Le popolazioni del lago non hanno solo costruito case palafitte, ma hanno portato la terra dove c’è palude. La costa del lago, che non è molto ben definita essendo tutta paludosa, è piena di ingegnose coltivazioni galleggianti: la terra su cui coltivare è stata depositata su “letti” di alghe e piante lacustri, che la tengono abbastanza ferma, e le radici ramificandosi rinforzano il sostegno di base. Queste coltivazioni in acqua vengono tenute in efficienza con continui lavori di manutenzione, togliendo o aggiungendo fango e erba, e canne di protezione. A fianco ci sono i villaggi palafitticoli, che sono più di una decina; poi in tutto il bordo paludoso del lago ci sono canali grandi, canaletti secondari stretti, canaloni di grande scorrimento e traffico di barche e barconi, come in una città con le sue strade, vie e viottoli. Insomma bisogna essere dei gran conoscitori del posto, come doveva essere prima delle bonifiche nelle nostre “valli” nella provincia di Ferrara, cioè nelle paludi comacchiesi del Delta. Solo gli abitanti, i pescatori e i coltivatori locali si sanno districare. Arrivando in questi centri abitati su palafitte ci pare di essere andati indietro nel tempo e poter vedere coi nostri occhi come erano all’origine Venezia o Chioggia nella laguna tra i canneti, nell’Alto Medioevo… Dicono che qui l’aria sia più fresca essendo più ventilato, e –al contrario di quanto si possa pensare- nei villaggi non esiste la malaria. Poi ci sono i pescatori, essendo il lago molto pescoso, che come dicevo remano in un modo tutto particolare tenendo il remo con una gamba. Il lago è pieno di paletti appena affioranti a cui attaccano le loro ceste-trappola e le reti.
Andiamo in un altro villaggio di palafitte dove entriamo in un negozio di tessuti, e lì ci fanno vedere una specialità esclusiva del lago Inle. I magnifici fiori di loto, che qui si chiamano padonmar kyar, pur essendo delicati si innalzano dalla melma del fondo con un gambo che si slancia in alto sino a raggiungere la superficie e fiorire sopra al pelo dell’acqua. E’ perciò anche un simbolo della aspirazione alla illuminazione nel buddhismo, ed è presente in ogni pagoda. Dato che in un testo antico, lo Zi-natta Pakar Thani si narra che al principe Siddhartha venne offerta una tunica monacale da un essere celestiale che disse di averla presa dal bocciolo di un fior di loto, allora qualcuno cercò di imitare quello straordinario dono. Durante la festa della luna piena di Thandingyut si usa rivestire le statue dei Buddha con drappi, e così una donna del Lago Inle volendo offrire qualcosa di speciale, realizzò con i filamenti sottili e bianchi che si trovano nello stelo, tessendo queste delicatissime fibre, un drappo morbido e soffice. Nacque così l’attuale tradizione del “lotus fibre weaving”, che è unica al mondo. Un altro gioiello straordinario del Myanmar.
Poi ripartiamo e corriamo in velocità per vari canali e canaletti, e superiamo vari sbarramenti tipo chiuse di bamboo per regolare i dislivelli d’acqua. Bisogna centrare alla perfezione i passaggi che sono tra due paletti larghi proprio come una di queste lance a motore e fare il saltino all’insù o all’ingiù per superare i dislivelli. Ad un certo punto c’è un porticciolo in un villaggio sulla terra ferma (degli Intha?), dove scendiamo, e di qui camminando per un sentiero di terra si giunge ad uno spiazzo e si entra nel mercato contadino (detto zei), di questa zona. Questi mercati paesani che si spostano con un ciclo di rotazione di cinque giorni sono anche più interessanti di quelli sull’acqua. Molto bello e variopinto, ordinato e pulito (sempre relativamente al contesto) e colorato. Assistiamo anche, in due tende, allo svolgimento di giochi d’azzardo, forse non legali dato che qualcuno si avvicina a Michele dicendogli che non può fare foto. Sul terreno ci sono dei disegni colorati e in fondo ci sono due paletti che fermano una stanga storta tenuta con un cordino che trattiene dal cadere tre grossi dadoni colorati con quei disegni sui lati al posto dei numeri: un elefante, una tigre, un pavone, un granchio, una aragosta, e un pesce, tirando il cordino solo un dadone per volta può cadere e loro puntano sull’uscita di queste triplette in combinazione. Oppure in un altro tendone anch’esso circondato da un gran affollamento di persone accalcate per vedere, si punta su certi numeri o lettere, e viene per questo fatta girare una trottolina con su attaccato un dado (tipo il dreidel yiddish), e si punta gettando i soldi su un tappeto nero con i vari simboli in bianco. La gente è silenziosa e tesa, ed alcuni puntano molte banconote. Il più delle volte sono biglietti sporchi e consunti, di quelli vecchi di piccolo taglio, comunque si tratta sempre di rischiare dei soldi.
Dal mercato, che è così ricco di cose da vedere e di gente con costumi diversi, ci dirigiamo a piedi (in questa area non esistono altri mezzi data la ristrettezza dei sentierini) verso un tempio che visitiamo. Dopo aver regalato delle caramelle di tamarindo e degli shampoo a un gruppetto di bambini e bambine, io mi attardo lungo il percorso sotto un bell’alberone perché fa molto caldo. Ma poi da lì giriamo verso una zona piena zeppa di centinaia di antichi piccoli stupa abbandonati e in rovina nella jungla. Si tratta della collina di Kekku, e dei templi di Shwe Indein. E’ emozionante girare essendo soli alla scoperta di questi resti ricchi di fregi e bassorilievi a volte bellissimi, e ci si perde un po’. Poi al ritorno scendiamo invece per il percorso con scalinate coperto da un colonnato con tetto, che è pieno di bancarelle, ma siamo gli unici che lo percorrono.
Infine torniamo a malincuore alla barca perché è già l’ora dell’appuntamento che il barcaiolo ci ha dato sul sentiero lungo il fiume. Riprendiamo la barca ed andiamo in un altro villaggio dove visitiamo un antico monastero tutto in legno, pieno di gatti, famosi per gli spettacoli di salti che i monaci li hanno addestrati a fare, ma che ora non si svolgono perché il monaco sta dormendo sulla sua sdraio di vimini, e i gatti pure. Il monastero è molto bello e ricco di scorci, angoli, chiaroscuri e giochi di luce, in cui in silenzio vari monaci passano. Il monastero si chiama Nga Hpe Kyaung cioè monastero dei gatti saltatori (jumping cats).
Torniamo a Nyaung Shwe all’imbarcadero principale e andiamo al solito ristorantino-bar cinese da dove partiamo con Myo in macchina verso l’altopiano Shan.
Arriviamo dopo un paio d’ore a Kalaw (pronuncia Kalò) in montagna, a 1330 metri. Andiamo a sistemarci nel bel “Dream Villa” Motel, tutto con interni rivestiti in legno, con belle decorazioni, molto pulito e ordinato, prendiamo una bella stanza in alto con finestre d’angolo panoramiche e un bagno impeccabile con le solite pedule da bagno a disposizione, venti dollari (14 €uro) per la camera doppia con prima colazione inclusa.
Giriamo per la cittadina, guardiamo i negozi e il mercato comunale, c’è pure un bello stupa, o zedi, ricoperto di ceramiche e piastrelle lucide. Il mercato fisso è ordinato e pulito, con bancarelle e negozietti (dove compriamo biscotti, un cake, acqua), mentre il mercato contadino esterno è periodico, e si svolge prevalentemente per terra. Si vedono varie etnie con i loro costumi, ma è più caotico e anche più sporco. In vari “punti-ristoro” fanno delle frittelline, e dei pancakes ripieni di verdure e/o carne trita, o a pezzettini con cipolle e aglio, ma l’olio di palma della frittura lascia un po’ a desiderare.
Alla sera in albergo sentiamo il sonoro di un film e poi una interminabile conferenza-lezione con l’altoparlante a tutto volume che proviene dal vicino monastero dove c’è una cerimonia molto affollata. Sapremo poi che erano convenute migliaia di persone (a saperlo prima…).
L’impero della coca e dell’oppio che sino a pochi anni fa dominava la scena su questi monti, ora pare che sia stato in gran parte debellato.
martedì 31 maggio
Fatta abbondante colazione, viene a prenderci Myo e partiamo alle 8 in punto per attraversare le montagne Shan e poi scendere in pianura verso Mandalay.
Per tutto il percorso sulla High Land Road nello Stato Shan la strada statale è in pessime condizioni, e infatti è iniziato il suo rifacimento (che chissà quanto durerà) il che comporta se possibile ulteriori difficoltà. Sembra più una strada provinciale o meglio comunale di un qualche paesino di montagna che non la via nazionale di collegamento tra il Lago Inle e Mandalay … In effetti è piuttosto trafficata a causa del trasporto del legname dalle piantagioni di tek (o teak), o di altri legnami pregiati come il pyinkadoe (il cosiddetto “legno di ferro”), dei vastissimi boschi montani, giù in pianura fino al grande fiume Irrawaddy (o Ayeyarwady).
Attraversiamo molti villaggi e molta giungla fitta, il panorama è vasto. Incontriamo un elefante-operaio forestale, vari cavalli, mucche sia con la gobba che senza, bufali, capre, maiali, eccetera. Un serpente ci attraversa la strada davanti a noi. Le palafitte dei villaggi dei montanari sono ben curate, con pareti in stuoia belle, e con decorazioni di legno traforato.
Il traffico è prevalentemente di grossi trucks ed altri veicoli pesanti con o senza rimorchio, pullman, camion, camioncini, camionette per il trasporto delle persone, vari tipi di veicoli, e alcune auto, ma molte moto, motorette e ciclomotori. Il fatto che praticamente tutti abbiano il volante a destra crea ulteriori difficoltà, oltre alle cunette, pozze, buche, rotture del bordo dell’asfalto, sassoni sui lati di emergenza, eccetera. Viaggio molto lento, faticoso, sballonzolante, e pericoloso. Poi giù in pianura c’è il grande caldo torrido da 40°. Dopo Thika e in particolare dopo la rovente Thazi junction, siamo oramai usciti dal territorio shan, e inizia una “autostrada”: siamo rientrati in Birmania.
Mandalay, la vecchia capitale del regno sino alla conquista britannica (la “città dorata del mandala” divenne capitale poco più di due secoli fa), è città cosmopolita, in cui vivono molte delle etnie del Myanmar, e convivono molte religioni, e inoltre ci sono molti cinesi yün, indiani di varie origini, singalesi e nepalesi. Ha 900 mila abitanti ed è la seconda città del paese. Giunti al “Peacock Lodge” verso le 2 o 2 e mezza, dopo 180 km di quella strada e sei ore di auto, ci sentiamo meglio. Il proprietario di questa pensione famigliare, è il giovane Nyein Win Tun junior, molto gentile e premuroso, che parla finalmente benissimo un corretto inglese fluente; come pure sua moglie che lo aiuta nella gestione. Do subito da lavare le nostre cose. Dopo che ci siamo riposati, fatti una doccia, rinfrescati, Tun jr ci offre il solito thé verde ben accetto, e non solo in quanto simbolo della ospitalità birmana, e poi ci da due biciclette per andare a vedere la città. Poi alla sera conoscerò anche Mister Tun senior, suo padre, U Tun Kyaw, un vecchio signore molto simpatico, che aveva studiato in una scuola alberghiera in Georgia, Usa, nel 1960, dove poi è tornato nel 1978, e che infine prese il diploma alberghiero in un corso presso l’università di Roma nell’81, e quindi ricorda anche alcune parole di italiano e ha un bel ricordo di Roma e una grande simpatia per gli italiani, che dice essere diffusa da quando all’inizio del novecento un italiano, il conte Caldari, fu il primo a ricoprire la carica di segretario del municipio di Mandalay (anche a proposito di re Thibaw si dice che avrebbe gradito affidare o alla Francia, o se no all’Italia il protettorato del suo regno, pur di non cadere sotto gli inglesi, ma forse ci pensò troppo tardi…).
