Venezuela 2003


racconto di viaggio di Marco S.

Primi giorni
E’ da una settimana che sono in Venezuela, e pian piano mi faccio qualche idea del posto. C’è un gran fermento circa l’esito del referendum sulla permanenza di Chavez al potere, il dado sarà tratto presto, appena terminato lo spoglio delle firme che dovrebbero indire il referendum. Chiacchierando con la gente e leggendo i giornali, è difficile pronosticare quello che accadrà fra poco: la nipote della dueña della posada dove sto dormendo, studentessa all’università di Merida, dice che Chavez è un buono, solo che si è circondato di stronzi che mal governano; lei non paga niente per studiare: il governo le da i soldi per la stanza alla posada, per mangiare, per l’iscrizione all’università. Gocho, il ragazzo che lavora alla finca ne Los Llanos (da cui sono appena tornato, torturato a puntino da quei bastardi dei Puri Puri, insetti molto più piccoli delle nostra zanzare, ma molto più pruriginosi), dice anch’egli che Chavez è un buono, nato povero, con las patas al suelo (senza manco le scarpe) come lui, e si è fatto da solo, e ora i ricchi vogliono mandarlo via, pagando i manifestanti di Caracas per fare casino; sembra sicuro di quello che dice. Patricia, la svizzera sposata al venezuelano, proprietari dell’agenzia che mi ha spedito nelle pianure a fare il turista cazzone, invece è contro il presidente, e spero lo mandino via. Mah, non so che dire; spero solo di essere lontano da eventuali tumulti di piazza, visto che mentre mangiavo in una trattoria assieme agli altri  sventurati escursionisti, una tipa dall’auto in corsa, guardandoci, ci ha gridato: Gringos!, in maniera non proprio amicale.
Appena atterrato, sette giorni fa, me la sono svignata da Caracas; fino alla fermata della metro Gato Negro in bus, poi metropolitana, infine bus buono per conservarci i pezzi di manzo, data l’aria condizionata, diretto a Guanare
La prima tappa si trova ai margini delle pianure, verso le Ande; posto squallido, degno di nota dalla Lonely perché li c’è il santuario della Virgen di Corimoto, che convertì un indio in sede di tirar le sue cuoia, con annesso invito a fare uguale a quelli della sua tribù. Insomma questo santuario mi sembra, oltre ad un osceno mostro di cemento armato a forma di cuore, alto come un piccolo grattacielo, una truffa bella e buona stile il business di Padre Pio a San Giovanni Rotondo. In tutti i casi, la sosta a Guanare è stata anche una sorta di test circa la reale affidabilità di questa guida venezuelana,  circa quello che davvero mi può interessare.
Con un por puesto (sorta di taxi collettivo), mi reco finalmente a Merida, cittadina universitaria e turistica qui, sulle Ande venezuelane. Niente di che, se non la sua aria giovanile e dinamica. C’è traffico e casino, per cui meglio organizzarsi per fare qualcosa nei dintorni. Vediamo un poco: c’è la visita ai paesini nei dintorni, nonché l’escursione, versione economica, ne Los Llanos, appunto. Vada per i paesini, e vada anche per gli Llanos. Sono in attesa che si formi il gruppo di quattro turisti, altrimenti non si parte; nel frattempo cazzeggio per la città; nel pomeriggio, Patricia finalmente mi dice che si va, che è arrivata la coppia Ceca, per cui il gruppo è pronto, assieme al francese anch’egli in attesa, come me.
Lascio qualcosa alla posada, e vado. Ci vuole una giornata per arrivare al campamento sperduto in mezzo alle pianure, con soste in qualche paesino, e per mangiare a pranzo alla trattoria di cui il “Gringo!”. Qui, c’è un cambio di autista: preferivo il primo, più posato: questo che riceviamo mi sembra una caricatura del macho americano sul gippone: occhiali da sole, t-shirt con pubblicità dell’agenzia, stereo a palla e guida più che sportiva. Peccato abbia passato la cinquantina, ha il mento appeso, e sia rotondetto. L’importante è che ci creda lui.
