Sri Lanka 2003


racconto di viaggio aprile 2003 di Marco S.

Sono a Kandy, nella zona centrale del paese. Ci sono arrivato dopo la solita trafila degli stop tecnici, della notte passata in bianco a 10.000 metri d’altezza, del rincoglionimento che ne deriva, e col quale ho dovuto gestire il procacciamento di un mezzo di trasporto per la stazione di Colombo, nonostante gli accalappia-turisti, e la venuta in questa città col rinnovarsi della scocciatura dei mandati degli alberghi che cercano a tutti i costi di portarti là dove ricevono la commissione; tutto ciò senza fare cazzate come quella volta che persi la Lonely Planet neanche arrivato all’albergo di La Paz, il primo giorno in Bolivia, sconvolto dal soroche.

Il tassista che mi ha adescato all’aeroporto, per tutto il tragitto fino alla Stazione Fort di Colombo, mi ha fatto la testa così per convincermi a tenermelo per una settimana intera, durante la quale mi avrebbe portato a spasso per lo Sri Lanka. Parla, parla, ma ormai ho spento il cervello per la stanchezza, tenendo accese solo alcune funzioni di controllo per le questioni più importanti, come la borsa, i soldi, i documenti. Continua a propormi questo e quello, io guardo fuori dal finestrino, e penso che ho fatto bene a venire qui: ci sono i risciò non più della Piaggio, ma quelli indiani, a insinuarsi nel traffico, veloci a portare quelli che hanno dentro a destinazione; le auto dietro gli bussano, ma gliene frega un cazzo agli autisti. Ci sono pure delle moto con due a bordo; quello di dietro tiene un secchio d’acqua che butta in faccia a un ciclista. Ma che fa, chiedo io; niente, è solo una gara col montepremi dell’equivalente di circa 450 euro, e i ciclisti hanno bisogno di un rinfresco al volo, di tanto in tanto, altrimenti stramazzano dal caldo umido che  spossa, di questi tempi e a queste latitudini.

Con la promessa falsa di richiamarlo, saluto il tassista e prendo un biglietto ferroviario; il treno non c’è ancora, cosi familiarizzo con la prima sbobba che vedo, in una vetrina di un self service singalese, c’est-a-dire un pacco contenente riso con verdure varie e un pezzetto di pesce, il tutto infiammato dal curry che lo chef ci ha generosamente versato. Con un poco di vergogna, lo mangio coll’aiuto di un cucchiaio, unica posata disponibile alla locanda, anziché colle mani, come di norma bisognerebbe fare qui. Garbatamente, un astante mi fa notare che bisogna lavarsele prima di mangiare, cosi eseguo quanto consigliatomi, e a questo punto comincio anch’io a mangiare mettendo il cibo fra indice ed anulare, e spingendolo col pollice verso la bocca.

Un trenino sferragliante che assomiglia a quello dell’Edelandia quando ci andavo da bambino, mi porta attraverso campagne disseminate di palme e fiumiciattoli verso l’interno del paese, salendo fino alla zona collinare. E’ affollato alla grande, e ci stanno appesi fuori grappoli di persone che ne approfittano per prendere un poco di vento. Io sto a ciondolare la testa per la stanchezza e a sudare come un maialino sulle poltroncine di finta pelle sudice, che mi si attaccano addosso col sudore come collante, e perciò, dopo che mi sono rotto le balle della situazione, mi faccio l’ultima ora e mezza anch’io appeso fuori, a prendere il vento e a farmi sfiorare dalla vegetazione, frustrata dall’avanzare del trenino.

Ora sono qui, e tutto deve ancora cominciare: vado a mangiarmi il pesce alla salsa bianca con verdura bollita che ho ordinato al vecchio della cucina dell’albergo.

Kandy e dintorni

Il primo giorno è di attesa, verso quello che si potrà fare, dopo aver smaltito la stress del viaggio. Mi guardo  in giro, comincio a prendere informazioni, familiarizzo col cibo e coi comportamenti della gente, scrivo sotto l’effetto della stanchezza, e va bene cosi.

Il secondo mi rimbocco le maniche e mi tuffo nel mondo singalese, e lo trovo subito affascinante, gentile, invitante. La gente sorride, i rumori sono accettabili, l’inquinamento non supera le soglie occidentali, e la diversità mi attrae come una droga della quale non riesco mai a disintossicarmi.