Leggo in effetti in un vecchio libro fotografico sull’Asia di C.Canali, edito da Bertarelli nel 1936, che sotto re Mindun venne nominato direttore della tessitura reale di broccati e velluti per ammodernarla, un certo Moroni, che sposò una birmana ed ebbe una figlia chiamata Fanny. Morti i genitori e il marito, comandante di una flotta fluviale, Fanny venne presa a corte come dama di compagnia, sotto il successore, re Thibaw. Innamoratasi dell’agente del governo francese Bonvoisin e da questi poi tradita e abbandonata, si rivolse al signor Sandreino, che dirigeva la Bombay-Burma Corporation, consegnandogli documenti che provavano la disponibilità del monarca a trattare con la Francia (che aveva conquistato tutta l’Indocina). Ma l’italiano li fece pervenire al governo britannico, che si mosse lanciando un ultimatum al re birmano. Così racconta F.Teennyson Tesse nel suo libro The Lacquer Lady (La Dama di Lacca), soprannome sotto cui si riferiva a Fanny … Inoltre altrove leggo che il naturalista genovese Leonardo Fea in quegli stessi anni girò in esplorazione per tutta la Birmania e raccolse una rara collezione etnografica, che, giunto a Mandalay, perse durante l’invasione britannica, e conseguente insurrezione e saccheggio della città nel 1885; andò a Rangoon e spedì in Italia quel che gli era rimasto, e poi rifece tutto il viaggio per raccogliere reperti e scrivere la più dettagliata descrizione geografica, naturalistica, etnografica e storica del regno birmano oramai vinto.
Dunque andiamo in bici verso il centro! Che bello! e in effetti il nostro Lodge è nella 60esima strada, un po’ lontano, ma in bici è una questione di neanche un quarto d’ora. Tun ci da il biglietto da visita che è da un lato in inglese e dall’altro in birmano con sotto la scritta in birmano di “indicare o accompagnare per favore all’indirizzo dell’albergo”, per sicurezza.
Giriamo un po’ in bici, che è una bella sensazione di libertà. Le stradine laterali sono un po’ campagnole, ma in quelle principali, come la vicina 26esima c’è un traffico notevolissimo soprattutto di moto e motorini, e anche di biciclette, ma pure di auto, camion, camioncini, trishaw a pedali o motorizzati (a Mandalay ce ne sono 13 mila di questi tut-tut a motore), eccetera.
Ma subito ci dirigiamo verso l’entrata est del palazzo reale che è l’unica accessibile agli stranieri. Comunque quando giungiamo in vista del palazzo restiamo sbalorditi. Lo spettacolo è impressionante: è un quadrato di 2 km per lato con un muro alto 8 metri e con torrette agli angoli e una grande porta ad ogni lato, contornato da un fossato con acqua di 70 metri di larghezza… Sembra di fiancheggiare la città imperiale cinese, e così mi sembra che noi due qui in bicicletta, unici bianchi che si vedano nei paraggi, siamo un po’ come Tiziano Terzani e il figlio Fosco a Pechino…
Ma purtroppo l’entrata est è già chiusa agli stranieri, essendo oramai passate le quattro p.m.. Scherzo un po’ con i soldati di guardia, e dico che noi siamo sfortunati, ma stentano a capirmi, nonostante io faccia tutta una scenetta con descrizione del viaggio aereo mimato dalle dita della mano, e poi il tragitto in auto e ora in bici… per trovare infine che è appena chiuso.
Gironzoliamo sotto un sole cocente (forse sono davvero 40° gradi….), e siccome sbagliamo due volte strada a causa dei sensi unici, alla fine sostiamo alla “Royal Guest House”, che era l’alberghetto consigliato sulla guida LP, per prenderci un po’ di aria condizionata, due bibite, e rinfrescarci. Chiacchieriamo con quello al banco che parla bene inglese (c’è anche un giovane turista) e ci distraiamo.
Al ritorno faticheremo un po’ a districarci tra strade vere e proprie e vicoli, e non riusciamo a localizzare la 60esima, anche perché i numeri non sono quelli nostri ma con la grafia birmana, ma un paio di persone ci indicano infine la direzione giusta. Intanto vediamo donne, bambini, e uomini che si fanno la doccia a secchiate, o che si lavano nei lavatoi pubblici, pur restando sempre vestiti. Tornati al “Peacock” troviamo che ci sono anche due ragazze, e mangiamo dei noodles che ci prepara Shee Sue, che però ancora non mi ha restituito la roba lavata che è certamente già asciutta, sarà per domani. Ora saliamo in camera per farci una doccia e subito andare a nanna. Ma sotto la nostra stanza, cioè sotto il balconcino davanti alla nostra porta, stanno dando lezioni di un’arte marziale e restiamo lì un po’ a guardare.
Sto recuperando quella leggerezza d’animo che mi apportano di solito i viaggi di questo tipo, diciamo i viaggi di conoscenza. Si percepisce che la realtà dell’umanità è grande, varia e complessa, che le civiltà sono molteplici, e così le etnie, i costumi, le lingua, le espressioni del pensiero, i volti…. E questa grande varietà mi consola, e mi interessa.
E poi ci sono i viaggiatori, i curiosi impenitenti, che girano, che vanno in giro, che vanno a vedere, a constatare, che si decontestualizzano, Mi piace questo, mi da un senso di libertà e anche di liberazione da schemi, consuetudini, ruoli rigidi, routines…. Ci si incontra e si trova subito che c’è qualcosa di comune interesse di cui poter parlare.
1° giugno, mercoledì
Scendo presto giù in giardino ai tavolini per fare colazione. Chiedo a Shee Sue, la cameriera, se hanno per il breakfast un po’ di yoghurt, ma non mi capisce, e gira la domanda al monaco giovane che sta seduto al tavolo dove poi arriverà una ragazza occidentale che sta qui e che lui conosce; effettivamente il monaco conosce meglio l’inglese della camerierina, ma non capisce proprio, anche se glielo scrivo, allora uso il termine lassi, ma senza esito migliore. Solo Mr Tun senior capisce che cosa sto chiedendo e mi risponde che i birmani non usano mangiarne, e poi loro pronunciano “yoga”, e quindi da qui è nata una ulteriore confusione. Mr Tun è sempre in giardino al mattino dopo la colazione e se ne sta in silenzio su una panchina più in là per conto suo. Quindi non conoscono lo yoghurt né il lassi …, ma pensa che strano! ma non ce n’è effettivamente bisogno (intendo per lo meno per raggiungere gli effetti che di solito ci si aspetta da loro), anzi invece è proprio una buona cosa che ci sia sempre una bowl (tazza) piccola o grande di riso bollito al vapore, sticky cioé appiccicoso (per l’ amido condensato e perché è un riso con molto glutine), e una bella tazza di thé verde (che a volte invece è color ambra pallida)… che sono un po’ astringenti.
Alle sette e mezza partiamo con l’auto per andare ad Amarapura, appena fuori Mandalay, dove si trovava in precedenza la capitale (conformemente alla tradizione la capitale veniva cambiata ad ogni dinastia). E’ una tipica cittadina campagnola, dove c’è un grande quartiere, il Maha Ganayon Kyaung, detto anche il distretto monacale. Qui ci sono vari “collegi” per novizi (e non), molto vicini l’uno all’altro, proprio fitti e densamente abitati da migliaia di monaci e monacelli, tutti stipati in grandi camerate comuni. In effetti tutti i birmani passano un periodo dai tre ai sei mesi in un monastero a fare apprendistato religioso; e in totale monaci /che ammontano a più di un milione e mezzo!. Alle 10 e mezza vanno a pranzo (essendosi alzati alle 5), e quello è lo spettacolo da osservare: cioè il vederli convergere e mettersi ordinatamente in fila indiana, in quattro file, per sedersi alla mensa comune per il loro pasto silenzioso in un vecchio edificio in legno che contiene tantissimi tavoloni e panche. Sbirciamo anche nei dormitori, ci sono monaci di tutte le età, anche se prevalgono i giovani e i ragazzini, e ci sono pure dei bambini. Poi andiamo verso il fiume Ayeyarwady che scorre potente, è un bel posto sulla riva, ci sono tanti alberoni ombrosi e un sentiero lungofiume. Torniamo indietro e vediamo dei monacelli che si lavano con l’acqua del lavatoio, e altri che studiano.
Dopo di ché andiamo verso la collina retrostante, la Sagaing Hill. Saliamo lungo la scalinata coperta. Si gode di un panorama ampio molto bello delle paya e degli stupa disseminati dovunque a centinaia (sarebbero più di 500). Saliamo alle Trenta “grotte” con altrettante statue del Buddha allineate a semicerchio; e poi su in cima ad uno stupa del 1300 (Su Taung Pyi). Scendiamo ad uno stupa a semisfera (un po’ fantascientifico), Kaung Hmu Daw, in un tempio con sale tutte di specchi, che mi ricorda il palazzo dei cristalli descritto nel romanzo di A.Gosh.
Torniamo giù a Sagaing e visitiamo una fabbrica artigianale di arazzi molto belli. Ma nei capannoni c’è troppo soffoco… e io esco. Poi andiamo a vedere la lavorazione a cielo aperto del marmo di una cava vicina. Poi entriamo in un laboratorio artigianale di lamelle e foglietti d’oro. Dove, anche qui, ci viene illustrata la procedura di lavorazione tradizionale. Impressionante! alla fine di un complesso e lunghissimo procedimento si ha un foglietto d’oro di 2 – 3 micron….
Andiamo poi a vedere la pagoda Mahamuni dove c’è un Buddha dorato molto popolare e venerato, che ha acquistato a furia di quelle foglioline e foglietti d’oro uno spessore di 15 cm. di oro puro… In questa paya le donne devono limitarsi ad uno spazio che sta di fronte alla statua e non possono (o non potrebbero) girargli intorno.
Poi ci dirigiamo verso la visita di Ava (o Awa, o Inwa), una antica capitale. Attraversiamo il fiume con una barchetta (il nostro biglietto è già pagato) e di là ci sono una serie di carretti tirati da cavallini, e con uno di questi attraversiamo vari villaggi di contadini lungo una via di terra battuta tutta sconnessa che fa traballare moltissimo il carretto. Anche queste capanne hanno la struttura di pali di legno e sono su palafitte in modo che sotto possono stare all’ombra, oppure usare quello spazio come deposito di cose, o come ricovero per animali domestici, o stendere ad asciugare i panni. Le pareti sono anche qui di stuoie con intrecci che formano dei disegni geometrici. Per pavimento usano stuoie più grosse e spesse con sopra stuoie più sottili e lisce. Ci sono tavolinetti bassi, pentolame, eccetera… Le scale sono spesso decorate con fregi di legno sottile intarsiato. Le porte e le finestre sono fatte delle stesse stuoie e “ritagliate”. Ci sono maiali, cavalli, capre, pecore, cani, gatti, e anche altri animali come buoi, mucche, bufali, anche oche, anatre, papere, ecc.
Dopo aver pagato un ticket per stranieri di 3$, visitiamo un vecchio monastero Bagaya tutto in tek (che qui pronunciano tik) con pali e colonne poderosi, neri a causa di un incendio, che nella penombra hanno un che di potente e misterioso. Il resto tutt’attorno sembra come al solito abbandonato: aveva queste stesse impressioni anche Alberto Arbasino nel suo viaggio del 1996 (cfr. in “Passeggiando tra draghi addormentati”, Adelphi), durante il “visit Myanmar year” che fu lanciato dal governo per aprire il paese al turismo estero.
Il carretto a cavallo traballa vistosamente anzi un po’ troppo, a causa della strada di terra che dopo essersi bagnata per le piogge torrenziali, si è poi seccata e indurita in modo difforme e ha mantenuto i solchi profondi e le increspature del fango su cui erano passate le ruote di legno dei carri.
Al monastero Maha Aungmye Bonzan ci ferma un pittore di quadretti dall’aspetto più cinese che shan, il quale ripeteva e ripeteva continuamente quest’unica frase: “I make it, I make it”, ossessivamente, non sapeva dire altro in inglese. Alla fine Miki gli compera un suo quadretto, di scarsa qualità estetica peraltro, e così infine si azzittisce.
