Thailandia 2008


Sotto la pioggia, a cento wat, sulle strade dell’Illuminato…

(diario di viaggio 2 – 16 settembre di Marcello)

Itinerario: 4 pernottamenti a Chiang Mai: con visite a Chiang Mai città, al Doi Suthep, a Lampang, a Lamphun, a Wiang Kum Kam, a Chiang Dao e dintorni
3 pernott. a Kae Bae sull’Isola di Chang: con escursioni a Koh Yuak, alle cascate di Khlong Plu (nel parco nazionale)
6 pernott. a Bangkok: con visite ai monumenti reali e i wat, alla città storica di Ayuthaya, al mercato di Chatuchak, ai canali del Chao Phraya, all’antica Thomburi e al museo nazionale

Il programma di viaggio di quest’anno, prevedeva un viaggio in Asia, per colmare una colpevole lacuna, riguardo le culture d’Oriente. La scelta della Thailandia è nata dopo un’analisi tra costi e fattibilità degli itinerari ritenuti indispensabili, ed in più per la riflessione sulla visita di una nazione che avesse abbracciato la filosofia buddista (icona del pensiero orientale) come religione ufficiale di stato.
Gli spostamenti preventivati invece, sul programma di massima, ritenevamo di subordinarli alla presa visione dello stato della viabilità e dell’efficienza della rete stradale e dei trasporti in genere ed alle condizioni climatiche, ahimè non previste delle migliori in un paese caratterizzato da pioggie monsoniche e da un tasso elevatissimo di umidità, proprio nel mese da noi eletto per il nostro tour, ovvero Settembre.
Faccio un passo avanti per chiarire l’itinerario del nostro viaggio: il tour realizzato (con qualche rilevante variazione sul programma di massima previsto), ci ha visto pernottare quattro notti in Thailandia del Nord a Chiang Mai (con escursioni a Lamphun-Lampang, a Chang Dao e sul Doi Suthep), per tre notti a Koh Chang in zona Kae Bae (con escursioni nel parco nazionale presso la cascata di Khlong Plu e all’isoletta di Koh Yuak) e per sei notti a Bangkok (con escursioni ad Ayuthaya ed in barca sul Chao Phraya al mercato galleggiante di Tailing Chan). Riguardo al bilancio spese, siamo andati in maniera ottimale, in linea con le premesse di una nazione dai bassi costi, difatti a parte  il costo dell’aereo, prenotato due mesi prima per un importo di € 740 a testa, con la China Airlines (Roma-Bangkok-Roma), il bilancio dei 13 giorni effettivi in terra Thai è molto esiguo (per la voce uscite…), difatti ho rilevato costi totali per vitto ed alloggi per circa 320 € in due e spese di trasporti interni (aereo Bangkok-Chiang Mai A.R., auto a nolo con driver Chiang Mai-Lampang, taxi Bangkok-Trat con ritorno in autobus, treno per Ayuthaya e ritorno in bus e taxi ecc.) per un totale complessivo di € 400 circa!
Lo studio dell’itinerario (con le varie possibili opzioni), dei posti imperdibili, l’infarinatura di base sul pensiero buddista, l’elenco degli alloggi consigliati e gli spunti gastronomici, e i dettagli sulla storia e sull’arte thai, era già in atto da circa tre mesi prima della partenza, tramite le prime informazioni raccolte su internet (tra racconti di viaggio ritenuti interessanti e l’immancabile Wikipedia), sul mio “mattone” enciclopedico “La storia delle grandi religioni”, e su guide e depliant cortesemente speditimi su mia richiesta dall’Ente Nazionale del Turismo Thailandese. Dopo la conferma ufficiale della data di partenza, abbiamo acquistato due guide, la Lonely Planet (ed. 2007, € 28), che si è rivelata, come al solito, ottima per le informazioni a carattere pratico, ma assai deficitaria per la correttezza e la completezza dei contenuti storico-artistici, e la White Star (ed. 2008, € 22,50), inglese ed in quanto inglese quasi antitesi dell’americana L.Planet!
Provvedevamo inoltre alle vaccinazioni consigliate (ma non obbligatorie!), come l’antiepatite A-B, l’antitetanica e l’anti febbre tifoide, presso la nostra ASL di competenza, e procedevo anche alle veloci pratiche di rilascio della patente internazionale (tre gg. presso la Motorizzazione, circa 40 Euro), nel caso una volta in viaggio si dovesse ritenere di noleggiare un’auto o una moto.
Così tra preparazioni d’itinerari e di occorrente, arrivava presto il 2 Settembre, dove all’ora fissata delle 13.40 all’aereoporto di Fiumicino, partiva il nostro aereo per Bangkok.

Il 3 Settembre, dopo un viaggio di circa undici ore, arrivavamo all’aereoporto Suvarnabhumi (pron. Suannapum) di Bangkok alle 5.30 del mattino ed una volta disbrigate le formalità d’ingresso, ci recavamo innanzitutto ad un “Exchange” per scambiare i primi 450 Euro (forse un pochino troppi, ma la fortuna aiuta gli audaci, perché non ho più beccato il Bath al rapporto di 49,53:1 per tutta la durata del viaggio!), poi correvamo al box dell’Asia Air, per chiedere lumi sui costi di trasferimento aereo per Chiang Mai, ed i furbetti della compagnia di voli interni, si allineavano con i costi delle compagnie di bandiera Thai e Bangkok Air, così a circa 42 Euro, sceglievamo la Bangkok Air, con una attesa di solo un’ora. A Chiang Mai, una volta arrivati, beccavamo un Taxi privato e tra una chiacchiera e l’altra scoprivo che il tizio era di Chiang Dao, una località a circa 70 km da Chiang Mai, che avevo depennato mio malgrado, dal primo itinerario, nonostante gli interessi di grotte monacali e dei villaggi di tribù montane vicine, per prediligere un impatto più pratico e meno condizionato dal tempo e dal probabile interramento nei sentieri stradali interni. Naturalmente ci ha subito allettato l’idea di un escursus con tassista originario del posto e fissavo già un accordo (Sabato mattina per 1200 Bath) per una gita, che si sarebbe comunque rivelata una scelta poco felice.