Vado al tempio del dente (di Buddha, s’intende, non di S.Gennaro), offro i fiori di loto, di rito al recarsi in meditazione al tempio; la gente prega silenziosamente, uomini, donne e bambini assieme, con grande dignità e serietà. Non c’è spazio, mi duole dirlo, per insofferenze e intolleranze di altre religioni. Fuori l’atmosfera è tranquilla; c’è aria di monsoni, colle nuvole che s’ingrossano improvvisamente, ma poi non piove e questo serve solo da sollievo dal sole tropicale.

A pranzo sul balcone di un ristorante cinese, delle cornacchie prendono i posti dei commensali che hanno lasciato lauti avanzi per loro, e mi fanno compagnia mentre fumo una sigaretta singalese. Gracchiano, mangiano, se ne vanno. Il ragazzo per strada vende mercanzie occidentali, altri frutta tropicale, e storpi passano o restano chiedendo elemosine. Non ci sono bambini, a farlo. Sono tutti a scuola, nelle loro uniformi di gonne o pantaloni, con camicie bianche e cravattini. L’istruzione è garantita a tutti, sembra, e questo mostra una grande dignità di un paese che ha che fare coi problemi di uno sviluppo forse non sostenibile, ma che cerca di dare comunque alla propria gente la possibilità di vivere in condizioni accettabili, anche per noi.

I giorni seguenti me ne vado per i dintorni, a visitare centri di recupero di elefanti, e attraverso le risaie, in cerca di templi buddisti e a volte induisti; incontro contadini colle caviglie affondate nella melma, che disperatamente sferzano i buoi e al contempo spingono quello che credo sia un aratro. Altri, in momenti di pausa, lasciano gli animali in pace a crogiolarsi nel fango, al sole, e loro, al mio passaggio, mi rivolgono saluti sorridenti.

Negli autobus, sorride l’autista, sorride il ragazzo che mi guarda; alla ragazza timida a cui rivolgo una parola d’informazione ne sboccia un altro, non voluto ma naturale. Sorrido anch’io, e ringrazio continuamente di tanta cortesia e gentilezza: soprattutto, di tanta bontà d’animo.

Al balcone dell’albergo coloniale affacciato sul lago di Kandy, aspetto che si faccia ora di cena, o magari prendo un caffè e fumo una sigaretta dopo aver cenato, in compagnia di una coppia d’inglesi che una volta tanto sembrano essere diversi dai soliti turisti indipendenti che s’incontrano; beviamo Arrak, un distillato locale, che all’inizio sembra acqua, ma poi ti brucia le budella, grattandoci continuamente per le punture delle solite e maledette zanzare.

Il tempo va via cosi, senza grosse avventure, ma riempiendomi di benessere.

E’ tempo di andare via da Kandy; l’indomani sarò partito per la zona detta del triangolo culturale, una delle maggiori attrattive dello Sri Lanka, poi si vedrà.

Per il Triangolo Culturale

Me ne vado da Kandy, dopo averci passato dei bei giorni, rilassato e beato. L’albergo, vecchia casa coloniale, coi mobili anche coloniali, e il cibo lo stesso, costa quattro soldi, ma dà molto di più in cambio.

Mi accingo perplesso ad esplorare una zona decisamente turistica, per i siti archeologici offerti con la promozione prendi tre, paghi due. Infatti, i tre più importanti costerebbero US 15 cadauno, mentre all’ufficio turistico puoi pagarne 30, e vedere tutti e tre. Così faccio.

Visito delle grotte in cui sono installati dei templi buddisti rupestri, alcuni con scene di inferni e penitenze alla dante Alighieri, altri, come in Dambulla, antri scuri e silenziosi, dalle diverse grandezze e auree mistiche che vi ci aleggiano. Salgo e scendo per i dirupi, per i gradini, scanso le pseudo guide ed i venditori di roba, a volte mi siedo a chiacchierare con loro, o con quello che custodisce le scarpe per poche rupie, mentre si va dentro ad esplorare.

Parallelamente alla visita dei siti, che devo essere sincero, mi interessano fino a un certo punto, c’è quella dei rapporti umani, molto più piacevole, viva e soddisfacente.