Di sera, che è notte fonda data la mancanza d’elettricità nel campamento, arriviamo, e ci attendono figure non ben identificabili, al buio, a malapena illuminate da torce di fortuna disseminate qua e là. Per (s)fortuna la pappa è pronta: pasta al ketchup più qualche altra sbobba economica; c’ha andrà meglio i giorni seguenti. Dopo la lavata di denti, e la cacca, per chi non si lasci inibire dai cessi open air, permeabili agli odori e rumori, si va a nanna, visto che non c’e manco luce per leggere, ultima spiaggia per evitare il coricarsi alle 20.30. In una capanna, delle comode amache ci aspettano, invitanti alla tortura notturna dei Puri Puri, così minuscoli e così stronzi. Questi non s’accontentano di qualche morso, no…; vogliono banchettare col tuo sangue invitando presumibilmente tutta la tribù della zona, visto le parecchie decine di punture disseminate in tutto il corpo: sembro un infettato, meno male che almeno il bel faccino mi è risparmiato.
Mi pento al secondo giorno di quello che risulta invariabilmente un genere d’escursione comune a molti posti creati per turisti, qui come in Bolivia, e, mi dicono, in Brasile: c’è la caccia all’anaconda, al caimano, la pesca di piraña, che poi saremo obbligati a mangiare, fritti; ci sono le foto ritual-turistiche dei suddetti animali, all’amo, intorno al collo, afferrati per capo e coda, da mostrare agli amici una volta ritornati fra le rassicuranti mura domestiche. Meno male che almeno mi faccio una cavalcata, con un ronzino più basso di me, ma che ha l’energia del galoppo a rotta di collo.
Ormai conto le ore per tornare nella fresca Merida, esente da Puri Puri: l’ultima notte, disperato e alle soglie di un collasso nervoso, mi sono rinchiuso nella jeep, e dopo una mezz’ora passata ad ammazzare i nemici, nonché una cazziata dell’autista che mi dice che se non spengo la luce si scarica la batteria, mi sono messo a dormire come in una sauna turca, coi finestrini appannati e grondanti la mia stessa umidità.
Se domani il tempo non cambia, sarò costretto a rinunciare alla visita del villaggio chiamato Los Nevados, in quanto con pioggia e foschia non vale la pena arrivare fin lassù, con ulteriore smazzata di cinque ore di jeep. Quasi quasi spero proprio di risparmiarmi la fatica, e dirigermi verso la zona settentrionale delle Ande, per fare visita ad ulteriori villaggi tranquilli e sonnolenti, prima di prendere la via del mare (del caribe)

Le Ande Venezuelane
Eccomi a Boconò, che scrivo questo inizio di carta, a pochi passi dall’Hotel Latino, sospetto alberghetto ad ore (due giovani prostitute occupano un tavolo, fumano, le raggiungono un paio di cinesi viscidi, dopo un poco salgono alle camere; due vecchi alle soglie del barbonaggio tirano fuori una bottiglia di ron, ordinano alla camarera  baffuta due bicchieri con ghiaccio; il personale guarda in tv un programma a quiz), di categoria barata, adatta ai miei standard economici. Quando ho chiesto informazioni sul cambio in €, la vecchia mi ha chiesto se fossi italiano, dopodiché mi ha fornito le generalità sue e del marito: di Caltanissetta lei, di Latina lui. Emigrati anch’essi, come la dueña dell’hotel Italia a Guanare, prima tappa di questo viaggio Venezuelano, da circa 47 anni, dal dopoguerra italiano precedente il boom economico, quando le incertezze circa le condizioni di vita del periodo hanno creato una seconda fase migratoria, dopo quella del primo dopoguerra. Si trattava di gente contadina, perlopiù, non disposta a spezzarsi la schiena sui campi in cambio di una mera sopravvivenza, che cercava fortuna in nord Europa, o in america latina: Argentina, Uruguay, e, come mi sto rendendo conto, Venezuela. Don Antonio, dueño della posada Marysabel nel minuscolo paese andino di Jajo, ben mi diceva, un paio di giorni fa, che gli italiani sono dei gran lavoratori, e lui ne conosceva diversi, a Valera (città dello stato andino di Trujillo); evidentemente si riferiva ai vecchi immigrati, non conoscendo le abitudini dei miei connazionali odierni.