Dopo la visita ai vari monumenti e resti archeologici, e il bel giro in campagna, andiamo fin sotto il famoso ponte di tek U Pain, o U Bein, molto suggestivo e romantico. Ci facciamo i 2 km e mezzo avanti e poi indietro, con alcune pause all’ombra dei casotti di sosta (ci sono 41° gradi e umidità). Come si sa, è il ponte in legno di tek più lungo al mondo, ed è pure molto vecchio, essendo del 1849, e comunque è uno dei ponti pedonali di legno non solo più lunghi ma anche più suggestivi e scenografici. E’ piuttosto alto con i suoi più di mille grossi piloni in tek, e ha questa forma in curva che lo rende particolarmente bello, In più ci sono sopra tutti i suoi pedoni con i vari costumi, con le ceste, con i vasi e le brocche in testa, e quelli che lo attraversano in bicicletta (pur essendo un po’ strettino per farci stare anche dei mezzi…). Dal basso è molto suggestivo, sono innumerevoli le foto o i filmati che ritraggono da terra il suo traffico controluce lassù. Arrivati al villaggio dall’altra parte, restiamo un po’ nel bar della spiaggia a guardare questo bellissimo panorama; è bello anche dal ponte guardare giù il fiume, le paludi, le barche, i pescatori, i canneti, gli animali che brucano, le papere e le anatre, o altri uccelli, i bimbi che giocano in acqua, ecc.
Al tramonto lo spettacolo è effettivamente molto pittoresco, e il traffico di gente aumenta parecchio, per i monaci che fanno la passeggiata verso il paese o per i paesani che vanno a passare la sera dall’altra riva. Ci accompagna per un bel po’ Inthe, una ragazzina di 13 anni un po’ handicappata ad una gamba ma agile, che viene dal villaggio di Same-same, è bruttina ma è molto carina, dolce e gentile, le do un aiutino in kyats senza comprare nulla, e a differenza di altri, accetta e ringrazia.
Rientrati al nostro “Peacock” chiediamo se c’è un posto per cenare, e andiamo a piedi (con la pila) in un ristorante cinese dello Yünnan. Qui anche gli orologi hanno i loro numeri in birmano, e la scrittura è troppo difficile da imparare, perché sono in pratica tanti cerchietti con interruzioni o gambette e cosi sembra davvero tutto eguale (la scrittura birmana fu studiata da Carpano da Lodi alla fine del settecento, e poi da padre Mantegazza, e da padre Sangermano, giunto qui nel 1783, che pubblicò poi a Roma una relazione sul regno birmano). Per fortuna per tornare di sera abbiamo avuto l’ aiuto (anche se assai raro) di alcune rare traslitterazioni, oppure semplicemente chiediamo a qualcuno, e sono sempre molto gentili e pronti a dare una mano. Ed eccoci di nuovo al “Peacock” (ma la roba lavata non è ancora pronta, e allora mi faccio dare lo stesso da Shee Su qualcosa anche se non stirato, perché oramai ne abbiamo proprio bisogno).
2 giugno, giovedì
Al solito faccio una chiacchieratina con il vecchio Mr Tun, che mi racconta che la casa dove stanno loro lì accanto era la casa di suo padre, il quale fu anche l’ultimo sindaco di Mandalay prima della seconda guerra mondiale. Mi dice che lui ha 84 anni e che si ricorda di quando loro avevano varie terre e coltivazioni, poi il regime militare socialista gliele ha requisite, e ora a parte un campicello con orto, hanno solo la vecchia casa e la guest house, che è l’unica fonte di reddito rimasta. Lui si ricorda i tempi di Aung San, è un “nostalgico” di U Nu e di U Thant, ed è stato un acerrimo avversario di Ne Win e del Partito del Programma Socialista Birmano, e dunque è sostenitore di Daw (=zia, affettuoso epiteto di rispetto) Suu Kyi, la premio nobel per la pace, figlia di Aung San.
Stamane andiamo presto all’imbarcadero commerciale sul fiume, che è un grande e caotico e polveroso approdo di imbarcazioni più o meno grandi, con via vai di camion, e un gran lavorare a scaricare e caricare merci. Saliamo su un battello che fa anche servizi per passeggeri, che ci porta al di là, sull’altra riva, ma un bel po’ in diagonale, a Mingun (anche questa una antica capitale). Il trasporto è già pagato. Ci siamo solo noi sulla barca. All’inizio c’è un po’ di aria e poi viene sempre più caldo (di nuovo 41°), per cui ci mettiamo all’ombra del casotto di guida.
Il più giovane battelliere mi avvicina con la scusa di mostrarmi collezioni di foto, cartoline e libri illustrati su Mingun, e intanto ci prova, mi palpeggia leggermente, ma io resto indifferente, sinché il palpeggio diviene del tutto esplicito e pesante, e di fronte alla mia imperturbabilità mi sussurra “you dont?”, io dico tranquillamente “not” e allora semplicemente se ne va, proprio come se nulla fosse stato, lo osservo ma mi pare che non commenti la cosa con nessuno.
All’arrivo ci attendono ben tre carri campagnoli tirati da mucche, ma noi andiamo a piedi, perché abbiamo voglia di camminare e prendere un po’ d’aria che ora si è di nuovo sollevata.
Si aggregano subito a noi il giovane Chow Mi, e poi varie ragazzine come Phyo (leggi Più), detta più-più (che vuol dire bianca), e altre di cui non ricordo il nome.
Ritorna il grande caldo torrido. Michele sale sulla imponente e impressionante pagoda Pa Hto Daw Gyi, rimasta incompiuta (per la morte del re all’inizio dell’Ottocento), mentre io resto sotto al bar accanto a due grandi e bellissimi alberoni frondosi, all’ombra anche delle frasche del bar, e mi godo lo spettacolo del luogo, con dal lato della riva due enormi statue incompiute di leoni–grifoni guardiani della pagoda, e dall’altro lato il via vai della gente del villaggio vicino, e intanto bevo una Star Cola fresca. Poi riprendiamo il cammino e giriamo a vedere gli altri monumenti pagando il ticket di 3$ a testa, come la campana enorme (forse la più grande del mondo, sospesa e integra, più grande di quella russa e di altre famose, il cui solo batacchio pesa 7 tonnellate), il monastero, la favolosa pagoda bianca Myatheindan tutta contornata da sette spirali di onde bianche in muratura, e da simbolici rilievi montani stilizzati. Ma sempre più cercando disperatamente il riparo degli alberi perché ora è proprio montato il caldo rovente…
Al ritorno attraversiamo il villaggio, che è pure bellino e interessante da vedere, e poi raggiungiamo la barca camminando lungo la spiaggia. Riattraversiamo il fiume e torniamo a terra, ci salutano (senza che il giovane dica nulla o faccia cenno in qualche modo a delle scuse) cordialmente, e rientriamo in auto al nostro Lodge dove ci addormentiamo subito.
Scendo a mangiare del riso in bianco glutinato, e intanto in camera a Miki viene un po’ di sangue dal naso. Dunque lui non esce nel pomeriggio, resta in camera con l’aria condizionata e il ventilatore, e io vado a visitare il palazzo reale. Ritornato alla porta est i militari mi riconoscono e mi salutano, e anche l’ufficiale sorride; pago i 10$ del biglietto per stranieri per tutta l’area di città e dintorni. Il grande complesso di palazzi che compone la cittadella reale è tutto ricostruito nel 1990 essendo andato anch’esso distrutto, dato che fu bombardato durante i combattimenti finali tra britannici e i giapponesi assediati e lì asserragliati. Il palazzo reale dunque in realtà è una città a parte, una cosa immensa e impressionante, in origine era quasi altrettanto grande della intera città intorno. La sala delle udienze era vastissima, con il trono d’oro del re e della regina, detto “dei gigli”. Loro avevano una propria area privata che era tutta di specchi, the glass palace (che è anche il titolo del romanzo che sto leggendo e che è divenuto un compagno di viaggio complementare) dove pure il letto era di vetro… E così finalmente vedo il “divano” (o trono) dell’ultimo re Thibaw e della regina Supyayalatt, intagliato in legno di mango, e anche la camera e il letto della regina. Ci tenevo perchè di questi luoghi si parla appunto nel romanzo di Ghosh, che inizia proprio con la invasione dei britannici al termine della terza guerra anglo-birmana, e la cacciata in esilio dei due regnanti come prigionieri, per cui il cosiddetto “centro del mondo” divenne una cittadina secondaria dell’impero britannico delle Indie. Poi vedo il bel monastero Shwe Nandaw in tek antico, che è l’unica costruzione rimasta intatta nella cittadella reale dopo la distruzione bellica, il Golden Palace Monastery, dove re Thibaw visse per il periodo in cui fece il monaco lasciando il governo alla regina (ma facendo costruire una sala di ricevimento lì adiacente, semplicemente sontuosa e grandissima, ora ricostruita). I pannelli raffigurano gli episodi delle vite precedenti del Buddha Gautama, e sono veramente belli.
Poi vado a visitare il cosiddetto “libro più grande del mondo” (di cui avevo letto in Arbasino), ovvero la Kuthodaw paya, che fu il risultato di un grande sinodo di 2400 monaci ed esperti chiamati da re Mindon nel 1857 per stabilire il canone definitivo del testo originale più antico dei 15 libri sacri buddhisti, o Tripitaka. il testo fu scolpito in lingua pali su 729 lastre di marmo, ciascuna protetta da un piccolo stupa. Per cui si vede questa selva di stupa allineati, in cui guardando ogni fila si possono vedere come in un gioco di specchi un gran numero di lastre (o pagine) affiancate (nell’anno 1900 si fece una edizione a stampa e ne risultarono 38 volumi da 400 pagine). Poi visito anche la pagoda Sandamuni (che significa: immagine graziosa come la luna piena), che è come il complemento della vicina precedente paya, dove ci sono 1772 lastre di marmo con gli antichi commenti ai Tripitaka. Un po’ più in giù c’è la ricostruzione del monastero (kyaung) che custodiva una molto venerata statua del Buddha con un grande diamante sul capo, che fu trafugata quando i britannici occuparono la città, e poi cinque anni dopo il monastero rimase distrutto da un incendio forse doloso, e andò bruciata anche la biblioteca con quattro raccolte complete su antico “papiro” di banano dei Tripitaka custodite in scatole di tek.
Infine saliamo in auto sulla Mandalay Hill, molto bella per i boschi e per l’aria più fresca che c’è in cima, e il vasto panorama in cui si vede dall’alto la città e il quadrato della fortezza reale. Nel scendere non mi accorgo della scala giusta, e così per ritornare al parcheggio dove Myo mi aspetta, debbo fare un bel po’ di footing nel bosco caldo…(ci sono comunque 42° gradi).
Poi mi dice Myo che Teo, avendo saputo che questo pomeriggio Michele era restato in camera, ha telefonato chiedendo informazioni di noi, di come stiamo, e se tutto andava bene. Che carino e premuroso! Rientrato al “Peacock”, Michele mi dice che Shee Sue è venuta a chiedergli se era tutto a posto, e dopo un paio d’ore anche la moglie di Tun jr, davvero carini.
Domani partiamo, e anche qui non c’è stato tempo per visitare i corsi di meditazione aperti anche agli stranieri, e dunque bilingui, dai seguaci di Sayagyi (titolo reverenziale) U Ba Khin, presso il monastero Bhamaw, peccato… comunque sono sempre corsi o di dieci o di venti giorni al minimo (ma ci sono anche in Italia…).
3 giugno venerdì
Pago i 15€ a notte, ed eccoci di nuovo in viaggio. Belle strade alberate e con fiori, soprattutto tamarindi. Ci sono le solite difficoltà nella guida: non ha lo specchietto retrovisore centrale, il tachimetro e gli altri indicatori del quadro sono rotti, non usa mai le frecce per segnalare che sta per svoltare, non si mette mai la cintura di sicurezza, lungo la strada ci sono come al solito lavori stradali in corso non segnalati, inoltre ci sono varie sconnessioni del manto stradale, il traffico è composto soprattutto da moto, motorini, ciclomotori, piccoli pulmini per trasporto persone, bici, camion, grossi mezzi pesanti, eccetera. Fatti 120/130 km., arriviamo in meno di quattro ore (ed è il caldo che fa sembrare tutto più difficile e lungo) a Monywa (leggi mognuà). Ci sistemiamo in un bel hotel di categoria media (il Monywa hotel), in una bella ampia camera di livello superior, che ci viene data in offerta al prezzo di una standard a 25$ (cioè 17 €uro) con prima colazione. Abbiamo anche un terrazzo con tavolino e sedie.