Nelle rest house, incontro donne che mandano avanti l’attività, lavando, cucinando, rassettando, per la famiglia che ci vive e per i turisti ospitati; i mariti, mi pare, non fanno un beneamato cazzo. Stavo appunto mettendo piede in quella di Sigirya, altro sito famoso, qui, e vedo che il marito con una panza da incinto esce dalla doccia del giardino, poi scambia qualche chiacchiera con me, e si va a rilassare alla tele. Nel frattempo la moglie fa tutto quello che c’è da fare. All’ora di cena, chiedo qualcosa al panzone e, provocatoriamente: cucini tu? No, mia moglie…

A Sigirya un singalese riesce a farmi incazzare per la prima volta, da quando sono qui. Accadeva che il sito fosse costituito da una specie di enorme fungo, alto un paio di centinaia di metri, e ci fossero dei sentieri per scalarlo fino alla cima, fermandosi ora qui, ora lì, a contemplare varie faccende lasciateci in eredità da qualche antico sovrano singalese. Le prime rampe metalliche, attaccate alla bene meglio alle pareti del fungo, le ho affrontate con una certa disinvoltura, ma una volta arrivato a quelle che avrebbero portato in cima, allora ho dovuto farmi forza, di quel poco che uno che soffre di vertigini come me ha, in questi casi. Così, avanzo pian pianino su per le scale aggrappato con presa d’acciaio per le ringhiere scricchiolanti, sospeso nel vuoto. Non lo guardo, mentre invece miro la punta delle mie scarpe, o la parete che mi è affianco. Ad un certo punto un tipo, che si spaccia per l’incaricato alla sicurezza dei turisti, con tanto di cartellino, viene in mio soccorso reggendomi ed aiutandomi. Mi sento come una vecchietta a cui offrono di attraversare la strada. Una volta su, gli chiedo: e quanto ti danno i turisti, per i tuoi servigi? Mah, non saprei; a volte venti, a volte trenta euro, ma anche se mi dai dieci mi va bene lo stesso… Lo mando a cagare. Al ritorno è  peggio, col mondo che si spalanca sotto ai piedi, e serve a poco guardare altrove, se non il vuoto, perché quello sta li, e devo per forza affrontarlo. Cosi, scendo quatto quatto le scale, un minuto per scalino, e vorrei che mi venissero a prendere i pompieri. Alla fine ci sono, e l’ultima rampa quasi la faccio di corsa, ormai divenuto di nuovo padrone di me, colla camminata sciolta e il sorriso in faccia.

Polonnaruwa e Anurhadapura sono delle specie di piccole Pompei, ma di pregio assai minore. Erano antiche capitali, poi abbandonate agli assalti degli indiani del sud. Ma chi se ne frega.

Giro allucinato per le rovine in sella alle biciclette che mi hanno noleggiato gli alberghi, per 150 rupie diarie, sotto al sole singalese; e per mezza giornata, quant’è?, chiedo candido io. Il ragazzo, carino, si fa una risata alla mia salute, perché non esiste la tariffa di mezza giornata. Qua ci sono i resti del palazzo reale, lo stupa buddista in rovina o appena passato di stucco; quaggiù la fontana che sgorga nella piscina, a forma di leone o altro. Il caldo incalza, le spalle cominciano a scottare e comincio a perdere il buon umore. Mi fermo spesso alle bancarelle delle bibite, appostate strategicamente in prossimità dei siti; mi bevo un cocco, un succo di qualcosa, una bottiglia d’acqua in un unico sorso, esibendomi  ai cingalesi cogli occhi pieni di meraviglia per la grande panza che può contenere in una botta tutta la bottiglia. Poi resto lì a parlare con loro, di questo che non voglio comprare, che non voglio la guida, e di quello che i cingalesi fanno in Italia. Vorrebbero andarci anche loro, ma prima devono farsi i soldi per il viaggio, chissà quanto e chissà come.