L’alloggio eletto (dopo la brutta impressione che ci aveva dato la referenziata Baan Manee) era una Guesthouse alle porte della città vecchia, Lai Thai, con esterni in grazioso stile Lanna in legno teak, ampio cortile d’ingresso e stanza a primo piano, aria condizionata e bagno privato, per 590 Bath al dì (circa 12 Euro, un buon consiglio del tassista).
Dopo lo scontato riposo, primo Wat(teloapesca) il Phan Tao, cominciando a districarci tra i caratteristici tetti a spiovente delle Sale delle Assemblee (wihaan), le case degli spiriti (edifici in miniatura, talvolta esattamente riproducenti quello principale) dai poteri protettivi del luogo, lo stupa o chedi, cono molto alto, che nei primi wat (o templi buddisti) era un luogo di tumulazione delle reliquie del Budda, e le prime delle innumerevoli statue (prevalentemente dorate) dell’Illuminato (o Risvegliato).
Dopo la visita al Wat, prima cena ufficiale presso un ristorantino di cucina Thai (esordio con noodles di pollo e green curry, zuppa di verdure tailandese  nel latte di cocco). Alla fine, corsa in Tuc-Tuc (il treruote montato a taxi, per due o tre passeggeri) per la prima visita di mercato, il famigerato Chiang Mai Night Bazar, con piccoli acquisti e…grandi massaggi, ci volevano!

L’indomani, 4 Settembre, ci svegliavamo con in testa il programma di visita alla città vecchia, ci aspettava una costellazione di wat e l’appendice del Doi Suthep. Difatti, dopo una colazione continentale in Guesthouse, ci attrezzavamo di zaini ed impermeabili ed andavamo a caccia del primo tuc tuc disponibile; inutile dire che usciti dalla pensione, era lui che trovava noi… Così, ci dirigevamo al Wat Pa Pao, per dare un’occhiata ad un wat di influenze birmane. Difatti il tetto della Sala delle Adunanze era insolitamente piatto, sovrastato da un chedi a gradoni con merlettature e disegni di chiaro stampo birmano; simpatica anche la chiacchierata introduttiva con un monaco tunica arancia, che ci faceva quasi da cicerone nell’area del tempio. Poi a piedi, era l’ora del Wat Chang Man, un tempio dagli spazi ariosi, nel verde, con disegni dorati su sfondi rossi e con due famose ed antichissime statuette del Buddha, risalenti a non meno di 1500 anni or sono!
Proprio all’uscita del tempio, ci imbattevamo, in un ennesimo tassista, che ci offriva i suoi servigi nei restanti wat e per la visita del monte sacro Doi Suthep, in cambio di 5 minuti a fermata per sette stands commerciali, con cui lui aveva stipulato dei patti sui coupons-benzina. Dopo una breve trattativa, la spuntiamo per 600 Bath, includendo almeno un’ora e mezza al Doi Suthep, e mezz’ora l’uno per i tre wat che ritenevamo di visita obbligata. Così affrontiamo i 306 scalini che portano in cima al Wat Doi Suthep, un luogo panoramico e di quiete assoluta, forse l’essenza dell’atmosfera mistica del Buddismo Theravada: disseminato da campane suonate dai fedeli, con lo stupa d’oro circondato da ombrelli, con candele accese dai profumi d’Oriente, con monaci che oravano davanti le richieste dei fedeli inginocchiati, avvolti dalle infinite statue dorate e constatando dall’alto dei nostri piedi scalzi, come cani e gatti fossero invece liberi di passeggiare senza divieto alcuno! Dopodichè, era il turno del Wat Jet Yot, con sette particolari guglie squadrate (simboleggianti le sette settimane passate da Buddha a Bodhi dopo il risveglio sotto l’albero di Ficus) e con un Budda bronzeo nella classica posizione di passo incedente, in vesti e acconciatura dello storico stile scultoreo Sukhothai. Adesso era il turno delle sette fabbriche sette, e tra la diffidenza sulla portata reale della visita, ci accorgevamo invece che il tassista ci portava in posti commerciali, si, ma che almeno proponevano una visita guidata per seguire i vari passi dei cicli produttivi: l’oro, l’argento, la giada, la seta (dal baco al prodotto finito), gli ombrelli di carta, la laccatura del legno, il rattan ed il bambù; limitando le tentazioni d’acquisto è anch’essa una visita interessante ed istruttiva.
Rientrando a Chiang Mai, arrivava il turno del Wat Phra Sing, con uno splendido piccolo wihaan, contenente sia la famosa statua dorata del Phra Sing, in stile Sukhotai (linee arrotondate ma slanciate, espressione facciale soave ed eterea), sia con affreschi e decorazioni a motivi di derivazione cinese laai kham (decorazioni dorate su sfondi colorati). Il Wat Chedi Luang, tutto ricostruito e di minore interesse, se non fosse per la pietra miliare di Chiang Mai (anno 1296, fondata da Chao Phraya Mengrai, principe Thai) e per la possibilità di una chiacchierata con i monaci, un esercizio molto difficile se il proprio inglese si limita a delle basi elementari di conversazione.