Una cosa che mi ha colpito molto attraversando in auto questa città, è che ho visto ad un angolo di strada una pensione chiamata Pancherra Guest House….
Al di là della città c’è il bel fiume Chindwin ed è tutta circondata da belle colline e vallate. Per via fiume arrivano qui i legni pregiati, e grazie al nuovo ponte vengono indirizzati in questa direzione tutti i traffici e i commerci con l’India, il che ha fatto rifiorire questa area, che per diversi anni era stata isolata dato che era una “roccaforte” del partito comunista BCP.
Nei dintorni (soprattutto nella vicina Shwebo) si produce la thanaka, una pastella ottenuta macinando su una apposita pietra arrotondata la corteccia di una pianta tipo sandalo, e che tutte le donne di ogni età e condizione sociale (e anche non pochi bimbi) si mettono in vari modi sulle guance tutto il giorno. E’ profumata perché dopo averla ben macinata si strofina con fiori di gelsomino bagnati, ed è di colore giallino. Dicono che protegga dal sole, dia una sensazione di freschezza, e faccia diventar più bella la pelle… ma secondo me (dato che non si vede nessuna che stia senza alla sera quando non c’è il sole, oppure quando vogliono andare a qualche ricevimento e potrebbero far vedere che bella pelle hanno) è un po’ come i tatuaggi in certe culture (anche qui ci sono moltissimi coi tatuaggi, ma oramai è solo una scelta individuale), o le fogge o i colori dell’ abbigliamento tradizionale, o i tipi di cappelli, ecc., un segno distintivo che fa parte della loro cultura, e che quindi loro non considerano come qualcosa di speciale, di particolare, che si usa per una ragione o scopo preciso, ma piuttosto come qualcosa che è del tutto normale, comune, e di fatto è un segno dell’essere del Myanmar. Michele dice che come da noi c’è lo eye-liner o la cipria, o il fondo-tinta, qui c’è la thanaka. Ma in realtà non ci sono che rarissime occasioni in cui non la mettono. E’ un po’ come da noi per i bigodini, deve pur esserci una occasione in cui sfoggi che bei capelli ondulati hai… Avevo detto a Thant Su (che non lo mette perché lei è moderna, ha un taglio di capelli e il colore, come nella moda occidentale) che non capisco perché non si astengano dal mettersela quando vogliono sfoggiare la loro bella pelle liscia, e lei si metteva a ridere. E’ un po’ come il longyi per gli uomini, l’uomo birmano comune non si rende conto che questa specie di gonna-pantalone è un abbigliamento specifico birmano, che lo portano solo loro, quindi non vede come un segno distintivo il fatto di portarlo, bensì come una cosa comune e scontata. E di fatto il longyi è un capo di abbigliamento tipico degli uomini del Myanmar. Così la cipria gialla thanaka sul volto è una abitudine tipica delle donne del Myanmar. Certe se la mettono su tutto il viso.
Mangiamo in una “trattoria” bamar: io prendo chicken lime sauce, e michele mushroom with baby corn & sweet pea, e riso bianco stracotto, e per finire canditi di palma (totale quattro €uro).
Fa molto caldo e sembra di poter vivere solo grazie alla A/C; anche oggi è sui 41°, ma si attendono temporaloni in serata.
Attraversato il ponte sullo Chindwin, usciamo dalla città e ci inoltriamo per un’ora d’auto in una pianura, o altopiano, disabitata, tutta fitta di palme altissime (le toddy palms dal cui frutto si ricava un estratto leggermente alcolico), con pozze di fango, che sono i posti da cui si estrae il rame, e miniere varie con le montagnette di detriti che producono. In fondo in fondo, alla fine, c’è un paesello che porta il nome di un famoso alchimista, U Hpo Win, e qui sono state scavate le rocce con percorsi ricavati da fenditure sotto il livello del terreno. Come già altre volte, ci sembrava un po’ di essere in un vecchio film alla Indiana Jones, nel senso che in certi siti che visitiamo non c’è nessuno, i monumenti sono abbandonati e in rovina tra la giungla, e vanno in disfacimento. E così ogni tanto da un cespuglio spunta un bellissimo bassorilievo o un fregio del 1200, con quelle figurine o quelle faccette molto orientali con i loro sorrisi enigmatici… E magari viene fuori una scimmietta, come quelle dell’altro giorno….
Siamo stati dunque in un posto, chiamato “Hpo Win” Daung Caves, che era un po’ come quello famoso nella gola di Petra in Giordania, tutto ricavato appunto dalla pietra in un canyon; ebbene anche qui c’erano delle fenditure in una roccia e sfruttando quelle, sono andati a scavare sotto il livello del suolo, scale e passaggi con ai lati tempietti e santuari tutti conquistati alla roccia con gli scalpelli.. una cosa incredibile. Ma poi in un posto un pochino più in là (Salingyi) ci si doveva invece arrampicare in alto sopra il roccione, tra la vegetazione.
Ci sono templi scavati nella roccia, corridoi stretti, e varie (492) grotte tabernacoli. Anche qui è appunto un po’ come nei film o in certi fumetti: tutto è un po’ diroccato, trasandato, ricoperto da vegetazione o muffe, aggredito dal tempo e dall’incuria, con attorno sentieri di terra battuta di contadini, bancarelle di cianfrusaglie, o di articoli devozionali, ecc…. Anche qui non c’è nessun altro visitatore, e i luoghi sono deserti e abbandonati, ma ci sono fregi stupendi sulle entrate di certe grotte e sui piccoli tempietti, che ci sembra di scoprire noi ora.
Le scimmiette (bertucce? piccoli macachi?) scorrazzano ovunque e chiedono delle noccioline, sanno ben aprire e scartare i pacchetti confezionati.
Come al solito ci accompagnavano delle ragazzine e dei ragazzini che oltre a cercare con insistenza di vendere i loro oggettini a caro prezzo, sono anche carini e sorridenti e ti fanno strada negli intricati passaggi. Le bimbe di circa 10-12 anni che ci accompagnano nelle fenditure sotterranee si chiamano una Daw-daw (=Do-dò), e un’altra Aye-aye (che si pronuncia E’-é). Invece quelle più grandi che ci accompagnavano su per la salita sulla roccia, non ricordo più come si chiamassero. Ma il caldo è cocente e la roccia infuocata, e dunque io non salgo verso la Shwe Hill, o Shwe Ba Daung, pur avendo appena pagato altri 2$ per la foreigner entrance fee, e aspetto nello spiazzo giù, sotto un bell’alberone, assieme alle venditrici di noccioline e arachidi e a un paio di uomini del villaggio.
Al rientro al nostro albergo, subito scroscia un monsone intenso. Quando poi cessa andiamo fuori coni nostri impermeabilini (presto intollerabili per il caldo) e ombrelli (dell’albergo) a fare un giro, e siamo andati a cercare un mercatino serale che ci avevano consigliato. Si va per le strade in quasi totale oscurità per la solita carenza di lampioni (ma abbiamo la nostra pila). Compriamo acqua e biscotti in un negozietto lungo la strada, e poi si incontra questo insieme di vivaci bancarelle alimentari. Il mercatino si svolge tra il monumento a Aung San, la clock tower e la pagoda Shwe See Gon. Tutti o quasi hanno un loro mini generatore che consente di far rimanere accese le piccole lampadine colorate della loro bancarella. Ogni tanto ancora pioviggina, e intanto assaggiamo delle buonissime ovine di quaglia fritte in una pastella, e delle frittelline dolci, anch’esse cucinate in una piastra, un grande padellone, che ha tanti incavi rotondi in cui mettono l’impasto e le ovine. L’olio è quello di arachidi, e non è rifritto. La ragazza che le faceva era sorridente e molto gentile, e così abbiamo preso anche delle frittelline, e nell’attesa ci ha offerto da assaggiare tre o quattro frutti del jack fruit appena colto freschissimo (spesa totale quaranta €urocents). Riprende a piovere abbondantemente, e rientriamo in albergo contenti di mangiarci in camera questa cenetta.
Invece l’altro ieri avevamo mangiato benissimo in un posto di cucina bamar (birmana) dove io ho preso del pesce tipo sgombro, e Miki degli intingoli vegetariani, naturalmente come condimenti di riso al vapore agglutinato. Ho assaggiato solo una volta quello che è il piatto più comune che vale sia come prima colazione che come pietanza, chiamato mo-hi-nga, ovvero spaghettini di riso in un brodo di pesce un po’ piccante, con banane, scalogno, e pezzetti di uova sode di anatra, con su del coriandolo tritato, e ci si spreme sopra uno spicchio di lime. Mentre l’alto piatto comune è il laphet, l’insalata di foglie di thé conservate sott’olio, che assomiglia vagamente a delle biete amarognole, e lo danno anche come merenda (ci sono anche le foglie di thé in salamoia e zenzero). …ooops e andata via di nuovo la corrente…! mi sa che ora smetto di scrivere, e riprenderò forse più tardi (se non dormiamo subito, come è probabilissimo). Ta tà =ciao ciao.
4 giugno
Ci alziamo un po’ prima, e fatta la colazione partiamo alle sette verso Pakakku. Come prima sosta visitiamo la Thanboddhay pagoda, che ha uno stile unico nel Myanmar, certi dicono che assomigli un po’ a quello di Borobudur a Giava. Anche i colori sono particolari, arancione, giallone, con tanti pinnacolini sul tetto. E la torre dell’orologio anche lei è a strisce orizzontali colorate e con una curiosa forma. Ci sono anche vasche con tartarughine e con pesci rossi, o anche pescioni grossi. Molti bassorilievi o statuette in gruppo, molto colorati un po’ kitsch, come ne avevamo già visti alle caves. inoltre ci sono molti affreschi coloratissimi, con sequenze sulle leggende sopra il Buddha, a scopo didascalico. E poi numerose figure umane, o anche solo busti, con sottostanti scritte esplicative.
Abbiamo poi anche visto lì a fianco i cosiddetti mille Buddha (Boddhi-Tataung), si tratta di un esercito di più di un migliaio di statue del Buddha mentre sta meditando sotto l’ albero di bodhi, e tutte queste statue identiche tra loro in una foresta di alberelli giovani di banyano sotto cui stanno in file ordinate, ha un effetto scioccante e non riesci a distogliere gli occhi da quel bosco abitato da immagini replicate…
Poi andiamo al grande Buddha in piedi su una collina, che domina su una intera vallata. E’ alto 130 metri e si può salire da dentro, Michele ci prova ma dopo il 18° piano c’è un fermo che non consente di proseguire. Proprio davanti allo spiazzo e al parcheggio c’è un Buddha sdraiato di circa cento metri.
Ripartiamo, quindi attraversiamo una piana infinita con palme toddy molto alte, assolatissima. C’è poco traffico, comunque a parte tratti di particolare addensamento, ad esempio qui nel corso di cinque minuti cronometrati abbiamo incrociato, come mezzi che venivano dall’altra direzione: due grossi camion e quattro motorette, provate a fare lo stesso conteggio, orologio alla mano, su una nostra strada provinciale…
Finalmente arriviamo nella calura a Pakakku all’imbarcadero sul fiume Ayeyarwady, aspettiamo un po’ seduti all’ombra in una capanna-“bar” di paglia e stuoie. Mi aggiro fiaccamente a fare qualche foto, in cerca di un bagno che non c’è. Chiedo e mi indirizzano verso una paratia di paglia dietro a cui si usa sgravarsi, ma tra le chiazze per terra non si sa dove mettersi e l’odore col caldo è forte. Intanto arrivano e si accumulano grossi camion.