Pedalando noto un banchetto lurido per le vie di Anurhadapura antica, con dei vasetti di curd, yogurt di latte di bufala, esposti. Sgommo e torno indietro, perché sono buonissimi col miele sopra. Ci sono due bambini, poi viene subito la madre, bella ragazza sorridente di circa 25 anni. Comincio a fare lo stronzetto turista con bella indigena che non parla inglese, quando ecco che viene il maritaccio, brutto singalese baffuto e sporco, che prende il posto della bella visione di qualche secondo fa. Mentre mi faccio il curd col pezzetto di foglia di palma al posto del cucchiaino (L’igiene? E che te lo dico a fare), butto l’occhio all’indietro, verso la capanna di legno della famigliola; lei guarda la tele, coi bambini che le fanno compagnia; tutti cloroformizzati così, in Sri Lanka come in Italia.

Alla fine del tour, culo dolente, abiti spugnati di sudore, spalle che bruciano, vado a mangiare qualcosa, di veloce, perché non ce la faccio più, e voglio fare una doccia.

Per l’appunto, in caso di fretta, ci sono nello Sri Lanka dei posticini che servono short eats, ossia spuntini veloci a base di crocchette con dentro patate e vegetali, vegetali e pesce, o carne, oppure sorta di crepe con dentro uovo sbattuto e vegetali e cosi via. Quando ti siedi te li portano tutti, mangi quello che vuoi e paghi per l’effettivo consumato. Solo che al posto di carta per pulirsi sono in uso vecchi quotidiani tagliati a mò di tovaglioli, per l’occasione anche incollati ben bene nel caso voglia portarti il mangiare via; quando servono il piatto pieno di questi short eats, la gente, che nel frattempo si e tolta le caccole dal naso, si e pulita la bocca col dito, magari ha pisciato prima, se li sceglie uno ad uno, tastandoli: questo è troppo cotto, questo è freddo, questo non mi va ecc. Gli altri, che il tipo si porta dietro, sono risistemati al loro posto, in attesa che qualcun altro li mangi. Che vuoi fare allora? Niente, si consuma e zitto, sperando che non accada niente, od ignorando tutta la problematica, come cerco di fare per evitare angosce.

Nel frattempo sono tornato a Kandy, tappa obbligata  per andare verso sud, la zona collinare e poi quella della costa meridionale.

La zona collinare

Via da Kandy, via dalla guest house coloniale, dalla vista sul lago col balcone in legno e mobili d’epoca, e dall’internet café a 50 rupie l’ora. Dopo la parentesi del triangolo culturale, mi sentivo come essere tornato a casa, fra quelle comodità che credi t’appartengono dopo un periodo d’abitudine. Vado sulla zona montagnosa, a visitare natura e non storia.

Mi tocca Badulla come prima tappa. Niente di che, c’è una cascata lì vicino, come attrattiva principale; tuttavia ne scopro un’altra, non raccomandata dalla guida. Alla Badulla Guest House ordino uno yellow rice, ed ecco che mi servono una sorta di Pranzo di Babette singalese, formato ridotto. Fra sorrisi d’ordinanza, referenze, sinceramenti da parte loro, ringraziamenti da parte mia, mi sbafo un riso giallo condito con pezzetti di cannella, cardamomo, chiodi di garofano, piselli, e dio sa cos’altro; i side dishes al curry comprendono devilled (piccanti) patate con cipolle e melanzane al pomodoro, ed una insalata agrodolce all’ananas. Come dessert curd al kital (yogurt di bufala con  sciroppo di palma), caffè e sigaretta. Se avevo bisogno di un motivo per questo viaggio, l’ho trovato; come un’uscita a cena che si espleta in due ore, per quest’altra occorrono invece due giorni, fra aereo Roma Colombo e treno da Colombo Fort fino a Badulla, capolinea ferroviario della tratta collinare.

La stanza è meno regale del pranzo, con una zanzariera nera di povere, e incerottata per tapparci i buchi, che tuttavia mi velo addosso a mo’ di barriera per le peggio bestiacce che si possono incontrare qui, a parte i cobra. BZZZZ, BZZZZ, mi interrompono i sogni e me ne introducono altri, incazzate a pochi cm dall’orecchie per non riuscire a succhiarmi il sangue. Altre bestioline le trovo indagando: ramarri che spuntano da crepe o da dietro i quadri, e nel bagno scarafaggi giganti che al mio ingresso si rifugiano dietro lo scopettino per il cesso, all’angolo. C’è anche un ranocchio, mimetizzato col verde delle piastrelle; io guardo lui, lui me, fissandoci negli occhi, attenti a chi fa la prima mossa.