Dopo, la nostra serata, aveva la sua degna conclusione, nella prima mangiata ufficiale di pesce (pesce gatto e spaghetti di riso con frutti di mare) presso i ristoratori del Chiang Mai Night Bazar, buona igiene e prezzi modici, ovvero circa sette euro in due, e tra un piatto e l’altro ascoltavamo gli echi dei disordini davanti il Palazzo del Governo della capitale, dove una cospicua rappresentanza, studentesca soprattutto, da più giorni inneggiava contro il discusso premier Samak, ritenuto portavoce mascherato, del precedente dimissionario Takhsin, tra le mie speranze che la situazione di protesta potesse durare, almeno fino al nostro arrivo al Bangkok, in maniera tale da poter immortalare il tutto con qualche foto esclusiva (ma più avanti la situazione si sarebbe evoluta invece in maniera più pacifica).

Il venerdi 5 Settembre, sarebbe dovuta essere la giornata dedicata a Sukhothai, massima espressione d’architettura e cultura Thai, ma una breve consultazione dell’agenzia di noleggio Journey, il giorno prima, ci faceva propendere per la gita alternativa più vicina: causa le quattro ore e passa previste di tragitto d’auto per tratta; veniva quindi scartata l’opzione Sukhothai, per abbracciare la soluzione Lampang-Lamphun, in una gita che risultava essere un mix, tra pseudo-naturalismo e le architetture, altrettanto tipiche thailandesi, negli stili Lanna-Thai e Mon-Haripunchai.
Cosicché scelta l’opzione del noleggio auto con driver (tariffa di circa 31 € per dieci ore, più le spese di carburante), alle otto di mattina Sucha, l’autista di turno, ci veniva a prendere direttamente presso il nostro alloggio. La prima tappa, in direzione Lampang, era il Thai Elephant Conservation Center, dove, prima ed ultima esperienza “pachidermica”, cedevamo alla tentazione di mezzora di rafting sul dorso della povera bestia e assistevamo allo spettacolo dimostrativo sull’ammaestramento e sulle capacità lavorative (di un tempo…) degli elefanti, con una platea immensa di turisti follemente divertita da quest’avanspettacolo di bassa jungla! Poi magari, finita l’onda emotiva, ti metti a pensare, come in una società fuggi-campagna come ormai è anche quella thailandese, l’unica maniera di sopravvivere per queste bestie, forse è proprio questa (sigh!).
A pochi chilometri dal T.E.C.C., vi è il wat forse più rappresentativo della cultura Thai del Nord, ovvero il Phra That Lampang Luang, costruito interamente in classico stile Lanna, utilizzando il teak, sia per i wihaan che per il bot (o Sala delle Ordinazioni), quest’ultimo si differenzia dal wihaan, per pochi particolari (essendo anch’esso quadrangolare e con tetto a falde e a più livelli) come ad esempio le stele o pietre che ne delimitano il perimetro esterno, circoscrivendo la loro sacralità; assai rilevanti le alte colonne interne in teak della Sala delle Assemblee, le pareti con affreschi più o meno distinguibili, con scene tratte dai racconti dello jataka, ovvero la storia delle precedenti 547 reincarnazioni del Buddha, e l’alto chedi dorato (campaniforme), la cui immagine si proietta capovolta attraverso un foro, nella cappella vicina, creando un suggestivo effetto.
Sulla via di ritorno, in mezzo ad una sorta di diluvio, che inaugurerà una lunga serie di temporali più o meno penalizzanti, ci fermavamo a Lamphun, antica capitale del regno Haripunchai, di origini mon (etnia proveniente dalla Birmania e insediatasi in terre thailandesi prima del 600 d.C o del 117 d.B.), lì, rintracciavamo il Wat Phra That Haripunchai (del XI sec.), con un ombrello dorato a nove ordini sull’altissimo chedi e il Wat Kakut, dedicato all’antica regina mon Chama Tewi, dove potevamo ammirare lo stile costruttivo dei mon (stile Dvaravati), con dei chedi a gradini, sulle cui nicchie venivano apposte delle statue di Buddha in pietra, con fisionomie e volti tipicamente schiacciati.
Il giro di architetture mon, continuava vicino Chiang Mai, dove ci fermavamo al villaggio di Wiang Kum Kam, e ammiravamo due Wat, il Chang Kham, con una casa degli spiriti e un serpente mitologico bronzeo (il naga) di grande fattura ed il Chedi Luam, con un altro stupa piramidale in pieno stile Dvaravati.
La sera optavamo per le bancarelle alimentari della Porta (Pratu) di Chiang Mai, a circa duecento metri dal nostro alloggio e gustavamo cibi preparati accuratamente nelle padelle e nei tegami proprio davanti i tuoi occhi, cento Bath erano una cifra finanche troppo bassa per quello spettacolo di maestria culinaria.

Sabato 6 Settembre, ritornava in auge il tassista dell’aeroporto, che ci veniva a prendere come da accordi direttamente in Guesthouse per la ripromessa gita a Chang Dao, alla ricerca dei villaggi tribali Akkha, Lisu, Lahu e Karen.