Il grande ponte oramai è quasi pronto e renderà inutile tutto questo affaccendarsi all’ imbarcadero. Il nostro ferry-boat è in realtà un ferro vecchio arrugginito che viene stracaricato di camion, auto e ogni altra cosa, e si muove lentissimo e ci fa proprio penare. C’è un’aria torrido-rovente (forse 43°): terra, aria e acqua sono calde ed emanano calore, sono le 13.30 / 14 e il sole è spacca-cranio, l’umidità in mezzo al grande fiume di melma certo non manca di dare il suo contributo. Ci chiudiamo tutti e tre in macchina dato che fuori sul ferry non c’è alcun riparo, alcuna ombra, e stiamo seduti dentro con l’aria condizionata che va al massimo. Ma manca l’ossigeno, per cui nella lentezza del lungo percorso fluviale ogni tanto ci casca un po’ la testa e ci si chiudono gli occhi per dei piccoli colpi di sonno. . . Prendo un Supradyn (un multivitaminico) per tenermi su… e beviamo acqua, ma finisce la bottiglia. Per un tempo infinito stiamo barricati dentro l’auto scassata di Myo accesa con l’ A/C, anche se in effetti dopo un po’ mi pare che manchi l’aria, e l’oppressione è palpabile, ma se non altro almeno dai bocchettoni esce del “fresco”. Sembriamo dei pesci tropicali in un vaso di vetro. Ogni tanto mi pare di confondermi tra sogno e non. Intanto che goccioliamo e i rivoli di sudore scorrono, mi rannicchio sulla sinistra per non beccarmi i raggi solari che entrano dal vetro del finestrino destro. Mi proteggo la pelle delle gambe con una camicia sudata. Finalmente si raggiunge l’altra riva: l’improbabile si avvera!
Dopo solo una mezz’ora di strada eccoci arrivati a Nyaung U, e poi al nostro hotel.
Eccoci dunque finalmente a Bagan nel bellissimo resort che avevo riservato per il gran finale degli ultimi giorni, arriviamo e troviamo che ci sono i nostri nomi su una lavagna fuori dal portone di ingresso….!
Qui tutto il mondo cambia: ci ricevono dandoci asciugamanini bagnati freddi, ci offrono una coppa di tamarindo fresco da bere, e con tutti questi sorrisi che ci vengono incontro, entriamo in una bella hall con aria condizionata…..
Subito una buona doccia ristoratrice in camera. E inoltre qui c’è internet, dunque provo a scrivere qualcosa a casa approfittando che tanto fuori piove forte (ma già è andata via due volte la corrente e ho perso due volte tutto quel che avevo scritto….uffa). Questa mail:
“Innanzitutto come vedete, non uso gli apostrofi e gli accenti e le altre stramberie italiche perché anche qui c’è la tastiera doppia: latino-birmana (quindi con meno tasti per noi). Anche oggi c’era moltissimo caldo umido sui 42° gradi, ed è così già da alcuni giorni, per fortuna che alla sera piove (ora ad esempio c’è il diluvio). Per questo (ma non solo) questo tipo di viaggi sono un po’ stancanti, non da vacanza, perché le strade sono quello che sono, le auto, gli alberghi, le “trattorie” eccetera anche…. il pancino dolente spesso non manca di farsi sentire, e quindi non ci sono solo difficoltà linguistiche, e di pronuncia, e di mentalità, e di cultura….. (come comunque ben sapete), e di tastiera. Ma ciò nonostante, è un paese straordinario!”
Alla sera restiamo qui a cenare, e ci sono persino dei musicisti che suonano dal vivo e cantano allietandoci (siamo gli unici due clienti al ristorante) con belle vecchie canzoni americane anni ’70, che si potrebbe pretendere di più?
domenica 5 giugno
Stamattina presto prima colazione a base di frutta freschissima e succosa, con brioches. C’è un uomo d’affari francese che invece è già qui per lavoro, e infatti sta lavorando e non vuole essere seccato dalle strane domande sulla colazione che gli fanno le cameriere; si è fatto apparecchiare un tavolo fuori nel terrazzo con un grande ombrellone, ed è intento sul suo computer portatile, ogni tanto si alza e va a chiedere come mai è caduta la linea.
Il romanzo di Gosh si sta sovrapponendo al viaggio ed è un buon compagno, oltretutto mi spiega varie cose che altrimenti non saprei, ed è proprio un libro sulle incomprensioni tra culture pur compresenti, e sulla incomunicabilità (un po’ alla Antonioni…), tra inglesi e inglesi, tra birmani, tra birmani e indiani, tra cinesi e tutti gli altri, ecc….
Intanto ora è saltata di nuovo la luce… Aung Ma mi aiuta a riaccendere il computer e rifare la connessione internet.
Bagan (o Pagan) è stata dal IX sec. sino al 1287 (quando fu conquistata da Kublai Khan) un centro politico-religioso e artistico di grandissimo rilievo e fama. Tiziano Terzani disse che è uno di quei rari luoghi che “ti rende fiero di appartenere alla specie umana”. La visita di Bagan è molto particolare, innanzitutto perché tra i tanti templi e monumenti e monasteri eccetera disseminati sul suo territorio (circa diecimila), “solo” 2270 sono sopravvissuti alla inclemenza del clima, del tempo, e delle guerre, e tra questi alcune centinaia sono di straordinario interesse storico artistico e religioso. Quindi il primo problema è di sceglierne una ventina non di più che si vogliono visitare. Il secondo è il caldo che opprime questo altipiano, e quindi si va in visita al mattino presto in macchina e poi si fa la sosta (e siesta) e si riprende nel tardo pomeriggio. Il terzo è che bisognerebbe informarsi un po’ prima su quel che si sta per andare a vedere. Il quarto è che bisogna essere “svestiti” adeguatamente, avere con sé un cappello, una bottiglia di acqua, dei soldi, una merendina tipo biscotti secchi, il passaporto, la guida, …
Detto ciò, stiamo girando per posti di straordinaria bellezza e interesse. Anche alcuni che magari in un primo momento non sembrerebbero tanto attraenti, poi si rivelano di rara bellezza. Ma questo ci è capitato già in altre occasioni.
Per esempio stamane abbiamo visitato un grande tempio del 1090, lo strabiliante Ananda (=infinita beatitudine), dal nome di uno dei più amati discepoli diretti del Buddha Gautama, con quattro Buddha dorati rivolti in piedi verso i quattro punti cardinali con dei mudra (posizioni particolari delle mani e delle dita) differenti e delle espressioni differenti del volto (uno in particolare appare serio se lo guardi da lontano, mentre appare sorridente e gioioso se guardato da vicino, grazie ad un artificio scultoreo ingegnoso). Detto così forse potrebbe sembrare qualcosa di non particolarmente strabiliante, e invece è stata una visita ad un luogo magico e stupendo… Oppure durante il percorso che abbiamo fatto in auto nel tragitto di trasferimento verso Bagan, ci siamo fermati a vedere un semplicissimo e antico “monumento” -per così dire- dorato e a forma di grande seme di zucca, che sta sul bordo dell’ ansa di un grande fiume affluente qui vicino, che è straordinariamente moderno nella sua essenzialità…
Iniziamo la visita ai templi disseminati per l’area di Bagan dalla bella Shwe Zigon Zedi, uno dei primi grandi templi, della metà dell’XI sec., edificato su un sito indicato pare da un raro esemplare di elefante bianco. E’ magnifico e impossibile da descrivere a parole.
Anche qui veniamo subito attorniati da ragazzine e bambini. Oltre al saluto, un iniziale strascicato e cantilenato mingalabar… altre espressioni che abbiamo imparato perché molto utili nel confrontarsi con queste piccole venditrici, sono: to bi, ce zubeh cioè no grazie; e ma we do bu = io questo non lo prendo; ma loro certo non si rassegnano solo per queste frasi… così alla fine dopo aver cercato di spiegare in inglese che non abbiamo più soldi disponibili per acquisti perché siamo oramai alla fine del nostro viaggio, dico loro taw ma mare, mi dispiace. Spesso poi quando te ne stai davvero andando via senza comperare nulla, allora accettano il tuo prezzo. Ora qui c’è We-we che insiste molto, e dice e ridice la frase che forse ci hanno detto più di frequente in questo viaggio: “lucky money – lucky money!”, che vorrebbe significare che se spendi quella cifra che ti ha detto, quelli sono soldi spesi bene, un buon prezzo, per cui sei fortunato ad avere questa opportunità. In un esperanto maccheronico un’altra continuava ossessivamente a proporre: “Très for mile! Très for mile!” cioé si offriva di dartene tre pezzi per “soli” mille kyats. Altre espressioni utili che ho imparato sono: ma sar par bu, per chiedere che il piatto cucinato sia senza funghi (sono allergico), oppure shin mai per chiedere il conto.
Ieri sera a cena ho mangiato del pesce ottimo, con patate, passato alla griglia, e una zuppetta di verdure varie, dolce e cremosa, dell’insalata di tofu, per 7$ nel bel ristorante dell’hotel.
Oggi al mercato di Nyaung U non siamo riusciti a fotografare una povera vecchia con gli occhialini, l’ombrello, magrississima, che fumava un grosso sigaro fatto palesemente a mano con paglie varie. Era -come si sul dire- “bellissima”. Le ho dato dei soldi per sedersi ad uno di quei punti ristoro di bancarella a mangiare.
C’era in effetti stamattina presto un mercato bellissimo colorato e vivace. Ho dato dei biscotti a un bimbo e a una ragazzina, e i soldi per comprare le uova a una donnina piccola piccola minuta che me li ha chiesti. E ho dato dei biscotti a una bambina, e poi a un bambino. All’ingresso in un tempio una donna con un bimbo per mano, mi appunta una spilletta fatta a mano da lei con dei pezzetti di carta colorati, che imita una farfallina, per buon augurio.
E’ veramente sconcertante come persino il messaggio sublime del Buddha sia stato a volte distorto, piegato, usato, adattato alle esigenze storiche e sociali. Sono indubbiamente più forti l’usanza, i costumi, le credenze popolari, l’istituzione, le regole, i ruoli, la casta sacerdotale degli uomini amministratori dei riti, delle cerimonie, dei beni dei templi, ecc. che non il contenuto profondo, il senso del messaggio offerto da una grande anima…
Ha la prevalenza la devozione, cioè gli atti devozionali del popolo, l’esplicitazione a livello religioso delle necessità psicologiche popolari delle larghe masse povere di mezzi materiali e intellettuali, e anche di spirito.
Nella sentimentalità popolare è forte la necessità di una protezione, da parte di un essere, un eroe, un santo, un re, un mago, un essere percepito come superiore al comune, che si percepisce che ha raggiunto livelli superiori e che si considera dunque più potente dei comuni mortali; questa sua superiorità la si vede come garante della protezione che si chiede.
In questo contesto si spiegano anche le statue colossali, come il “san Carlone” vicino al Lago Maggiore, o il Cristo del Pan de Azucar (Rio de Janeiro), o il “buddhone” di 75 metri o quello di 130 che abbiamo visitato ieri, queste grandi e impressionanti statuone, per dare l’impressione di una potenza immensamente superiore, gigantesca, quasi appartenesse ad un’altra razza di super esseri. Ma la potenza in questi casi va accompagnata dalla infinita misericordia; è il guerriero buono, il superman che si batte per il bene, quello che a vantaggio di tutti salva il mondo dalla catastrofe come in certi filmoni hollywoodiani, o in certi fumettoni pop. Deve poter essere schiacciante e sicuramente vincitore come la Verità unica e assoluta che egli possiede e che difende. Deve essere una vera e propria forza della natura (come gli antichi dei), o di più, deve darci la certezza incrollabile di avere dei grandi poteri.
Così è a volte, anzi spesso, ridotto lo stesso Buddha (!), a immagine e somiglianza delle misere psicologie umane e delle ansie che producono, una statua cui ci si rivolge con fiducia assoluta implorando il suo aiuto. E ci si inchina, ci si prostra al suolo, gli si dice che può star certo della nostra incrollabile, indeflettibile sottomissione e fiducia totale in lui (e cioè in quella nostra immagine umana che ci siamo costruiti e che abbiamo materializzato di fronte ai nostri stessi occhi). E la gente stravede ipnotizzata da queste immagini che tratta come fossero reali.
In queste pagode, o paya (o pheya), con le loro statue dorate, con i raggi luminosi colorati che escono dalla testa, i loro fumetti con didascalie, le loro pitture illustrative, ovviamente manca il concetto di restauro storico artistico, anche perché anziché far la fatica di essere conservativi di questi antichi beni artistici, basta ricostruire ex novo qualcosa di eguale. Quindi caso mai il restauro è concepito come ricostruzione del pezzo difettoso, o mancante, se non dell’insieme.
D’altronde la replica, la ripetizione dell’identico, è la regola, sia nei riti e cerimonie, che in molte situazioni della vita. Si impara sin da piccoli a rifare sempre tutto eguale e conforme alla regola atemporale e assoluta.