Il marito della vecchia, appena saputo che ero italiano, ha tirato fuori una bottiglia d’Averna coperta di polvere, reliquia di chissà quanto vecchia, e m’ha offerto un caffè corretto coll’amaro suddetto; poi, ha cominciato a raccontare di loro e a sfogarsi circa le attuali condizioni del paese, al che, intuito dove voleva andare a parare, gli ho chiesto, di sguincio, quando si sarebbero saputi i risultati del referendum: apriti cielo, ha cominciato una serie di improperi su Chavez, quel farabutto, amico del comunista di Castro, e seguace di quel hijo de puta di Che Guevara (sorriso a denti stretti, pizzichi sulla pancia). Lui, con le manovre del presidente, ci ha rimesso diversi milioni. Lo devono mandar via, quel bastardo. Evidentemente, esemplare della ricca classe economica, con terre e haciendas di proprietà, nonché appartamenti vari in altre città, ormai gestiti dai figli, è fra quelli che non hanno sopportato la dirigenza chavista.
Al contrario, una tipa che viaggiava con me ieri sera, in equilibrio sulle bottiglie del carro, era contenta del fatto che i suoi figli mangiavano tre pasti al giorno alla scuola, tutto aggratis, e che Chavez sarebbe restato al potere, a fronteggiare questa classe ricca che vuole solo fare i propri comodi, mandandolo a casa. Ancora, sentivo opinioni contrastanti circa l’operato del presidente, a seconda chi ne parli fosse un poveraccio, o comunque una persona bisognosa di welfare, oppure uno che con Chavez ci va a perdere, forse dovendo pagare quello che ritiene ingiusto, per fronteggiare i problemi del paese, in primo luogo la perdurante crisi economica, che ha investito ormai tutta l’America Meridionale.
Comunque, non sono andato al villaggio Los Nevados, vicino Merida; la teleferica, quella più alta del mondo, è ferma, e le montagne sono avvolte da nubi, con momenti di pioggia durante la giornata. Anziché rischiare il tracollo climatico in alta montagna, ho preferito avviarmi verso le zone più interne delle Ande, valicando il passo detto Pico Aguila, a 4.100 mt, poi proseguendo per la trans-andina, statale che attraverso le montagne, fa tappa nei vari pueblitos, collegando cosi lo stato di Merida a quello di Trujillo, a nord.
Schiacciati per dividere il posto del passeggero a metà nel por puesto, il tipo al mio fianco, saputo della mia italianità, ha cominciato a raccontarmi di un suo viaggio per l’Europa, in auto, elogiando i fori stradali alpini, e maledicendo la mancanza di quelli andini. Non  mi interessa. Arrivo quindi a Jajo, al centro delle Ande, ultimo tratto in autostop, in un carro, con contadini del posto: è l’ultimo giorno del voto circa il referendum revocatorio, e ci sono un paio di tende nella Plaza Bolivar, con sostenitori della revoca, e soldati fucili in mano, rincoglioniti dal freddo, a sorvegliare chissà che. Onde per cui, niente letto alla posada prescelta, quella carina, che affaccia direttamente sulla statua di Bolivar, per i posti già tutti occupati dal personale addetto al voto. Mi accontento della Marysabel, un paio di cuadras più in la, quella dell’amico degli italiani. Il paesino è sonnolento, e per chi non è del posto, un mortorio dichiarato; come già pensavo, faccio delle tappe di un giorno per dare un’occhiata ai vari pueblitos andini, prima di prendere la via del mare, cambiando del tutto atmosfera.
La mattina seguente, mi apposto di buon ora presso la fruteria appena fuori dell’abitato, dove passano le busetas per Las Mesitas, altro mortorio deve però non mi fermerò, ma prenderò la coincidenza (chiamiamola così) per Niquitao. Sto a cazzeggiare un paio d’ore, non risolvendomi a fare cola (chiedere un passaggio), fino a che non viene l’auto, una jeep che fa la spola fra i paesini della zona. Mi ci ficco, ed arrivo a Las Mesitas. La coincidenza per Niquitao, altra jeep, è appena partita, così, date le parole rassicuranti del choffer circa la possibilità di pedir cola, mi fermo a mangiare nel solito tugurio a gestione familiare, coi bambini belli che scorazzano per la sala buia infestata da inoffensive ma molestanti mosche (non quei guai dei Puri Puri). Dopo il caffè e la sigaretta, vado fuori a chiedere il passaggio. Niente da fare. Vado al secondo ponte, dove mi dicono che passano più carros, e dopo un poco comincia a piovere; una tipa che gestisce una misera rivendita mi offre ospitalità sotto la tettoia di lamiera: ancora niente da fare, nessuno va a Niquitao. Ormai s’e fatto tardo pomeriggio, e depresso, ventilo l’ipotesi di dormire nella posada locale, perdendo un giorno in questo buco andino. Mentre mi decido, assisto a scene di carattere comune e quotidiano, qui, come il disfarsi della basura, fra cui buone dosi di buste e oggetti vari in plastica, giù per il ponte, centrando il torrente che scorre sotto. Chiedo, come un coglione, al tipo che mi sta accanto, vagabondo: ma che fine fa questa spazzatura, dove va? E che ne so io, al fiume più grande, poi al mare. Se ne va quindi dalla immondezzaia, a chiacchierare allegramente con lei. Aumenta l’avvilimento, misto a incredulità e rassegnazione.