Per spostarmi da un paesino all’altro, faccio del surf sulle pedane dei bus e dei trenini dell’Edelandia, come si usa fare qui, per evitare la calca interna, e godersi la vista in classe panoramica, su valli e monti, con colture a riso e a the, punteggiate da palme e banani.

Ella è un paesino, ma più che altro un incrocio stradale, buono per farci delle escursioni nei dintorni. Si passeggia lungo i binari, usati qui come una sorta di isola pedonale, per raggiungere punti panoramici via leggeri trekking. In uno di questi, quello per raggiungere l’Ella Rock, mi perdo irrimediabilmente nei boschi, e un coltivatore di pomodori viene in mio soccorso conducendomi alla cima; alla fine, la mancia è al di sotto le sue aspettative, ma l’accetta di buon grado, perché è quasi l’equivalente di una giornata di lavoro.

Sunethra, che gestisce la guest house, assieme al marito che-quasi-non-fa-un-cazzo, come al solito, è gentile e sorridente, tuttavia un poco ansiosa. Si preoccupa per trovare i fondi per mandare i tre figli alla scuola privata, e per terminare i lavori di ulteriori stanze in costruzione. Ci sono tondini di ferro che escono da tutte le parti, dal cemento grezzo, e teme che questo le faccia perdere clienti: anche tu volevi andare via, vero? Ma no, ma no, Sunetrha, non ti preoccupare, ma almeno copri questo schifo con delle palme…

A Bandarewala non c’è una mazza da fare, a parte sfottere il cameriere del Chineese Union Hotel; come si fa dal Nepal in giù, dondola la testa per dire va bene, così la dondolo anch’io, provocandogli delle crisi di risate. C’è anche l’87enne sdentato cinese proprietario del posto, che, mi racconta, ha lasciato la Cina dal 1947, durante la Guerra civile, e non ci e più tornato, poiché i legami, quando il tempo passa, si dissolvono… E pure lui ha ragione.

Ultimo posto delle montagne che visito, è Haputale, appollaiato sull’ultima cima, prima che prendano posto nel panorama le valli, che pian piano diventano le pianure meridionali cingalesi. Appena scendo dal bus, mi accalappia un tizio dell’albergo dove avevo già intenzione d’andare, così mi faccio trasportare dalla corrente, evitando, zaino in spalla, di cazzeggiare a chiedere indicazioni; sembra che il tipo divida il suo tempo fra il tentativo di vendere erba ai turisti e la visione di pacchiani e deprimenti film Tamil, del peggior stile cinematografico Bolliwhoodiano, un misto di generi romantico, d’azione ed arti marziali, quelle più inverosimili. Tartassa gli astanti con queste puttanate, e non c’è protesta che tenga, al limite abbassa la voce, accontentandosi dei sottotitoli cingalesi; che ci vuoi fare, questo passa il convento. Dubito che RAI e MEDIASET programmino di meglio.

Per rispettare il programma della Lonely, e così sentirmi a posto colla coscienza, almeno parzialmente, vado a visitare un monastero benedettino del 1913, nelle vicinanze, con tanto di negozietto di prodotti naturali; poi una ulteriore cascata, ed infine una fabbrica di the del 1890. Con 100 rupie, un tipo mi illustra il procedimento di lavorazione, dalla a alla z. Mi interessa sapere anche della paga delle raccoglitrici di the, e degli operai della fabbrica: 140 rupie al giorno, EURO 1,30; al mese 36 o poco più, lo strettissimo indispensabile per campare da queste parti, magari arrotondando la paga con quella di un lavoro extra, nei campi o altro.