La cerimonia, il rito, i mantra, i mudra, non sono che rispetto della regola data, e sua ossessiva (e compulsiva) ripetizione. E così pure è nelle statue, nelle immagini: è vera quell’immagine che riproduce fedelmente identico l’originale, originario, anzi il modello paradigmatico. La stessa visita agli ateliers dei marmorini di Mandalay o di Sagaing, è stata esemplare, producono solo repliche. Così come pure quelle agli artigiani (abbiamo visto gli orafi, le botteghe degli intarsi in legno, di quelli che fanno gli arazzi, eccetera) che lavorano nel rispetto dei moduli tradizionali, che ripetono le arti, i saperi, le tecniche da sempre in modo conforme alle origini, per avere la certezza della buona riuscita dei risultati prodotti, danno luogo a oggetti di pregevole fattura ma con scarse aperture creative a nuovi moduli, a nuove interpretazioni, possibili solo con una analisi critica che stimoli l’inventiva e il rinnovamento.
Comunque senza dimenticare che proprio in Birmania il messaggio buddhista più puro è stato ripreso oggi in modo creativo per dare vita ad una visione anche sociale, oltre che naturalmente spirituale, moderna, basta leggere U Pandita (Proprio in questa vita), o U Ba Khin, o nella bella intervista di Alan Clements a daw Aung San Suu Kyi (La mia Birmania, 1996, traduz. it. TEA edizioni) le pagine su quello che lei chiama un buddhismo moderno “impegnato”, che partendo dalla constatazione che siamo posti di fronte alla sofferenza, e che siamo soggetti alla legge dell’impermanenza e della transitorietà, e che ogni atto comporta delle conseguenze, per cui dobbiamo essere coscienti delle nostre interrelazioni e delle nostre responsabilità, sia dunque fondato sull’ amore per la verità, sul coltivare la capacità di ascolto, e quindi sulla pratica di tenera amorevolezza, sulla buona intenzione e buona volontà, e sulla compassione, la consapevolezza, l’obiettività, la saggezza, l’attenzione (critica), l’apertura mentale e di cuore, la fiducia nell’automiglioramento, la sincerità, e inoltre sul considerare un proprio dovere dare del proprio meglio, sul coltivare grandi aspirazioni, sull’impegno, e non ultima sulla nonviolenza. Questi i grandi valori di riferimento per la premio Nobel per la pace.
Anche oggi fa caldo (circa 40°), ma almeno abbiamo dormito bene, su un ottimo letto, il condizionatore di A/C non era rumoroso, né c’era bisogno di un ventilatore (che pure lui ha il suo motorino, come anche il piccolo frigo-bar), e il geco, immancabile in ogni stanza, non faceva il suo caratteristico e rumoroso schiocco troppo spesso. Al mattino presto però in quella camera sigillata non si sentivano né gli uccelli, né tantomeno i gridi e i richiami degli ambulanti (e questo invece mi è mancato…).
Siamo andati a visitare durante la giornata una dozzina, o più, di siti. Paya sono i templi, le pagode, stupa quelli a campana o similari in cui non si entra, e infine zedi sono un po’ tutti i luoghi sacri inclusi anche i monasteri (kyaung). Quindi quel monumento a forma di seme di zucca, come anche quei santuari con gli affreschi, sono tutti zedi.
La figlia del pittore di dipinti su sabbia, che si chiamava Min Min, ci regala un suo disegnino fatto rapidissimamente al momento, a me (guarda caso…!) fa un leone-grifo (che è il segno di quelli del martedì…), e a Miki un elefante (il simbolo del mercoledì)…. Sono linee e forme che fa oramai quasi automaticamente con una sorta di stilografica rudimentale.
E’ stato bello sentire la voce squillante di Ghila al telefonino, ma il cellulare ha suonato proprio mentre eravamo nel tempio Dhammayangyi davanti al Buddha nel tabernacolo!… e sono uscito di corsa.
Poi siamo saliti su in cima all’ultima terrazza della Gaw Daw Palin (un grande tempio del 1230 con una base di 65m. per 52m, alto 60 m., con uno stile particolare) per ammirare il panorama dall’alto, di questa distesa di templi impressionante, con una scalinata ripidissima che aveva dei gradoni alti e stretti, aggrappandoci al mancorrente e tirandoci su. Da lassù il panorama era davvero come si dice mozzafiato… tutta la pianura costellata di centinaia di templi, e si vedeva sino all’orizzonte in una serata limpida e ventilata (ma comunque calda).
Stupendo, veramente incredibile, ci sono solo solo templi, solo un territorio consacrato, di 42 km quadrati! Stupendo, incredibile, eccezionale, credo siano le parole che ci diciamo di più in questo viaggio, oltre a: “ma guarda là!”
Poi c’era il problemino di scendere per quegli scalini ripidissimi e molto alti, ma mi è bastato non guardare giù ma solo i gradini, tenendo voltata la schiena come in salita.
Ora nell’albergo sono arrivati due pullman pieni di ragazzi, in gita da un liceo di Yangon. Tutto è cambiato, c’è animazione… Uno dei loro accompagnatori se ne sta tranquillamente seduto su una bellissima poltrona in vimini, ma con le gambe incrociate. Anche Thant Su quando era in macchina stava con le gambe incrociate sul sedile.
Invece qua molte delle ragazzine che vendono la loro roba hanno imparato un pochino di parole in italiano dai rarissimi turisti, … e se le ricordano e le sanno pronunciare abbastanza bene, una volta sentite dire le memorizzano, e così si arrangiano a vendere. Spesso dicono a Michele in italiano: “tu sei bellissimo”, così sperano di ingraziarselo.
Ma anche chi sa solo un po’ di inglese imparato a scuola, anche se la pronuncia rende quasi incomprensibile quel che dicono, alla fine si fa intendere, anche se poi scappano dei risolini di imbarazzo. Ricorderò il sorriso della premurosa Shee Su al Peacock di Mandalay dove siamo stati tre notti, che si sentiva in colpa per le sue incomprensioni (e continue dimanticanze) e faceva i suoi risolini sommessi di vergogna, quando le chiedevo la mia biancheria lavata, o qualcosa relativo alla colazione.
Testo della mia ultima mail: “Ce zu béh (=grazie) per la telefonata graditissima, ma come ti dicevo la connessione del cellulare è discontinua (così come la connessione per internet che sto usando ora, va via Hong Kong….! e per le mail devo usare la versione html di base), e poi molte volte la voce arriva in differita di cinque-dieci secondi. . .”
“Il nostro autista (che ci ha portato dal Lago Inle fino a qui a Bagan), che si chiama Myo (leggi: miù) è proprio originario di Bagan e qui conosce tutto e tutti. Lo invitiamo a fermarsi a pranzo con noi, ma lui qui va a casa della sua famiglia. Domattina ci farà la conferma dei voli in agenzia aerea. Abbiamo quasi finito i soldi ma caso mai cambieremo degli euro che avevo in tasca alla partenza.”
“Stasera a cena ho mangiato chicken fingers, una soup di tomato con verdurine e spezie varie, e un riso all’ananas (non fried rice!) con pollo in un sughetto di certe bietole strane, molto buono. Ora ci tuffiamo a letto. Ho provato molte volte a chiamare a casa sia sul fisso che sul cell ma senza risultati, è la linea che è sempre piena.”
Lunedì 6 giugno
Stamane andiamo in “gita” al monte Popa, una di quelle colline che si vedono in certi acquarelli orientali, che sporgono all’improvviso come una bolla e si ergono come una torre arrotondata (740 metri di alt.) e sono di chiara origine vulcanica. Questo monte è la sede dei Nats, gli spiriti della natura, anzi dei 37 Nats principali.
Lungo la strada ci fermiamo a vedere la lavorazione della palma e di come estraggono lo “zucchero”, il “vino” (un liquido dolce fermentato un po’ alcoolico), e il “whisky” (ovvero la grappa) tratto dalla alta palma toddy. Il luogo è un “bar” all’aperto lungo il bordo della statale, vicino ad un villaggio. Il bar è molto bello e molto ben curato, pulito, arredato con gusto. Tutto è fatto o derivato dalla palma, le sedie, le sdraio, i tavolini, le stuoie, le decorazioni, tutto. Ci mostrano le varie fasi della lavorazione artigianale, dalla raccolta alla spremitura e macinatura, dalla bollitura in forni a legna scavati appena sotto il suolo, sino all’estratto con cannucce che passano il distillato in vari raccoglitori, e infine ai prodotti finali. Ci regalano delle figurine di grilli fatte con le foglie, e poi una borsettina di paglia con dei dolcetti di melassa. Infine comperiamo una bottiglia di liquido fermentato in una custodia di paglia. Devo andare in bagno e la latrina un po’ più in là fatta di stuoie, è come tutto il resto, pulitissima.
Il monte Popa, è a un paio d’ore da Nyaung U, c’era traffico ma è andato tutto liscio. Ci sono spesso lavori in corso per manutenzione; le operaie stradali mettono piccoli mucchietti di asfalto per volta a mano!!!! Il problema del traffico, oltre alla strada troppo stretta e maltenuta, tutta ondulata, con avvallamenti, buche eccetera (il bordo e’ spaccato, le parti laterali per spostarsi e poter passare quando ci si incontra sono di sassoni o ghiaietta scivolosa, eccetera) è anche dovuto al fatto che come già ho raccontato, quasi tutti hanno la guida a destra perché comperano auto usate da Singapore che avendo il volante a destra costano molto meno, e perciò il Myammar è il più grande mercato di importazione di queste vecchie auto; quindi gli autisti non vedono bene quando devono sorpassare….! Per esempio Thant zin, l’autista che ci ha portati a Kyaikhtiyo, aveva preso con sé sua moglie anche in modo che gli facesse da navigator, e gli dicesse quando poteva superare. Inoltre per es. nel difficilissimo viaggio da Kalaw fino a Mandalay abbiamo visto che i camion mettono la freccia a destra per dirti: stai lì, e a sinistra per dirti: passa pure adesso. Ma in certi tratti gli addensamenti sono tremendamente caotici, comunque loro restano sempre abbastanza calmi e non si arrabbia mai nessuno ne’ borbotta o commenta o bestemmia o fa gesti per sfogarsi…
Ogni tanto bisogna pagare un pedaggio, e allora si scambiano tra autista e addetto ai pedaggi, delle stravecchie banconote ormai schifose di piccolo taglio, per fare i pagamenti o per dare il resto. Cioè siccome fare stampare le banconote costa, le autorità hanno deciso di non ristampare più biglietti di piccole cifre, ma solo biglietti da mille. C’erano negli anni scorsi i biglietti più fantasiosi, tipo da 35 o da 45 o 75 kyats, che ora non sono più in corso, però servono ancora, eccome!. Allora la gente li conserva tenendoli assieme con lo skotch, oppure mettendo questi vecchi brandelli rattoppati in bustine di plastica, e così se li scambiano lo stesso. Quindi accade che questi frequenti posti di blocco, diventino in effetti punti di scambio di questi che io e miki chiamiamo straccetti sporchi. D’altronde il valore di una valuta è dato solo dal reciproco riconoscimento, non è sempre così? anche in molte altre cose? è una convenzione, si assume che quel biglietto sia equivalente al valore di.. tot; e dunque ognuno si regola se accettare o non accettare certi biglietti malconci. Se no, ti danno di resto delle caramelle o qualche altra cosa, oppure arrotondano. Certo che è paradossale che proprio in un paese così le banche, e quindi la gente, non accettino dollari usati, cioè non li riesci ad utilizzare se non sono banconote nuove perfette… (credo che sia l’unico paese al mondo in cui non prendono dollari validi e in corso, solo perché non nuovi…).
Dunque questa mattina siamo andati al monte Popa. Quando arriviamo sotto il monte, piove e tutto quanto è dentro una nuvola. I gradini della scalinata per salire in cima sono scivolosi e sporchi (e si deve andare a piedi nudi). Il monte è una collina ripida con su una rocca e un santuario, e si va in pellegrinaggio in cima facendo 777 (settecentosettantasette) gradini anche a volte molto ripidi. La guida dice che ci vuole mezz’ora, ma stamane il tempo era nuvolo e dunque afoso, quindi la salita pesante e penosa. Ma vedo che mi basta andare pianino pianino e faccio di tutto, anche se arrivato su sono un po’ stanchino e sudatissimo.