Torno al tugurio familiare, ma con un’informazione preziosa: l’ultimo carro  a cui chiedere un passaggio è quello della coca cola, che facendo il giro delle rivendite porta i vuoti a Boconò, oltre Niquitao. Così, metto la voce in giro che ho bisogno di quel passaggio, comprando sciocchezze varie ai negozietti del paese, e torno al tugurio. Dopo un’oretta, finalmente, passa il tipo del carro della coca cola, e gl’imploro un passaggio; dopo esili resistenze, accetta, così zompo sul carro, su un pavimento fatto di cassette coi vuoti della coca cola, appunto, della fanta, delle birre locali Regional e Polar. Mi fa compagnia una tipa col marito, con cui discuto del referendum, fino a poco fuori il villaggio, poi mi devo sciroppare solo il tragitto fino a Niquitao.
Il pavimento è mobile, la strada non è una strada, piuttosto un letto fangoso e pieno di buche, dove il carro dalle ruote lisce arranca e sbanda, salta e scivola, guada torrenti e scavalca dossi. Io salto assieme alle casse di bottiglie, mi tengo alla ringhiera del camion con una mano, l’altra afferrata alla ruota di scorta, culo basso in posizione defecatoria, per cercare un minimo d’equilibrio. Non c’è stato bisogno del rafting proposto dall’agenzia di Merida: sto avendo la mia buona dose di sport estremo, aggratis, per giunta. Lungo il cammino, luci sfocate dalla nebbia e dall’oscurità segnalano abitazioni sparse per i monti; alcune, più vicine, coi panni stesi ad asciugare nelle nuvole, in un contesto del tutto irreale. E’ passata più di un’ora, e Niquitao dovrebbe essere nei pressi. Dopo un poco se ne avvistano le luci, poi le prime case del centro abitato, e finalmente posso scendere dalla prestazione del Tagada ambulante, e riposare le mia gambe e ginocchia alla posada locale.
La mattina seguente parto per Boconò, dove c’è da fare ben poco, a parte chiacchierare coll’immigrato italiano reazionario dell’Hotel Latino; infine arrivo a Trujillo, dove, appena giunto sto aspettando una signora furba, proprietaria assieme al figlio di questo centro Internet, con l’annessa pizzeria, che mi deve cambiare 100 € ad un tasso più basso di quello comunemente praticato nel mercato nero.
Poco fa ho pranzato in un ristorantino, e sentivo due vecchietti chiacchierare in italiano al tavolo vicino: ancora altri immigrati italiani del secondo dopoguerra, qui da una cinquantina d’anni, facendo fortuna fra commerci, ristoranti, pensioni e chissà cos’altro. Augusto, di 78 anni, sta cercando di convincere la donzella, di pari età, presumo, a sposarla, visto che entrambi hanno perso il rispettivo consorte. Scherzano, si sfottono, si raccontano la vita, come due ragazzi con l’esperienza di una vita precorsa; si accomodano al mio tavolo quando introduco le mie origini. Augusto ha fatto una vita incredibile, fra commerci in Sud America, in Europa, in India per la propria attività; mi dice che ci sono Italiani, a Maracaibo, diventati milionari (di dollari) col petrolio, proprietari di navi, e di pezzi di città. E’ la generazione dei tempi andati, i ’50, quando tutto era ancora in espansione qui in Venezuela, e facendosi il mazzo, si poteva arrivare a risultati oggi impensabili, per un disilluso come me. Ora Augusto e la sua bella si divertono al di lei ristorante, e si possono permettere di parlare non di cazzate, come si fa normalmente quando non si ha un background del genere, bensì della loro vita come qualcosa di assolutamente normale, mentre per me lo è tutt’altro.