Per trovare sfogo alla depressione, mista a senso di colpa di turista occidentale ricco, come in un continuo mi butto in una tavola calda di short eats, immondo luogo dispensatore di rice curry a prova d’epatite virale fulminante, e spuntini della tecnica già spiegata, quella tasta e mangia, e lascia il superfluo nel piatto, per gli altri. All’interno, una schiera di cingalesi brutti, sporchi e cattivi, che formano un tutt’uno col sudiciume del posto; tavoli unti, pasti consumati a diretto contatto di polverosi ritagli di giornale, utilizzati anche come tovaglioli; voglia di mangiare scoraggiata dalla nausea. Mando a fatica giù una pseudo crepe all’uovo, ed un fagottino ripieno di vegetali piccanti ustiona-lingua, ed innaffio il tutto con una cola, nella speranza che mi aiuti a digerire e purgare la sbobba. Il momento gaudente per me è quando candidamente estraggo dalla borse i fazzolettini imbevuti del discount, e mi netto le mani e la bocca, fra lo sgomento generale degli astanti, che mi guardano come fossi un marziano.

Anche questa è fatta, o quasi, trovandomi a scrivere durante un cambio di bus per Tangalla, costa meridionale, sudato e appiccicato da sudore che torna, a queste modeste altitudini.

Per la costa del sud

Ad altitudini inferiori, il caldo si fa soffocante, quasi me lo dimenticavo, dopo i bei giorni passati al fresco della montagna. Quando il bus mi molla nella controra singalese in qualche bus station, bus stand, vie o piazze di paesi, collo zaino in spalla e il sole in fronte, sudato da sauna a vapore, ho un bisogno immediato di un tuc tuc (la versione indiana della nostra Ape Piaggio) che mi porti all’istante in qualunque guest house, e di lì sotto una doccia.

Tangalla, primo paese che mi ospita nella costa meridionale, ha una bella spiaggia, ma il monsone agita parecchio il mare, per cui niente bagno. Che faccio? Me ne vo a visitare alcuni posti suggeriti dalla Lonely, a mezzo bus.

Qui la strada è litoranea, niente più tornanti perigliosi, affacciati su precipizi di montagna; i drivers di conseguenza ne approfittano, sorpassandosi l’un l’altro a botte di clacson e acceleratore, frenate brusche ed ogni tanto una ventina di persone ricoverate al più vicino ospedale, come riporta con diligenza il Daily News.

Sfacchino qualche km a piedi sotto al sole inclemente meridiano, maglietta fradicia di sudore e principi d’insolazione, per assistere ad un fenomeno chiamato il Blue Hole: un’esplosione d’acqua, sospinta dalle onde ingrossate dal vento, attraverso un camino naturale nella roccia, e ad una ventina di metri d’altezza, quando si è fortunati. Più avanti di qualche km, un sentiero porta al faro che indica l’estremo meridionale dello Sri Lanka; non è Capo Horn, ne Capo d’Africa, ma mi accontento, a tu per tu coll’oceano indiano, al ristorante con vista sul faro, a farmi salassare.

Mi conviene arrivare ad Unawatuna, ridente località la cui spiaggia e protetta da un reef in agonia, moribondo sotto le insostenibili spinte del turismo locale ed internazionale. La baia è favolosa, ma un’edilizia selvaggia ha edificato pilastri e piattaforme di cemento fin dentro l’acqua, per le decine di ristorantini e guest house affacciate sulla spiaggia, come si conviene al turista pretenzioso. Tuttavia le palme coprono parzialmente questo scempio, cosi il posto è ancora gradevole per passarci qualche giorno, colle pacche a mollo nell’acqua dei tropici.

Scelgo una guest house costituita da un edificio inizio ‘900 colle parti in legno mangiate a metà dalle termiti; ma è bella, e i proprietari sono gentili. Sentirsi a casa propria in mezzo alla foresta tropicale, zanzare a go-go, e riso al curry a pranzo e cena, ogni giorno. Faccio i comodacci miei, in cucina, in veranda a leggere i giornali, nelle sale da pranzo a scrivere; ma faccio anche i comodi loro: mi impegno per una cena italiana, così una sera, con pasta australiana e pomodori e melanzane locali, preparo una pasta all’insalata, e poi calamari marinati. Lavo pure le pentole.