Era molto forte la nostra attesa per questo incontro con comunità spesso animiste, talvolta poligamiche e sicuramente dai colori forti (specie gli abiti femminili), coltivatori di riso (come i Lisu) o allevatori (come i karen), dalle abitazioni montate su palafitte o dai caratteristici tetti a spiovente (come per gli Akkha). Ma all’arrivo, subito dopo l’ennesimo Elephant Center, il nostro autista (dopo capiremo che era in buona fede…), ci conduce ad una postazione, dove era possibile raggiungere un villaggio Lisu solamente coll’Elephant Rafting: rinunciavamo per la ripromessa del “mai più in groppa ad un pachiderma” e ci accontentavamo del piccolo vicino villaggio Lisu, in cui i maschi della tribù, zappavano o facevano finta di zappare, all’avvicinarsi remoto di qualche turista. Comunque vedevamo almeno le palafitte e le capanne ad ambiente unico, qualche baby tenuto con le fascie al collo dalle madri e una vecchietta del villaggio col vestito rosso fuoco delle grandi occasioni. Poi era il turno di un villaggio karen, in cui imperava un cartellone pubblicitario un chilometro prima e poi, sorpresissima, un ticket d’ingresso al villaggio: facilmente immaginabile il nostro diniego alla visita!
Così il nostro tassista capiva che le esigenze “tribali” erano altre per noi, e ci conduceva stavolta alle interessanti grotte Tham Chang Dao, una discreta esperienza semi-speleologica, condotti da una guida dotata di lanterna, alla ricerca di tre effigi buddiste nel cuore delle grotte, luogo di eremitaggio durante i secoli scorsi; in alcuni punti dei 700 mt di camminamento, bisogna difatti strisciare nel terreno per riuscire a passare nelle fenditure del calcare (30 Bath l’ingresso, 100 Bath la guida).
Un acquazzone accompagnava la fine della nostra visita, proprio mentre il nostro accompagnatore sembrava aver compreso la nostra esigenza di maggiore autenticità ed aveva rintracciato telefonicamente la sorella minore, per due incursioni all’interno di tribù Lisu e Akkha. Ma man mano che ci avvicinavamo alla destinazione, il temporale si faceva sempre più dirompente, fino a trovare punti stradali di massimo allagamento e la strada che ci avrebbe dovuto portare ai due villaggi, era diventata adesso assolutamente impraticabile.
Ci fermavamo così malinconicamente presso un laghetto vicino Chang Dao, e sotto una tettoia di un ristorantino, sgranocchiavamo del pollo con il mesto amico del taxi e la dispiaciuta sorella.
Tre e mezza del pomeriggio, il tempo per riaccompagnare la sorella a casa e tentare di vedere le cascate di Nom Tok Mae Sa, sulla strada di ritorno per Chiang Mai.
Naturalmente, appena il tempo di fare i biglietti e di dare una sola fugace occhiata alle cascate, che un altro temporale di dimensioni colossali  ci coglie a ricordarci che “oggi non è giornata”…
Ritornavamo un po’ sconsolati in pensione per la doccia…, e poi nuova capatina al Pratu Chiang Mai, per la nuova esibizione balistica presso le bancarelle alimentari: i nostri Pad Thai vegetariani, volavano letteralmente sulle padelle preparatorie ed era un piacere veder trattare quei germogli di bambù o quelle foglie di coriandolo con tanta abilità.
Il dopo erano massaggi e un “dormiamoci sopra”!

I tre gg. di legittimo mare, alias 7-8-9 Settembre, ci vedevano impegnati prima in una lunga traversata (il 7 Settembre), dove appena in tempo per una colazione veloce, correvamo in taxi per l’aeroporto di Chiang Mai, per compiere in giornata i programmati 1100 km per Koh Chang (o 1700 km per Krabi-Koh Phi Phi). Spiego il programma machiavellico in corso d’opera: avevamo due opzioni mare, una sul fantastico Mar delle Andamane, da ogni guida del mondo consigliato nelle stagioni fredde o calde e mai in quella umida (Luglio/Ottobre) e l’altra Koh Chang sul Golfo di Thailandia, spesso trattato in maniera più clemente dai monsoni. Il fatto è che fino al giorno prima della partenza per la Thailandia, arrivavano dai siti internet meteo, proiezioni meno turbolente per il temuto Mar delle Andamane piuttosto che per il Golfo di Thailandia. Così rimanevamo fortemente speranzosi di una tre giorni negli anfratti calcarei di Krabi e dintorni, piuttosto che nella parzialmente segnalata isola di Chang. Nei giorni di permanenza a Chiang Mai, però la sentenza delle consultazioni meteo, ci conduceva alla scelta opposta, obbligandoci all’opzione secondaria Koh Chang, così la mattina all’aeroporto, dopo gli ultimi dieci minuti di collegamento al sito (www.tmd.go.th/en/), propendevamo per il Golfo di Thailandia, e ci accostavamo alla biglietteria più economica per il volo verso Bangkok (non esistevano voli diretti Chiang Mai-Trat).
La già citata Air Asia, dimostrava ancora di essere inappetibile per biglietti staccati direttamente in aeroporto (3000 Bath!), ed invece la compagnia di bandiera Thai, con attesa di meno di un’ora, risultava sicuramente più conveniente (43 € a persona). Con il vantaggio che alle 9.40 eravamo già a Bangkok, per proseguire in direzione Trat, per il porto di Laem Ngop. A Bangkok ci confermavano che l’unico aereo per Trat partiva alle 16.50 e per gli autobus saremmo dovuti farci accompagnare alla stazione Est, per un viaggio di cinque ore e mezza: unica soluzione rapida, la scelta del taxi! I privati, consultati velocemente, proponevano tariffe impossibili, così la scelta ricadeva sul Taximeter al prezzo fisso di € 73 direttamente fino al porto di Laem Ngop.
