Le contraddizioni dell’India che prova a crescere restando se stessa
(racconto di viaggio di Simone Mariotti)
Appu era un adorabile bambino di otto anni che da quando arrivai a Manippara non mi mollò quasi mai.
Manippara è un’area sperduta nel nord del Kerala, nel sud dell’India, al di fuori di qualsiasi rotta turistica. Non ci sono alberghi né ristoranti; non c’è neanche un villaggio, a dire il vero. E’ una zona isolata nel distretto di Kannur. L’autobus mi scaricò a Iritty, il centro più vicino, a venti minuti di macchina, da dove si estendono, nel silenzio, le piantagioni di albero della gomma, di cocco e di anacardi. Ero arrivato lì quasi alla fine del mio viaggio per andare a casa di Alice, anche se lei non abita più lì, trasferita a Delhi da qualche anno. E’ una ragazza poco più grande di me che mi presentò un amico comune tempo fa, ma ci siamo sentiti solo al telefono e via mail. Una piccola corrispondenza che dura tutt’ora, ogni tanto.
Suo fratello, Robert, quarant’anni, vive ancora lì con la moglie e due figli (Appu e Ammu), e come tanti altri indiani negli ultimi ha fatto un po’ il pendolare, lavorando in Nigeria e nei paesi arabi, “ma in Nigeria si guadagna di più”, mi diceva. Ora anche lui è un coltivatore e ha comperato una casetta con della terra e, come i suoi amici con cui girai i quei giorni, avrebbe messo su una piccola piantagione. Ma voleva iniziare anche una specie di B&B e ora ha anche rimediato un pulmino, per iniziare a scarrozzare per le piantagioni e le zone circostanti i futuri visitatori.
Turisti però ancora non ve ne sono. Un giorno, mentre facevo due passi attorno a casa, una pattuglia della polizia locale mi ha fermato e ha iniziato a farmi un bonario, ma insistente, terzo grado su chi fossi, che ci facessi lì, dove stavo andando, dove alloggiavo. Hanno voluto sapere tutti i dettagli del mio lavoro in Italia e per fortuna avevo anche un biglietto da visita con il logo della mia società. La moglie di Robert, avvisata da Appu, che si era un po’ allarmato, arrivò fuori a darmi manforte e tutto si risolse senza problemi, ma mi presi un cicchetto: “non girare solo per strada, potrebbero prenderti per un lavorante abusivo nelle piantagioni. Comunque se ricapita racconta sempre la storia di Alice”.
Un’altra particolarità di quella zona era di essere una piccola enclave cattolica, circondata dal profondo induismo che permea l’intero sud dell’India. Era ancora una forma di cattolicesimo devoto molto imperniato all’obbedienza delle regole. Ogni sera verso le 19.30, dopo la telenovela, in famiglia per una buona mezz’ora si recitava il rosario, lettura della bibbia e preghiere varie. Osservavo tutto con un discreto interesse, e quando gli chiesi perché lo facessero ogni sera, Robert mi disse: “lo dobbiamo fare perché siamo cattolici, è quello che dice il vescovo”. Disse che tutte le famiglie della zona facevano lo stesso, chissà… chissà ancora per quanto.
Il Kerala è anche questo, l’unico luogo al mondo (assieme al West Bengala, a parte la recente sconfitta elettorale) dove i comunisti marxisti sono stati eletti e governano assieme ai socialisti da 60 anni, e che ha prodotto uno stato tra quelli culturalmente più evoluti della federazione indiana, con il maggior tasso di alfabetizzazione e tra i più attenti alla tutela dell’ambiente. Le riforme che hanno re-distribuito la terra negli anni sessanta hanno creato meno diseguaglianze che altrove, ma le industrie sono poche e il turismo e l’agricoltura sono le principali fonti di reddito, e nonostante si viva ancora bene, l’economia statale barcolla ed è stata esclusa dal recente boom indiano. Alice mi raccontava:
“Mi piace stare nel Kerala, però è difficile trovare il lavoro, perché siamo tanti, e a Delhi ci sono più opportunità. Ma il mio sogno è di ritornare in Kerala e di fare qualcosa per le donne e per i bambini. Là molte donne sono infermiere perché c’è tanta possibilità di lavoro sia l’estero che all’interno. Ma molte di loro vanno all’estero per lavorare, così hanno la possibilità di aiutare le loro famiglie, e poi hanno la possibilità di guadagnare qualcosa anche per loro”.
Me lo aveva confermato anche uno degli amici di Robert, che dopo due anni come tassista a Chicago, era dovuto tornare per problemi di visto, e anche lui ora coltivava la terra. Mi raccontò anche delle tante contraddizioni indiane, come quella dello stato fortemente comunista, dove però il sistema delle caste è quasi più forte che altrove e della Sanità privata che dilagava, tanto era un continuo fioccare di cliniche e ambulatori.
Ma quel luogo assomigliava un po’ alla situazione di serenità che avevo trovato a Munnar nelle piantagioni di tè, una settimana prima, e che ho raccontato tempo fa nella serie di articoli “5 fermate per il paradiso del te”…
“Ho letto quello che hai scritto”, mi disse Alice, “ed è vero quello che hai detto: i lavoratori lassù sono più sereni. Perché vivono ogni giorno con il loro lavoro. E se non si ammalano se la cavano abbastanza bene perché in India lo stato non ci aiuta per la medicina. Quando però si ammalano, a volte per curarsi vendono anche la casa e il terreno, se lo hanno, e dopo tu puoi immaginare… L’India è molto povera però c’è anche tanta ricchezza. Ci sono tanti ricchi, forse più che in Italia, solo che la ricchezza dell’India è in mano a certi ricchi (come Tata, Birla, ecc.). Ma i poveri restano poveri, come hai detto, specialmente nella città. Tutti vengono in città perché trovano qualche tipo di lavoro e possono vivere in qualunque modo. Il problema è che lavorano e magari la sera bevono alcol con quello che hanno guadagnato. C’è ancora troppo disordine in India, però nello stesso tempo c’è un ordine di vita, nelle famiglie, nelle scuole e dappertutto; c’è comunque una bellezza di vivere, una gioia, e la trovi in tante persone… Appu mi racconta ancora di te, sai, è molto intelligente, osserva tutto. Sono contenta che ti sei sentito come in famiglia”.
Alice non abita più lì, ma credo vi tornerà. Ha voglia di provare a migliorare e a cambiare le cose senza cambiare se stessa e la sua cultura, un po’ quel che sta accadendo all’India, anomala anche in questo rispetto al recente sviluppo degli altri paesi emergenti. Una sfida impegnativa, che gli indiani, uniti e divisi, arricchiti e impoveriti da mille lingue e culture, per ora stano vincendo a metà.
Pubblicato il 23 giugno 2010 su La Voce di Romagna in prima pagina
di Simone Mariotti
Per contattare Alice andate su: www.simonemariotti.com