Da Coro a Puerto Cabello
Sono sano e salvo a Puerto Cabello, fine ideale della seconda tappa di questo viaggio di emozioni forti, quelle che si provano nelle periferie degradate delle grandi città, verso le 4 di mattina.
Da Trujillo a Maracaibo, città del petrolio venezuelana. Di qui a Coro, andando verso est, la cittadina dichiarata patrimonio mondiale dall’Unesco per le sue casette coloniali, risparmiate alla furia rinnovatrice del periodo d’oro del Venezuela, quello della crisi petrolifera dei primi ’70, quando i flussi dei petroldollari hanno illuso questo popolo, risvegliatosi ora in un incubo  da crisi economica e politica. Una resa dei conti sembra vicina.
Mentre si arrivava a destinazione, l’autobus è stato oggetto di lancio di pietre, grandi abbastanza da dover ricoverare un tizio alle mie spalle, da parte di sconosciuti: una ha ammaccato la fiancata del  mezzo, un’altra e riuscita ad entrare da un finestrino, volando a pochi cm sopra alcune teste, fra cui la mia, e  ha beccato quella del povero cristo in fondo al bus; ci siamo girati, dopo un attimo di confusione per le grida del disgraziato: aveva una ferita alla fronte da cui usciva tanto sangue da imbrattare lui e il sedile. Mi sono cagato sotto, e continuo ad esserlo, prendendo i posti a sedere anteriori, cercando così un posto dove essere difficile oggetto di un tiro al bersaglio.
E’ stata dura trovare posto a Coro, visto che era venerdì ed iniziava la feria navideña della città; alla fine ho dormito in un hotel di media categoria, tirando sul prezzo. Niente d’aggiungere all’esperienza; sono stato anche al cinema, dove, oltre a vedermi una cazzata di poliziesco nord americano, mi sono anche cioncato dal freddo (mai più ai cinema venezuelani senza adeguata copertura anti-aria condizionata).
Decido quindi di esplorare la Sierra di San Luis, scelta arrischiata vista la scarsità di mezzi di trasporto nella regione. Il lato buono è pernottare presso la finca di Ernest e Ursula, coppia svizzera trapiantata da 8 anni qui, con scelta campagnola annessa: hanno 9 ettari di terreno su cui sgobbare, ma i risultati sembrano buoni; ho anche comprato del caffè che producono e lavorano nella loro fattoria. Il lato negativo è quello di dipendere da passaggi per visitare le attrattive della regione (cascate, paesino coloniale omonimo della sierra, buchi profondi, caratteristici di questa morfologia), salvo le passeggiate per il cammino degli spagnoli, antico percorso pedonale della zona, congiungente varie località; mi decido a percorrerlo, nonostante le mie notorie titubanze circa gli scarpinetti eccessivi in zone date in pasto ai turisti, che potrebbero riservare qualche sorpresa. Anche qui me ne è capitata una: dopo aver visitato un paio di grotte naturali lungo il cammino, che nel frattempo si restringeva fino a diventare una pista umida da aprire a machetate, colto da sospetti circa la natura ostile della fauna invertebrata del posto, mi giro e, orrore!, dalla mia spalla si ergeva, protendendosi verso il collo, quella che mi sembrava chiaramente una sanguisuga (nonostante i giurin giuretto di Ernest & Ursula sulla improbabile presenza di questi animali nella zona). Adeguandomi alla cultura del posto, ho imprecato ad alta voce in sleng locale (la puta madre que te re-pariò) e sono fuggito via, verso zone non sospette di presenza della chupa-sangre: d’altra parte, dopo la visione mistica di una vacca sacra grondante sangue, su cui prosperavano centinaia di sanguisughe, durante un trekking abortito alla nascita, per questo motivo, in Nepal, ho giurato che sarei stato alla larga di posti infestati di tali parassiti.