In quattro ore arrivavamo così all’imbarco e già nel primo pomeriggio sbarcavamo a Koh Chang. Ufficio informazioni (gestito da una simpatica signora) proprio di fronte al molo, e la nostra opzione Ao Salak Phet (punto più lontano nel Sudest dell’isola), veniva condizionata dal consiglio dell’operatrice e, benedetto cambiamento, con un soongtaew (un pickup a due file di sedili, capienza dodici passeggeri), arrivavamo ai bungalow prescelti del Nang Nual Resort di Kae Bae, sul versante occidentale dell’isola, solitamente caotico ma non in un lunedì di Settembre thailandese; con una sistemazione in un bungalow di una splendida baia semichiusa, piena di verde e con vista diretta sul mare (aria condizionata e bagno privato per € 17 al giorno).
Il resto della giornata ci trascorreva a trastullarci tra quel panorama sul mare (ingresso camera a tutta vetrata), a passeggiare sulla battigia, a fotografare il tramonto e dulcis in fundo con una buona cenetta al ristorantino del resort.
Nei giorni successivi il tempo si dilatava e dava spazio, la mattina presto, anche a mie riflessioni scritte sulla vita e la cultura thailandese, specie nei suoi legami più o meno marcati con il mondo e la filosofia buddista. Quale miglior ispiratore della libertà di pensiero come il fragore leggero di un’onda che si adagia su un letto di coralli dimenticati? Così correvano i miei flussi mentali, proprio come fossero in preda al Karma buddista, coglievo lo scorrere della mia voglia di comprensione di quel mondo lontano, e pur consapevole che l’anima buddista nasca proprio dal motivo opposto, quello del superamento dell’asservimento ai nostri bisogni ed ai nostri desideri, desideravo comprendere i perché del non-desiderio, e la mia contraddizione si sposava pienamente con quello che finora avevo già visto e percepito.
Quel mondo Thai e Buddhista, frutto di alta spiritualità, ma anche paradosso di una convivenza della stessa con l’agognata civiltà dei consumi, alimentata d’altronde proprio dai desideri del consumatore. La sintesi di ciò erano ad esempio quei taxi, stracolmi di immagini ed icone buddiste in tutte le posizioni mistiche, di foto di monaci di devozione e di ghirlandine sacre, ma nello stesso tempo guidati da driver tecnoconsumistici (telefonini ultima generazione, video intrattenimento, occhiali e vestiti firmatissimi ecc.)!
Così dalle riflessioni di battigia subito dopo l’alba, io e Paola passavamo alla spiaggia adiacente alla nostra baia, da dove si ammiravano tre isolette di fronte, che sembrava facessero da sirene ad ogni bagnante. Difatti ad una prima giornata in cui alternammo ad una mattina di relax marittimo, di amaca rilassante e di passeggiate tra le mongrovie vicine, pomeriggio e sera tra soste più o meno brevi causa temporale di turno e una cenetta a base di pesci salmastri (somigliavano alle nostre spigole, ma conditi con impasto soffritto di riso e mollica), fece seguito un programma di esplorazione il giorno dopo: tra prove di snorkeling in una delle isolette tropicali di fronte (Koh Yuak), con visione subacquea “documentaristica” di alcune specie ittiche, finora ammirate solo grazie agli acquari, e con una gita escursionistica alle cascate di Nam Tok Khlong Plu, all’interno del Parco Nazionale di Koh Chang, dove spingendoci fino a sotto la cascata di 30 mt di altezza e alla piccola piscina naturale ai suoi piedi, mi fidavo della leva della fune di sostegno apposta, ma con zaino alle spalle subivo una comica e forzata escursione tra i fondali del torrente (cascato in cascata…!). Poi un cocco dei tropici veloce e camera per l’attesa dello scamparsi della pioggia e del perpetrarsi di una nuova e succulenta serata a base di pesce e frutti di mare grigliati (5 € a testa). Tempi di bilanci per la tre giorni balneare: nonostante le grandi riserve iniziali riguardo la scelta obbligata, Koh Chang è un’isola che almeno nel periodo dei monsoni settembrini, si fa godere. Precipitazioni limitate, mare di buon livello, tante isolette per lo snorkelling, possibilità d’alloggiare senza affanni nella parte dell’isola più piena di servizi, molte opportunità per escursioni nel parco o alle cascate, flora e fauna abbondanti. Insomma noi abbiamo beneficiato di due giorni e mezzo pienissimi, ma sono estremamente convinto che anche gli amanti delle settimane in panciolle al mare, qui ai tropici di Koh Chang non rimpiangerebbero di certo i lidi della Gallura…

La mattina del 10 Settembre, si ripartiva per Bangkok, prima prendendo un soongtaew (pron. songtaeo) in resort, poi dal porto il motopeschereccio (molto…claudicante), che già all’andata ci aveva traghettato; giunti al porto di Laem Ngop, altro soongtaew per la Stazione dei bus di Trat, quindi in autobus (258 Bath cad., ma con un piacevole servizio: accompagnatore ai posti, colazione e rinfreschi) in cinque ore e mezza fino alla stazione Est Ekamai di Bangkok e da lì in taximeter fino alla Guesthouse (indicata tra le tante dalla L.Planet) di Banglamphu, ovvero Bella Bella House, per un totale di meno di nove ore di spostamento. Alle 16 difatti eravamo già in camera e dopo un po’ si ritornava in giro per il quartiere dei viaggiatori da zaino di Banglamphu, per il rituale immancabile delle cartoline agli amici e per mangiare presso le decantate bancarelle del mercatino di quartiere.