Anche qui c’è, come nelle altre guest house in cui sono stato, una schiavettiella, una persona  normalmente di casta inferiore, adibita a cucinare, rassettare, pulire. Sono generalmente anziani poveri, che se non fossero integrati in queste famiglie, sdebitandosi col loro lavoro a tempo pieno, probabilmente sarebbero in strada a chiedere l’elemosina, coi figli chissà dove e cosa. Acci, questo il suo nome, è una vecchietta di 75 anni, brutta e bella come la morte, che sfama e manda avanti la baracca col suo instancabile lavoro, inconsapevolmente; nei momenti d’ozio, mangia il pasto sul gradino di casa, quasi di nascosto. Una volta, l’ho vista leggere il giornale ad alta voce, seguendo le lettere cingalesi col dito, come farebbe una bambina che sta imparando; sorprendendola all’improvviso fare qualcosa, esprime il suo imbarazzo con una risatina acidula, come la strega di Biancaneve, invece è buonissima. Non ci sono stati cazzi per farla mangiare con noi quando ho cucinato.

Oggi pomeriggio non viene il raccoglitore di cocco, perché è stanco d’arrampicarsi sulle palme; io me ne sto in veranda a guardare Acci raccogliere legna per la cucina, scrivere ed aspettare il temporale monsonico, che non dovrebbe tardare a rinfrescarci tutti.

L’esperienza ad Unawatuna è ormai terminata, coi bagni, le tintarelle tropicali, l’integrazione nella famiglia locale, le chiacchiere stupide coi turisti. Vado a Galle, pochi km ad ovest; e una città fortificata prima dai portoghesi, poi rimaneggiata dagli olandesi, infine presa dagli inglesi.

I bastioni circondano la città  vecchia, fatta di edifici coloniali in rovina, o in restauro, per farne ristoranti ed alberghi ad uso turistico; camminando lungo, e sopra il forte, si incontrano templi, moschee e chiese; donne col chador e col sari  intente a chiacchierare, sedute sull’erba, coi bambini a giocare più in là, e i mariti da parte, fra di loro, come al circolo degli anziani. Ci sono aquiloni artigianali che si innalzano verso il cielo, sospinti dal forte vento, ragazzi che li manovrano abilmente, ed altri che fanno la partita a cricket, mentre coppiette si nascondono pudicamente sotto l’ombrello, usato a mo’ di paravento, colla scusa di ripararsi dal sole. Le onde ingrossate dal vento si infrangono pesantemente su grosse rocce, schizzando nuvole di schiuma bianca, mentre comincia a piovere e la giornata volge lentamente al termine.

Ambalangoda è famosa per le maschere rituali e tradizionali, di danze esoteriche, utilizzate per ingraziarsi gli dei per il raccolto, o per trovare un rimedio a qualche patologia; m’ero fatto ingannare dal prezzo del Laksala, negozio governativo d’artigianato singalese presente in tutte le città principali, per decidere di fermarmi qui ed acquistare la maschera direttamente dagli artigiani che le scolpiscono. Niente da fare, nonostante due sedute di contrattazioni, una di mattina, l’altra dopo pranzo; 2000 rupie dividono il mio destino da quello dell’intagliatore. Magari la compro al Laksala di Colombo. Non c’e altro da fare, se non aspettare l’indomani propedeutico alla conclusione di questo viaggio, nella capitale.

A Colombo, il centro amministrativo assume l’aspetto di una zona di guerra, con le strade principali chiuse al traffico, ed alle autobombe Tamil, da bidoni , sacchi di sabbia, rotoli di filo spinato; le stesse protezioni valgono per ragazzi in uniformi dell’esercito, a sorvegliare luoghi sensibili in nicchie di cemento. Il contrasto di quest’immagini col via vai indaffarato di persone della city cingalese, come in quello di qualsiasi altra parte del mondo, crea un effetto surreale, ma sono il solo a provarlo, mentre tutti gli altri, i locali, ne sono evidentemente abituati.

Me ne cammino per il quartiere antico di Fort e quello mercantile di Pettha, mi concedo qualche ulteriore acquisto, la visione di in film di Jackie Chan, una internettata, mentre sale il mal di testa indicativo dello stress da viaggio aereo imminente. Alla stazione dei treni ho lasciato lo zaino; riprenderlo è l’ultima cosa da fare che ancora mi intrattiene qui, prima di prendere un bus per la zona dell’aeroporto. Il cerchio del viaggio si chiude, mangiando alla sala d’attesa, come un mese fa alla stazione Fort, un pacchetto da asporto contenete un ultimo riso al curry, ultimo saluto allo Sri Lanka.


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