Me ne vado poi ad Adicora, nella penisola di Paraguanà, anticipo di mare caraibico deludente, data la spiaggetta sporca e chiassosa dei bagnanti locali. Tuttavia nella posada dove alloggio, e sulla spiaggia, si mangia discretamente, e soprattutto a base di pesce, dopo la carne propinatami in più modi, finora. Incontro l’ennesimo italiano, che sta qui solo dal ’68, a continuare la gestione della società edilizia del suocero: gli va più che bene, costruendo qua e la nel Venezuela, eppure anch’egli odia Chavez (è un comunista, come Castro; un militare, un assassino, sta rovinando il paese… ecc ecc). Nonostante le differenze di visione politica, accetto il suo invito a vistare il punto più a nord della Venezuela continentale, dove sta costruendo un faro: mi viene a prendere alle 6 col suo gippone 4000 cc, andiamo a capo nord, poi mi molla a Pueblo Nuevo, sulla statale per Coro.

Mi faccio un mazzo per arrivare a Puerto Cabello: cambio di svariati bus, caldo e sudore, mezzi affollati: tutto ciò per vivere l’esperienza di una delle città più pericolose del Venezuela (Caracas permettendo), a detta di quelli che me ne parlano. Me lo dicevano Ernest e Ursula, raccontandomi una rapina subita a mano armata di bottiglia rotta, poi infilzata nella pancia di un terzo appena accennata una reazione; me lo dice quella dell’edicola di giornali, la dueña della posada, il tassista che a sua volta svende i suoi colleghi, dicendo che anch’essi sono dei delinquenti, rapinandoti di notte dopo la corsa; me lo dice la persona della strada a cui chiedo una banale informazione.

Turismo avventuros-pericolos
Tutto ciò comincia ad assumere i connotati di uno spy-thriller, di un poliziesco, di un racconto da Urania; ormai comincio a desiderare d’essere rapinato, per vivere da vicino quest’emozione di cui tutti parlano, ma non accade ancora, come l’esploratore dell’Himalaya che teme e nello stesso tempo desidera l’incontro con l’Abominevole Uomo Delle Nevi. Vado in giro, con la paura addosso d’essere finalmente e violentemente rapinato, a visitare le zone interessanti della città: a detta della Lonely, quelle restaurate dell’antico centro storico, ma a detta mia, anche e soprattutto i vicoli malfamati del centro nuovo, dove facce da pendagli da forca ti si sfilano davanti, e dietro soprattutto. A tratti, mi sembra di stare in una di quelle pellicole trash degli anni ’70 italiane, quando la polizia annaspava ad affrontare il crimine, tipo “Napoli città violenta” o “Milano a mano armata”. Qui sembra d’essere in una di queste, e difatti in prima pagina di un giornale locale vi è la notizia che alle forze dell’ordine locali sono state assegnate solo 7 moto, per giunta vecchie, e che diventa sempre più difficile fronteggiare il crimine; in seconda, cominciano le immagini cruente di assassinati in primo piano, ferite d’arma da fuoco in bella vista.
Volevo portare panni sporchi a lavare, e quando mi sono avvicinato ad  una guardia giurata fuori un hotel importante per l’informazione sulla tintoria più vicina, questi ha portato istintivamente la mano sul fodero della pistola, mentre in un punto Internet, all’interno di un modesto centro commerciale, all’improvviso sono comparse davanti le vetrate del posto guardie con pistole in pugno, cercando un ricercato, e la gente che si chiudeva dentro i rispettivi negozi. Ormai quasi non facevo caso ad un episodio del genere, preferendo continuare a scrivere tranquillamente, mentre gli agenti tenevano a bella vista, e ad altezza d’uomo, le suddette pistole.
Nella paranoia d’aggressione in procinto di subire, ho preso la decisione sbagliata d’assistere alla visione di un film inglese dell’anno scorso, che si chiama 28 giorni dopo. Manco a farla apposta, trattava dell’ipotesi apocalittica di un contagio che ha trasformato gli uomini in pseudo zombi, con tutte le implicazioni del caso, tipo non girare di notte in città, attento alle aggressioni che sono contagiosi ecc ecc. Man mano che il film andava avanti, ho cominciato ad assimilare la prospettiva cinematografica a quella reale di Puerto Cabello, con i mariuoli nel buio del vicolo, pronti a farti fuori; al che, per fronteggiare la paura del pericolo imminente di un  ritorno in hotel all’ora tremendamente tarda delle 20.50, ho tirato fuori dai miei ricordi Kill Bill, di Tarantino, in cui prendevo il posto di Uma Thurman.