Qui ci sono dei santuari dedicati ai Nat che sono gli spiriti (benigni e maligni) presenti in ogni dove e in ogni cosa. E’ stato molto interessante e anche bello. Al solito non c’era quasi nessun turista e, a parte una coppia di olandesi che abbiamo incrociato, eravamo come sempre gli unici bianchi.
Solo che gli scalini erano tutti bagnati dalla pioggia, e c’erano moltissime scimmiette (che ovviamente scagazzano e spisciottano) e andare su a piedi nudi non era proprio un vero “piacere”, ma anche se scivoloso, e afoso, come dicevo basta andare molto pian piano, facendo semplicemente un passo alla volta. Vediamo questi strani templi dedicati ai vari spiriti, che sono molto interessanti, ma alcuni sono dedicati anche a venerabili sant’uomini (o donne) che in pratica erano dei guaritori, degli sciamani.
Ma poi, conquistata la vetta, da lassù il decantato panorama è… molto coperto…
Poi siamo stati a visitare una cosiddetta fabbrica artigianale di lavorazione della lacca, e Miki si è lasciato affascinare e ha comperato (credo per un regalo) un bicchiere o tazza di quelle laccate morbide. Sono fatte con una sorta di tessuto molto fitto di crine di cavallo, quello sottilissimo (ma molto forte e resistente)…! e poi una volta fatto un cilindro, lo laccano più volte sinché non diventa liscio e lucido, ma rimane malleabile, elastico e pieghevole….
Sono incredibili… ci vuole una pazienza… e tanto di quel tempo…
Poi ci siamo fermati li a prendere il thé che ci offrivano, che è segno di ospitalità, e viene dato con spuntini di semi di sesamo, noccioline tostate, e dolci di palma, e a fare due chiacchiere con Myo e con il proprietario del laboratorio, in terrazza con tantissima vegetazione fitta fitta tutt’intorno, una bella arietta, era proprio gradevole. E’ una usanza quella di invitare degli ospiti a prendere del thé verde, masticare betel, e fumarsi un sigarone di paglie, facendo due chiacchiere. In quell’occasione è tradizione che si tiri fuori la scatolina laccata per il betel in cui si tengono delle porzioni fatte secondo la mistura di proprio gusto. Intanto che si scambiavano poche semplici parole infatti i due uomini birmani chewingavano il betel e cosi non si capiva bene quel che dicevano con quella noce dentro la guancia, e poi avevano i denti e la bocca rossi, il che non era molto estetico!. Però sono stati simpatici e il thé era davvero molto buono, e c’ erano tanti uccellini che facevano i loro diversi cinguettii. La strada era di terra battuta e ogni tanto passava un carretto con cavallo, o un bue bianco con la gobba. Era il laboratorio artigianale di lavorazione della lacca “Golden Cuckoo” Lacquerware Workshop, al Myin Ka Par Village presso Bagan, di U Tin Htun e Daw Aye Aye.
Rientriamo infine in hotel e ci rilassiamo.
Stupendo pomeriggio e serata. Quasi quasi non avrei voluto più saperne di visitare pagode, e invece anche queste ultime erano particolari, e molto belle. C’era una luminosità speciale che creava bei colori e bei rapporti luce-ombra. Saliamo su una pagoda e il panorama è dolcemente calmo e vasto; l’arietta è ora piacevole e il cielo “alto”. Ancora siamo i soli bianchi, oppure proprio soli in assoluto, gli unici visitatori. Ci addentriamo in edifici deserti e oscuri, ci facciamo aprire i cancelli che li proteggono dai cosiddetti Key Masters che a volte bisogna andare a cercare e a far chiamare, e allora dopo un po’ pigramente arrivano e ci aprono i lockers. Ci aggiriamo per luoghi bui, in cui siamo entrati perché ci sarebbero dei dipinti antichi, o dei bassorilievi, o altro di particolare da vedere, ma non si intravede che ben poco, quel che la penombra e dei raggi obliqui consentono. In altri casi per terra c’è una lampadina con un lunghissimo filo elettrico, basta non schiacciarla e trovare l’interruttore e si possono ammirare pitture murali a secco del 1100/1200 di squisita bellezza o statue, statuette di squisita fattura.
Anche oggi ci è capitato di visitare un villaggio di contadini, che si chiama Me Nan Du. Ci accompagnava una donna del posto, di nome Ma Sue. E’ un villaggio “bellissimo” tutto di capanne di stuoie e frasche. Loro fanno tutto con le palme, la struttura portante delle capanne, i tetti di paglia (ora spesso sostituiti da caldissimi tetti in lamiera ondulata che presto si arrugginiscono), l’arredamento: tavoli, tavolini (tutto è basso), seggioline, sdraio (con bamboo “elastico”, e con poggiatesta e braccioli), grandi sdraio per due, i telai, i vari macchinari per tritare, per filare, ecc, e poi prendono il cuore di palma per i condimenti, eccetera eccetera, perciò quasi tutto non gli costa nulla in termini di denaro (ma “solo” di tempo, pazienza e lavoro, ma quello ce lo mettono loro stessi). Quindi i villaggi sono fuori dal circuito del mercato monetario, non guadagnano soldi. Hanno l’orto, hanno la frutta, hanno gli animali, hanno i campi da coltivare, eccetera. Nei mercati si baratta, e si scambia, e cosi si combinano affari. Ma ora anche loro hanno bisogno di un pochino di soldi per fare certi acquisti, quindi vendono i tessuti che fanno con i loro telai di legno ai negozi, oppure anche vendono pure qualcosa direttamente al minuto ai turisti (e io ho comprato una bella camicia).
Riprendo il discorso di prima: era tutto pulito e ordinato, e c’era silenzio. Si sentivano i vari bambini che facevano i compiti ad alta voce nelle rispettive capanne, e qualche donna che canticchiava. Anche le stalle sono tenute bene. Insomma ci è piaciuto molto. Poi le decorazioni che fanno per esempio sulle scalette (le capanne sono sempre tutte sopraelevate) intarsiando il legno, sono carine. E le stuoie che usano per fare le pareti sono fatte con dei begli intrecci geometrici di toni differenti di paglia.
Mi ha sempre seguito una bambina di nome We-we, mentre Miki era presissimo con un cagnetto cucciolino birichino che voleva giocare.
Poi proprio quando ci ha presentato alla nonna (anche lei con il suo grosso sigaro di paglia) siamo dovuti scappare via per non perdere il tramonto dall’alto di una pagoda. Una venditrice di camice vorrebbe fermarci, ma le spiego la nostra fretta e le dico che comunque oggi è l’ultimo giorno e non abbiamo più soldi; ma lei non mi crede e ci rimane male, le dico che tornerò l’anno prossimo con mia moglie, e lei mi insegue per dirmi di ricordarmi o dire a mia moglie che la sua bancarella è la terza dall’ingresso nord (ogni pagoda ha quattro ingressi)…!
Arrivati, saliamo per un cunicolo stretto con scalini piccoli e ripidi e arriviamo sul tetto dell’ultima pagoda in tempo per il tramonto, che però poi non c’è (!) a causa delle nuvole addensate sull’orizzonte, ma restiamo e ci attardiamo beati a goderci il silenzio assoluto, l’arietta che soffia come una brezza leggera e gentile, e la vista che spazia libera per una gran vastità di panorami. E lassù c’era una atmosfera magica, di sospensione, con l’aria tersa e i colori sino a quell’orizzonte vastissimo erano molto nitidi. E restiamo lì anche al crepuscolo ad osservare dall’alto le mandrie delle mucche bianche con la gobba che si radunano e attraversano prati e rovine archeologiche per tornare al villaggio e poi rientrare ciascuna a casa sua.
Chiacchieriamo con un giovane pittore dei loro problemi di emigrazione (devono pagare tasse altissime per avere il permesso di uscita, variabili a seconda dell’appetibilità del paese di destinazione, ad es. il paese più caro è Singapore, dove tutti vorrebbero andare), e io gli parlo dei problemi che abbiamo in Europa per la grande e crescente immigrazione…
Mi faceva molte domande una dopo l’altra, anche se oramai era già buio, e allora mi è tornata alla mente quella fiaba birmana (a cui si riferisce anche Aung San Suu Kyi), la storia di Pauk Kyine, a cui il maestro disse “cerca di ricordarti per il resto della tua vita questi miei consigli: Più stai in viaggio, e più presto giungerai alla meta; più domande fai, e più tu apprenderai; meno dormi, più a lungo godrai la vita”.
Ri-scendiamo per quel corridoietto stretto (Arbasino diceva: “bui meandri e cunicoli claustrofobici”) e ci facciamo ombra da noi stessi dando le spalle alla apertura esterna per cui non si vedevano bene le scale interne della pagoda. Ma basta fare un solo passo alla volta, pianpiano (oltretutto nei luoghi sacri, ma non solo, si deve essere scalzi) e cosi ci abbiamo messo tantissimo tempo a uscire, ma c’era ad aiutarci questo pittore, che dipinge quei quadretti che fanno in molti qui, cioè: pressano con forza su una telina a rettangolo di trama fine, della sabbia, la lasciano indurire e poi pitturano su quello straterello di sabbia…
Rientriamo in hotel e andiamo su internet a vedere se c’è posta e a spedire mail. Ma non risulta semplicissimo, per l’intanto il leggere, lo scrivere e il mandare mail è moooolto leeeento, e devo fare tutto con la visualizzazione HTML di base altrimenti non va o si impasticcia, e la tastiera non ha tutti i nostri tasti…
Chiudiamo la bella serata cenando a Nyaung U in un ristorantino turistico all’aperto, “A little bit of Bagan“, dove prendiamo lime juice, banana juice, yoghurt (!!), fried rice malaysian style, boiled noodles with chicken, potato soup, e bottiglie d’acqua. Totale 6 €uro e 40 (caruccio).
7 giugno, martedì
Ora mi annoto in ordine casuale alcune piccole cose che mi sono sempre dimenticato di menzionare:
-Mettono sempre dei cuscinetti sottili per sedersi in auto.
-Per fare i conti si scrivono sul palmo della mano.
-Contano con le dita a partire dal mignolo.
-Masticano la foglia di betel assieme ad un po’ di calce, una nocciola di areca, anice, e un po’ di tabacco da pipa, e poi sputano di frequente lasciando chiazze rosse ogni dove. Una “cicca” di betel già preconfezionata si compra in appositi baracchini (dove si trovano anche i sigari, i fiammiferi, e dei dolcetti), e se uno vuole poi ci spreme sopra una goccia di lime.
-Si toccano il gomito destro con la mano sinistra per rispetto. Quindi quando ti porgono qualcosa, o ti danno dei soldi, o ti servono a tavola, o ti salutano con stretta di mano, si toccano il gomito o il braccio con l’altra mano. Con gli stranieri a volte non lo fanno perché sanno che loro ignorano la cosa e non l’apprezzano, e comunque vedono che gli stranieri non lo fanno con loro, ma capiscono che non è per mancanza di cortesia. E’ in ogni modo consigliabile adottare questo semplice gesto gentile e beneducato.
-Hanno vicino ai water un tubetto dell’acqua per farsi il bidet. Hanno spesso lo scarico con dei buchi a terra, e spesso le piastrelle non vanno sino alla parete del bagno proprio in modo da far colare l’acqua in direzione di un buco verso l’esterno. Ma questo non accade nei begli alberghi moderni.
-C’è sempre l’acqua tiepida, e molte volte anche l’acqua calda, ma mai quella bella fredda….!
-Sui tavoli da pranzo nei posti per mangiare c’è sempre una scatolina con della carta igienica, serve per pulirsi la bocca o pulire il tavolo.
-Le ragazze chiedono spesso se hai dei profumini o dei piccoli shampoo da dare loro. Gli studenti chiedono quaderni, penne, matite, gomme… Mentre tanti chiedono se gli puoi cambiare delle monete (di dollari o di euro) che qualcuno ha regalato loro, in banconote, oppure cambiare dei biglietti vecchi e molto usati di dollari, che hanno ricevuto da stranieri, con biglietti nuovi.
-Bisogna contrattare sempre su tutto, anche i prezzi degli alberghi.