Trovavamo il tempo comunque di curiosare in una Soi vicina, e lì veniva attirata la nostra attenzione da un ring in strada, per l’addestramento di novelli boxer di Muay Thai ovvero quella che da noi è conosciuta come boxe thailandese. Gli adepti da addestrare erano quasi tutti europei che alloggiavano probabilmente presso gli hotel vicini, e che effettuavano dei corsi presso i maestri locali: era simpatico vedergli sfoderare tra pugni, calci, gomitate e ginocchiate, tutta l’aggressività repressa e portata come fardello fino in Thailandia; poi davo un’occhiata al maestro e mi pareva di scorgere, oltre l’impegno nel compito, anche un mezzo ghigno che cercava di tenere nascosto dentro di sé.
Presso le bancarelle di fronte l’alloggio, si mangiava di tutto e tutto in padella alla luce del sole, oltre al khao (riso) in tutte le maniere e in tutte le zuppe. Noi ci davamo ad un pasto totalmente vegetariano con riso bianco a parte, un po’ di sosta dopo tanti…salti in padella, era proprio il caso di prendersela!
Una postilla su Bella Bella House: camere spartane, aria condizionata non regolabile, scortesia diffusa tra i gestori, sarà mica un’altra topica della guida americana? Sta di fatto che decidevamo di cambiare, visto che c’erano altre cinque notti programmate a Bangkok e dopo una breve selezione, continuavamo a fidarci dei consigli Lonelystici e prenotavamo per l’indomani la Mango Lagoon Place, proprio accanto a questa (€ 12,50 a notte, ma stavolta sarà davvero una sistemazione doc).
Correvano i giorni e stamani eravamo giunti già al famoso 11 Settembre. Qui in Thailandia, di turbolenta, prima del nostro viaggio, si era andata profilando l’ipotesi dell’ennesimo colpo di stato (sarebbe stato il 18° dal 1932 ad oggi), ma pian piano durante il nostro tour al Nord e sul Golfo, le notizie che c’erano arrivate qui da Bangkok diventavano sempre più rassicuranti. Devo dire però che i colpi di stato in Thailandia storicamente non hanno mai veramente assunto le dimensioni di un intervento armato violento, quasi sempre (non ultimo quello del 2006) l’intervento dell’esercito avveniva in coda al malumore e alla protesta generale di piazza nei confronti del governo in carica, e difatti anche stavolta, i disordini sopravvenuti a Bangkok e presso gli aeroporti più turistici, avevano come mira la destituzione del chiacchierato premier Samak, colpevole secondo i manifestanti di esser un galoppino dell’ex premier dimissionario Thaksin (una sorta di magnate televisivo thailandese: “mi ricorda qualcosa o qualcuno…”). Ma dopo i primi disordini, Samak (forse per evitare il peggio), si dimetteva autonomamente in virtù ad una presunta accusa di incostituzionalità per la partecipazione alla trasmissione televisiva de “La prova del cuoco” thailandese: magari i nostri politici si dimettessero per ogni azione anticostituzionale commessa…! Così la mia speranza recondita di trovare qualcosa di storico nelle piazze di Bangkok da fotografare, veniva delusa da una situazione sempre più tranquilla e definita. L’unica nota politica da noi osservata era che, ancora a Camera non sciolta ufficialmente, a Bangkok già giravano i volantini elettorali dei Democratici Thailandesi!
La mattina quindi, la dedicavamo al Museo Nazionale, che doveva fungere da introduzione alla programmata gita ad Ayuthaya del giorno seguente. Difatti, intorno alle abitazioni principali del “secondo re” durante il regno di Rama I (ovvero il principe ereditario Maha), diverse sale e cappelle ospitano una interessante e varia raccolta di reperti storici Thai, e si passa con buoni corredi informativi, dalle incerte origini preistoriche della civiltà thai (tra cultura del bronzo di Ban Chang e le migrazioni da regioni cinesi intorno al primo secolo), ai reperti scultorei della cultura Dvaravati e mon (600-700 d.C), dagli intermezzi delle dominazioni Srivajiaya e Khmer, all’imporsi delle culture Thai di Lanna (dal XIII sec.) e di Sukhothai (XIII-XV), dall’impero Ayuthaya (XIV-XVII sec.) antenato del periodo Ratanakosin, fino alla dinastia Chakri, che fondò Bangkok e che fino ad oggi, con il veneratissimo Bhumidol (Rama IX) regna ancora sul trono della capitale.
Così potevo parzialmente supplire alla mancata visita di Sukhothai, riuscendo a vedere dal vivo i reperti con ornamento a bocciolo di loto (caratteristici nelle architetture di quel periodo) e la colonna in pietra di scritture thai del re Ramkhamhaeng, ideatore ed introduttore dell’attuale sistema linguistico thailandese. E nelle sale vicine, interessanti, il trono del primo re post-Ayuthaya, Taksin, fondatore di Thomburi (la vecchia Bangkok sulle sponde opposte del fiume Chao Phraya), con le ceneri un po’ dimenticate di quel sovrano caccia-birmani, un’interessante collezione di reperti di avorio, esposizioni dedicate alla storia degli strumenti musicali tradizionali e delle maschere e marionette tailandesi, troni e palanche reali e le immani carrozze reali per le grandi cerimonie funebri.
Usciti dal museo, tra i traumatici trentacinque gradi (aggiungiamone dieci per il tasso d’umidità elevatissimo), trovavamo il solito Tuc Tuc, per la destinazione prefissata, il Wat Suthat. Arrivati lì, prima dell’ingresso, davamo un’occhiata alle bancarelle delle strade adiacenti, e poi l’esordio nel bot del tempio buddista era un preludio alla stupenda ripresa videosonora dei canti salmodianti dei monaci del tempio. La sala centrale era circondata da torrette a mò di pagode, costruite con materiale usato come zavorra delle imbarcazioni cinesi preposte nei secoli scorsi al trasporto del riso, all’interno della stessa il decantato Phra Si Sakyamuni, in stile Sukhothai, uno dei più grandi bronzi dorati della Thailandia e interessanti pitture sulle pareti in legno, con la riproduzione di alcune delle vite passate del Buddha (la cui penultima si dice fu la reincarnazione del principe Visnantara).