Copione
Armato del solo boken d’allenamento delle estenuanti pratiche d’Aikido, Marco fronteggiava schiere di non-umani, che da ogni dove correvano furiosamente per succhiargli ogni residuo Bilivar ed Euro, prima di finirlo con un morso lacerante alla giugulare, notoriamente tecnica preferita da questi esseri per dare il colpo di grazia alle proprie vittime. Muovendosi fulmineamente secondo le tecniche di Kata inculcategli dal maestro del misterioso dojo Kodokan, di cui ancora non si e riusciti a determinare l’esatta allocazione, il 4* Kyu Marco sferrava micidiali colpi disarticolanti agli arti dei mostri, procurando fratture definitivamente invalidanti agli stessi. Solo grazie a questa antica tecnica di combattimento, è riuscito così a partire indenne dalla città contaminata di Puerto Cabello…

Invece sono corso appena dopo il primo titolo di coda verso la zona dei taxi, in cerca di uno che mi riporti sano e salvo al mio  hotel, la cui porta è protetta da una cancellata in ferro ornata da appuntite (ma non avvelenate) frecce di ferro.
Nonostante i presupposti, decido stoicamente di restare un’altra notte nella città, per visitare l’indomani la più bella spiaggia dello stato di Corobobo. Così faccio, prendendo una buseta per il posto, che mi molla all’incrocio fra il paesino vicino e il tratto che resta ancora da fare per giungere alla spiaggia di Patanemo. La percorro sotto al sole cocente, di buon grado, perché gia si sentono le onde del mare scrosciare, ed intravedo il bagno caraibico. Ad un tratto sento dei rumori, dietro alcune frasche; chi sarà mai? Gli assassini di Pinocchio, l’enorme alligatore del b-movie “Lake Placid” (visione a Bhaktapur con doppiaggio in lingua nepalese e senza sottotitoli: che te lo dico a fare…)? Niente di tutto ciò, sono solo dei piccoli flamingos color rosso accesso, che fanno casino fra di loro. Appena mi riscaldano queste visioni, nonostante i ripetuti inviti della guida al bird wacthing (quella del Senegal l’ha fatta nera, a proposito).
La decisione di restare è ricompensata da una bella baia con spiaggia degna delle cartoline caraibiche, anzi,meglio: ci sono simil ristorantini sull’arena, e al cenno del bagnante, preparano meravigliose comide criolle a base di pescado frito; ad accompagnare platano anch’esso fritto, con queso amarillo, e ensalada mixta. Anch’io ho fatto un cenno al vecchiaccio della capanna di lamiera, e questi, nel giro di pochi minuti, mi ha servito quel ben di dio, accompagnato da una cervezita bien fria. Questi sono i vantaggi del turista fai da te, alla faccia di villaggi turistici stile Alpitur, Med o altre amenità del genere.
Mañana me voy, es tiempo de dejar este lugar peligroso.
 

Scrivendo volando
Ora che sono andato via da Puerto Cabello, sento che il peggio rapportato ai timori di rapina è passato; non resta altro da fare in questo viaggio che godersi un poco di mare e tranquillità, nei paesini di Ocumare de la Costa e Choronì, nel Parco Nazionale Henri Pittier.
Ad Ocumare mi ospita una strana coppia, una sorta di compromesso coniugale atipico, venezuelano. Lui è un bonaccione, di quelli che potrebbero essere tranquillamente cornificati senza accorgersene, o quasi. Quando mi faceva vedere la stanza (un poco meno che squallida), dovevo schivare gli schizzi della sua bianca saliva condensata, e far finta di non notare un residuo sul naso frutto di una precedente scaccolata. Lei invece sembra una pin up, una suffragette di tarda età, coi capelli a treccine raccolti sulla nuca, e salopette corte fino alle mutande, e gli amici del marito ammaliati ed eccitati dai suoi modi da ragazzina esaurita.