-Nell’area tra Mandalay e Monywa abbiamo visto tantissimi camion e camioncini senza cofano, probabilmente a causa del caldo, ma, così scarrozzati, assumono un aspetto molto rudimentale e un po’ buffo.
-Soprattutto in montagna e in collina notavo che molti tengono l’ombrello con il manico infilato nel colletto della camicia dietro la nuca. L’ombrello comunque è molto usato, oltre che come parapioggia, proprio come parasole.
-Il portafogli, o qualsiasi altra cosa, dato che il lungyi non ha tasche, lo infilano nel giro vita dietro alla schiena, e lo si può vedere benissimo.
-Tante volte non è solo che non si capisce quel che dicono per via dell’accento, e della pronuncia (il che vale pure reciprocamente per loro), ma proprio quel che non si capisce è se hanno capito oppure no, perché se ne stanno lì e non sai se hanno colto quel che gli dicevi. Cioè non funziona bene quella comunicazione (fatta di impercettibili movimenti degli occhi o dei muscoli del volto, o di gesti e atteggiamenti) che permette di capire il grado di comprensione del proprio discorso da parte dell’altro. E naturalmente questo vale per entrambi gli “interlocutori”.
-Non si deve “indicare” qualcuno con le dita dei piedi, anche involontariamente (p. es. quando si sta accucciati sul pavimento, o in ginocchio, o con le gambe incrociate).
Ma, come scriveva Tiziano Terzani alla moglie, da Tokyo: “Sono affascinato da tutto questo che non conosco, da questa impossibilità d’intendersi, da questo cerchio misterioso di facce per le quali non funziona il gioco dell’istinto e della simpatia, da questo cerchio di segni che evocano segreti che voglio capire”; anch’io in questi casi mi sento stimolato, divento curioso come lui.
Dopo aver mangiato in hotel patatine fritte (french fries), che di solito sono molto buone e non precotte surgelate, un sandwich, e un pancake di ananas (pineapple), ci avviamo purtroppo al vicinissimo aeroporto di Bagan. Salutiamo Myo, che ci chiede con una scusa di dargli una mancia (20 €uro). Poi oltretutto al check-in viene fuori che dobbiamo pagare mille kyats per ogni bagaglio, e noi siamo davvero agli sgoccioli coi soldi, per fortuna ci bastano proprio gli ultimissimi tre biglietti da mille. Inizia un po’ a piovere, e proprio quando arriva da Mandalay il nostro turboelica, inizia a scrosciare un monsone sempre più forte, sempre più forte. Siccome bisogna andare a piedi dal gate alla scaletta dell’aereo attraversando il piazzale esterno, siamo tutti un po’ titubanti. Ci portano dei grandi e robusti ombrelli, e corriamo, e ce la caviamo con scarpe fradice a causa dei ruscelli di acqua piovana sul terreno, ma resta il fatto che il nostro ombrello era molto bucato (ma con squarci proprio grossi)…
Dall’aereo a turboelica che vola piano e basso, si vede bene l’immensità della estensione di pura foresta vergine tra Mandalay e il nord di Yangon: si vede solo foresta a perdita d’occhio, senza paesi, senza strade… (il territorio ricoperto di foreste è ancor oggi il 50% del Myanmar).
Viene a prenderci Teo con Thant zin e ci risolve i problemi dei soldi anticipandoci qualcosa. Poi per non farci spendere ci porta in una pensioncina famigliare nel quartiere musulmano, che è in pieno centro storico, e costa 15$ (cioè 10 €uro) in due ovvero in camera doppia con bagno. E’ tutto pulito e a posto. Si chiama “May Fair Inn” e sta nella 38esima tra Merchant street e la Strand road. La padrona è sul divano in pigiama e coi bigodini. Ci mette in mano asciugamani, saponino e carta igienica, e con quelli andiamo su in camera; ridipinta di fresco, corretta. Le chiediamo il posto più vicino per cenare, e ci andiamo subito. “Kyaing Tone” (o Phai Lin) è un ristorante hallal, del che non ci importa, ma soprattutto ciò che ci colpisce è che il cibo è infuocato; Michele prende un piatto di riso in stile malese, e dopo i primi bocconi sembra quei personaggi dei cartoni che sputano fuoco e strabuzzano gli occhi! too hot! mancavano solo le trombe a tutto volume. Michele che ama il piccante e che ora ha anche fame, lascia tutto lì. C’è del peperoncino micidiale di grande potenza! Lui è diventato tutto rosso, lacrima e suda, e gli viene un po’ di sangue da naso. Hanno anche lo yoghurt, che in realtà è un lassi che sembra diluito con acqua, ma pensiamo che ci possa fare bene; io prendo anche un succo di lime. Solo che entrambi ci vengono serviti con molti cubetti di ghiaccio dentro; riesco velocemente a toglierli tutti quasi subito con la forchetta. Poi vado in bagno, ma è degno dei cessi di certi squallidi alberghetti del nord dell’India di molti molti anni fa…. c’è pure il suo scarafaggio rosso che sgambetta veloce, e non mancano i miasmi che tolgono l’appetito. Paghiamo e usciamo praticamente senza aver mangiato, e filiamo in camera, dove scopriamo che non c’è il lenzuolo di sopra, ma noi ce ne andiamo subito a letto, mettiamo al solito il condizionatore sui 28° e ci addormentiamo all’istante verso le nove e mezza. I birmani chiamano così i vari momenti della giornata: quando “il sole è alto come una palma toddy”, cioè al mattino tra le 7 e le 8, “l’ora in cui i monaci rientrano dalla questua”, cioè verso le 9; poi la sera, quando “persino i brutti sembrano bellissimi”, e poi quando viene buio, cioè dopo le 6, “l’ora in cui due fratelli non si riconoscono”, a alle dieci, “quando gli scapoli tornano a casa”. Quindi noi siamo oramai ben in sintonia con i cicli orari birmani…
mercoledì 8 giugno (ultimo giorno, sob!)
Andiamo a fare la prima colazione in una Tea House, una “casa”, o sala da thé, o Tea Shop. Quella in cui entriamo è di stile indiano. Ti servono dei piattini con una varietà di dolcetti fritti, involtini, dolci al cocco, dolci di riso, e delle brioches e dei pani, e snacks vari, e dell’ottimo thé al latte dolce (credo sia con latte condensato in scatola, e infatti ne vedo in cucina molti barattoli), che è di un marroncino rosato. Si sta lì a far colazione e a chiacchierare anche lungo tempo. I tea shops sono luoghi di intrattenimento e di slow relax, più che posti da break-fast. Poi però ci hanno fatto pagare tutti i piattini che avevano portato e non solo il numero di dolci che abbiamo effettivamente mangiato… comunque il totale in kyats risulta essere di meno di un €uro e mezzo. Perciò per dire “il resto mancia” dicono “i soldi per un thé”.
Yangon ora che la rivediamo dopo aver un po’ girato il paese, è veramente la grande metropoli moderna. Ed è veramente anche multietnica, c’è proprio di tutto. Nazionalità diverse, religioni diverse, facce, abiti. Certo ha delle parti più sporche delle cittadine o di certi villaggi, però è come si suol dire più “civile”, più “avanzata”, ci sono delle librerie vere anche grandi, internet cafè e internet points, negozi di elettronica, ristoranti di tutte le cucine, bar di tanti tipi, negozi dove si trova di tutto, …
La Sule paya è bella nonostante ora per noi sia l’ennesima pagoda vista. Andiamo a vedere pure la vecchia sinagoga, che era frequentata una volta da ebrei indiani e ebrei mediterranei ed europei, oggi raccoglie solo venticinque iscritti.
Tutto il centro ricorda i tempi coloniali nelle case, nella presenza di chiese, nella struttura urbana a reticoli rettangolari regolari, …
Torniamo in albergo perché oramai sta montando il caldo, ci facciamo una doccia e ci riposiamo. Poi mentre Michele finisce di leggere il suo romanzo di Flaubert, io vado ad un internet point che sta a solo un blocco di distanza, dove rimango più di un’ora al fresco a leggere e scrivere mail dato che qui la connessione è a una velocità normale e non va mai via la luce, alla fine sono 300 kyats, cioè circa 25 €urocents. Più tardi usciamo di nuovo e andiamo a pranzo in una “trattoria” cinese (cucina dello Yünnan forse) all’aperto, ma sotto una tettoia, proprio di fronte a Mahabandoola Garden. Io prendo dell’ottimo chop suey di verdure cotte, e Michele riprova il malayan style rice chiedendo che sia not hot e not spicy. Beviamo Star Cola, ed è tutto buono. Intanto guardiamo la televisione cinese dove c’è un incontro di box. Poi gironzoliamo un po’, ora c’è nuvolo e parecchio vento, e si sta proprio bene. Curiosiamo di qua e di là, in pratica si guarda un po’ tutto, dai negozi alla gente, all’atmosfera, e c’è un grande via vai continuo. Ci sarebbero da riportare migliaia di osservazioni su come sono fatti i vari negozi e negozietti, e bancarelle, su come sono i marciapiedi, il traffico, le viuzze laterali, eccetera. E’ tutto un insieme che ti colpisce l’occhio, l’orecchio, il naso, e che ti circonda e ti avvolge, ma…. sarebbe una scrittura infinita, … e poi bisognerebbe essere un bravo e capace scrittore.
Entriamo in una libreria e io compero dei libri di racconti e di storie tradizionali birmane.
Alle quattro arriva Thant zin a prenderci e andiamo ad una tea house vicino all’ aeroporto, fatta di frasche, all’aperto, dove ci aspetta Teo per accompagnarci e salutarci. Sempre gentilissimo, ci offre un thé con dei buoni e strani pasticcini (sono i primi prodotti proprio di pasticceria birmana che assaggiamo). Gli ridò il suo cellulare e caricatore, ma non vuole niente per il noleggio. Poi mi chiede se ci è avanzato qualche kyat e mi da i corrispettivi dollari
Poi ci accompagna dentro l’aeroporto, dove conosce tutti, così non paghiamo nulla per i bagagli (diversamente da quel che accadde a Bagan). Ci dice che se c’è qualcosa che non abbiamo potuto comperare perché ci mancavano i soldi, lui può acquistarla e farcela pervenire tramite qualche suo cliente italiano che la potrebbe mettere nella propria valigia. Infine ci salutiamo con calorosi saluti da parte sua e di Thant zin. Al di là del metal detector c’è un’area duty free in cui si possono fare buoni acquisti e la qualità dovrebbe essere garantita, si possono così spendere gli ultimi dollari per souvenirs, regalini, oppure appunto per comprare qualcosa cui avevamo rinunciato durante il percorso.
E’ stato il nostro ultimo momento birmano quello delle chiacchiere al bar con Teo in quella tea house di frasche, immersa nel verde, lungo una strada di terra color argilla…
Ciao Terra Dorata, mingalabar a te meraviglioso Myanmar !
Bibliografia:
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Marco Buemi, Birmania, Infinito edizioni, 2011, reportage fotografico di viaggio
Massimo Schiavon, Birmania. Luci e ombre in Myanmar, ed. Arco di Bologna, reportage di viaggio
Carmen Lasorella, Verde e zafferano- a voce alta per la Birmania, Bompiani, 2008, giornalistico-politico
Cecilia Brighi, Il pavone e i generali, Dalai editore, 2006, inchiesta politica
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Khin Myo Chit, Stories and Sketches of Myanmar, Yangon, 2005, antologia di riflessioni culturali
Aa.Vv., Selected Myanmar Short Stories, a c.di Ma Thanegi, Yangon,2009, antologia di racconti brevi
Maung Htin Aung, Burmese Folk-tales, 1948, 1954, reprint, antologia di fiabe e favole popolari
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H. Fielding-Hall, The Soul of a People, 1898, White Orchid paperback, Bangkok, 1995, classico
Theophilus Enriquez, Beautiful Burma, 1935, paperback, classico testo di geografia umana
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R.Reid, J.Bindloss, S.Butler, Myanmar, 1979, decima ediz. 2009 della guida Lonely Planet tr.it EDT
Guide du Routard, Birmanie (Myanmar), Hachette, édition 2010/11 (Fnac.com)
Questo mio diario è presente anche in internet su:
http://www.viaggiareliberi.it/Myanmar_2011_Carlo.htm