Poi dopo la constatazione della avvenuta chiusura delle cappelle dedicate al Brahmanesimo (peccato, avremmo voluto vedere le testimonianze dirette di un culto minore in Thailandia che sopravvive all’interno di un wat buddista), dichiaravamo chiusa la parte della giornata dedicata alle visite e cominciavamo la serata andando ad esplorare i resti delle bancarelle diurne del quartiere Chinatown, dove più tardi, cenando in loco, confermavamo le idee su una sostanziale differenza tra la cucina thailandese e quella cinese (uso maggiore delle fritture in quella di origini cinesi).

Il 12 Settembre era il giorno per la prima vera full immersion tra i resti della cultura Thai per antonomasia, ci attendeva la civiltà di Ayuthaya, che dominò per ben quattro secoli una porzione geografica che va da parte della Birmania a Laos e Cambogia. I Thai di Ayuthaya, sotto la guida iniziale di re Ramathibodi (o U Thong), assorbirono pian piano, nel corso dei decenni e dei secoli, tutte le potenze limitrofe, dai Khmer di Angkor, ai Thai di Sukhotai, subendo solo per un breve periodo la dominazione birmana (un ventennio intorno alla fine del XVI sec.), ma rialzandosi più potenti di prima, stipularono parecchi accordi commerciali con le potenze europee (francesi, olandesi, inglesi e portoghesi), e la città di Ayuthaya venne decantata a metà del 1600, come una delle più belle del mondo conosciuto.
Così con un comodo treno diretto, alle 9.15 del mattino già eravamo ad Ayuthaya, così da poter fare a meno dei lacci degli insistenti tuc tuc, ed iniziare la visita con una bella camminata dalla stazione al primo wat della lunga serie: il Wat Mahathat. Il wat, adesso, come la maggior parte dei monumenti dell’antica Ayuthaya, è composto da una serie di interessanti resti, in cui spiccano una splendida testa di Buddha completamente raccolta in un tronco di ficus, i sistemi di aerazioni tra le mura del palazzo principale e alcuni stupa, tra cui quello principale, un po’ malconcio, ma al cui interno fu trovata una veneratissima reliquia del Buddha, conservata in un’urna d’oro al Museo Sam Chao Phraya, che più tardi avremmo visitato.
Nel vicino Wat Ratburana, si ammira un alto prang, ovvero lo stupa di origini khmer, difatti la città di Ayuthaya subì costantemente l’influenza culturale della sottomessa cambogiana Angkor e ciò è facilmente denotabile in tutti i monumenti tailandesi di quel periodo, dove spesso è annoverato il chedi costruito a forma di pannocchia (chiamato appunto prang); nel prang principale di questo wat, furono ritrovate due tombe, inerenti alla guerra fratricida di successione al trono dopo la morte di re Intraraja, i due fratelli in questione Ai e Yo, furono cremati e tumulati dal fratello minore Boromraja II (1424); scendendo più in basso all’interno del prang, si può ammirare anche una cripta con affreschi dell’epoca e al cui interno furono rinvenuti ori sacri e un modellino dorato del prang stesso.
Dopo una nuova bella camminata, seguendo la mappa inviataci dall’Ente per il Turismo Thailandese, raggiungevamo il Wihaan Mongkon Bophit, anch’esso contenente un Buddha, ma bronzeo, con rivestimento ramato-dorato e molto alto di dimensioni; proseguendo sulla strada arrivavamo quindi al Wat Phra Si Samphet, il più visitato in assoluto di Ayuthaya, noto per l’ordinamento dei palazzi che lo circondavano, per l’orientamento dei chedi secondo la rappresentazione del paradiso delle religioni orientali (il monte Sumeru, gli oceani divisori e i monti più piccoli in direzione dei punti cardinali), e soprattutto per i tre grandi chedi centrali campaniformi e in stile singalese, contenenti le ceneri del 9°, del 10° e dell’11° re di Ayuthaya (XV sec.).
Alla fine della visita, per i Wat situati al di fuori dell’isola cittadina, ci affidavamo stavolta al tuc tuc, che ci portava immediatamente al Wat Na Phra Meru, dove nel bot, oltre un Buddha dallo stile Ayuthaya (un pò grossolano nella fattura scultorea), si ammirava uno splendido soffitto di legno intagliato, raffigurante la visione del Paradiso (…in miniatura) e nel wihaan vicino, vi era posto un Buddha singalese seduto su una sedia di pietra verde.
Poi passavamo al lontano Wat Wattharam, totalmente in stile tardo Khmer, composto da un bel prang centrale (a forma di pannocchia), attorniato da altri otto prang più piccoli in direzione dei punti cardinali e subcardinali; durante la visita la piattaforma era piena di bambini tailandesi, evidentemente impegnati in qualche gita d’istruzione, e ogni tanto un nuvolo di bambine si accostava a noi, superando ogni timidezza thai di sorta e chiedendoci una foto con loro!
Al museo predetto infine, potevamo ammirare gli ori ritrovati nelle cripte del Wat Mahathat e del Ratburana, e innumerevoli statue del Buddha, tanto per chiarire definitivamente la differenza tra gli stili scultorei Dvaravati, Khmer, Sukhothai, U Thong (o primo Ayuthaya) ed Ayuthaya classico.