La spiaggia carina sta a 20 minuti di bus, che aggira un promontorio scorrazzando per i tornanti ragazzine e giovanotti, padri e madri di famiglia coi piccoli in grembo, al ritmo di salsa, merengue, e quant’altro, sparati a volumi assordanti. Stanno tutti a cantare le canzoni, quasi come in un coro: la ragazza al mio lato, semi nuda, col culo appena coperto da un minuscolo triangolo di stoffa ed una rete che maliziosamente vela il tutto, seno prorompente e labbra carnose, le sa tutte; come il teen ager coi boccoli e viso perfetto, e il gordo colla faccia pacioccona. Alcuni di loro potrebbero tranquillamente prendere le veci di una Shakira, J Lo o Rickie Martin, data l’avvenenza, mentre s’accontentano di ascoltare questa musica popolare, fatta per allietare le masse, prodotta in maniera industriale da cantanti semi sconosciuti, e venduta all’ingrosso su bancarelle, che a Caracas occupano intere avenidas. L’effetto che ne ricavo è lo stesso di quello che provai all’ultima edizione de ‘O Munacone, storica festa del rione Sanità di Napoli, dove sfilano anonimi cantanti neo-melodici (per me), colle ragazze del quartiere che conoscono ogni parola di quelle canzoni, urlate a squarciagola.
Hubert, co-gestore tedesco della posada Don Alfonso a Choronì, è senz’altro una persona più rilassata della coppia di Ocumare (beato lui), che ha condiviso il destino di numerosi altri abitanti boreali, decidendo di vivere in altri posti del mondo, staccando la spina economico-dipendente della vita avviluppata intorno agli standard occidentali. Magari era un tassista, o un capoufficio, mentre ora sta qui beato ai caraibi, godendosi la lentezza di questa nuova vita (Ah, i nomadi del Sahara settentrionale, transumando le bestie, si riposano nella notte stellata, suonando il loro strumento a fiato e mangiando pane non lievitato cotto nella sabbia rovente e  carne di cammello sulla brace; discutono sorseggiando un the alla menta ed ignorano il significato del timbrare un cartellino ogni mattina alle 8.00: probabilmente l’imposizione di tale pratica li farebbe impazzire nel giro di due mesi, o meno, rendendoli esseri vegetali, insensibili a stimoli esterni).
Bando ai sentimentalismi, vado a Caracas, a ri-assimilare un poco la usuale vita frenetica da cittadino, con gli ingorghi di auto, i mercati di mercanzia povera o copiata, e, persino, qualche centro commerciale con annessa multisala (addicted to cinema). In questo caos, tutto si svolge tranquillamente, e nessuno si disturba, impegnato a fare i fatti suoi: l’autista di bus, il cameriere, la bancarellara, la guardia privata, immancabile davanti ogni negozio che abbia un minimo di fatturato, il relitto umano che vaga per strada, o se ne sta in un angolo buio, spettro non evocato di questa società con già troppi problemi, per occuparsi di quelli altrui.
Approfitto delle ultime ore in Venezuela per un poco di shopping, e metabolizzare frastornato alcune fasi di questo viaggio, con flash back che si susseguono rapidi: pubblicità di farmacie con medicine scontate al 30%, le risposte cortesi di quelli a cui chiedi qualcosa (“a la orden!”), o a cui dai qualcosa (“que dios se la pague”), l’onesta e la disponibilità con cui si viene trattati, il timore di essere aggrediti, e magari accoppati, per pochi soldi. Per inizio gennaio prossimo, probabilmente si conoscerà il risultato del refirmazo, la raccolta di firme tesa a convocare il referendum revocatorio di Chavez; tutto il mese è stato scandito da chiacchiere e letture circa questa grave crisi politica e di conseguenza economica. Ci sono questi due poli contrapposti, a livello istituzionale, fra presidente ed opposizione, e sociale, con gente che difende o depreca Chavez. Siccome il meccanismo di scontro messo in moto sembra aver attraversato ormai un punto di non ritorno, ci sarà d’aspettare qualcosa di serio, e spero non drammatico.
Ormai sono più vicino all’Europa che all’America del sud, con l’aereo in prossimità della costa portoghese, e questo viaggio già appartiene al passato; resta da vedere cosa lascerà, a breve o medio termine. Sicuramente il ricordo di bei posti, e l’ennesima conferma delle enormi difficoltà in cui vive gran parte della popolazione mondiale, in confronto alla sicurezza in cui noi europei, nord americani, australiani, culliamo il nostro benessere economico.


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