Finito il tour, alle 16.30, ci attendeva la sorpresa della mancata disponibilità dei treni, sovraffollati per Bangkok, fino alle 19, così decidevamo per l’ennesima “passeggiata” fino alla stazione degli autobus, dove prendevamo il bus per Bangkok alle 17.30, ma visto l’immane traffico nella capitale, nonostante un taxi abbastanza abile nello smarcarsi dal traffico dalla stazione bus, arrivavamo a destinazione in guesthouse solo alle 20.15!

Giorno 13 Settembre, era programmata una visita “reale”, difatti attrezzati di armi e bagagli, dopo una colazione thai a base di vermicelli di riso e pollo, tramite il Taximeter, ci avviavamo per la lunga visita al Wat Phra Kaew e al Palazzo reale (ingresso 300 Bath, incluso Museo degli oggetti reali).
Dopo una lunga coda per entrare, alle 9.30 eravamo già ad ammirare gli innumerevoli affreschi sulle pareti dei muri circostanti e, aiutati dalla precedente visita alle marionette del Museo Nazionale, cercavamo di interpretare numerosi episodi del Ramakien, una versione Thai dell’antica leggenda del Ramayana indiano; si potevano distinguere in quegli affreschi colorati e dorati, le sembianze di Hunaman, dio delle scimmie ed eroe del romanzo, Rama il re spodestato della città di Ayodya, la moglie Seda, Ravana il rapitore della moglie, con i demoni dell’isola di Lanka al suo servigio, poi il palazzo reale, i combattimenti degli eserciti, la prigione di Seda e la sua liberazione da parte di Hunaman.
Poi osservavamo le gigantesche statue di Hunaman e di Rama, e sempre all’esterno del Wat, parecchie figure mitologiche delle leggende Thai, come il Singha (leone dai grandi poteri), il Garuda (un uccello che combatteva il serpente Naga), i Kinnari (ibridi esseri dalla testa di uomo e dal corpo d’uccello) e gli yaskha (guardiani cinesi in groppa a leoni).
Nel bot del tempio, vi era collocata la famosa e piccola statua (dai circa otto secoli di storia) del Buddha di smeraldo, alto solo 75 cm e posto molto in alto rispetto alla visuale dei visitatori. Di un materiale costruttivo non accertato (pare giada o quarzo), il Budda viene svestito e rivestito ogni quattro mesi dell’anno, al cambio della stagione con una particolare cerimonia, avendo esso tre abiti diversi a seconda se si trova nella stagione calda, fredda o in quella umida.
Tra i solleciti di velocizzazione della visita per il troppo affollamento, riuscivo a soffermarmi anche sui dipinti delle reincarnazioni (Samsara) del Buddha, e spiccava come in molti altri Jataka già osservati, quella centrale dell’elefante bianco, un’altra delle 547 vite prima dell’Illuminazione.
All’esterno del bot, osservavamo ancora un modellino perfetto dell’antica Angkor, la Sala della biblioteca reale, i wihaan, degli stupa costruiti con frammenti di porcellana cinese e il grande stupa d’oro che dominava l’intera area.
Dopo una lunga sosta per le foto, all’uscita, notavamo gli ex palazzi di corte, in cui spiccava uno stile mix tra la tradizione europea presente nei prospetti (c’era anche il rinascimentale…) e i tetti in architettura thai (corone tailandesi), chiamato farang sai chadaa. Poi compreso nel biglietto, una visita al Museo adiacente, dove tra i numerosi reperti reali, spade, collane, anelli, porta tabacco ecc., si poteva osservare la storia completa e documentata della moneta Thai, che fino a circa il 1850 (Rama III), era ancora espressa in pietre solcate che fungevano da conio ufficiale (la moneta vera e propria fu introdotta da Mongkut, Rama IV).
L’attrazione del Wat Pho, era un Buddha enorme disteso di 46 mt x 15 mt di altezza, dorato, costruito in gesso e mattoni ed a stento contenuto tra le pareti del wihaan che lo ospitava. Il Buddha, piegato sulla destra, rappresenta il raggiungimento del Nirvana, attimi prima della sua estinzione definitiva; rilevanti, sulle piante degli enormi piedi uniti, le raffigurazione simboliche in madreperla di 108 segni ben auspicanti (di cui purtoppo non siamo riusciti a sapere molto di più).
Una miriade di stupa attorniavano il complesso del tempio, anche se lo stile della loro costruzione spesso si allineava alla linea architettonica della tarda Bangkok, ovvero lo stile Ratanakosin, con chedi campaniformi, ma dalla peculiare forma squadrata.
Nel parco intorno, vicino al monumento celebrativo della scuola di massaggi più antica della Thailandia (con regole e dettami di questa arte), vedevamo la consueta scolaresca di piccoli tailandesi, composti e compiti già in tenera età, un po’ come tutti quei cani e quei gatti, incontrastati ma silenziosi padroni dei wat: educazione thai!
Intorno al bot, le statue dorate del Buddha, erano 394, per lo più riprodotte in stile Sukhothai: ma non nascondo una certa sazietà sopraggiunta nell’osservarle con l’attenzione che magari esse avrebbero meritato!
Poi un’acquazzone (toh, chi si rivede), ci induceva a saltare il vicino Wat Mahathat e a considerare iniziata la serata.

Domenica 14 Settembre, ci alzavamo presto, visto che il programma del mercato per antonomasia ovvero Chatuchak, ci consigliava di arrivare alle 8 di mattina all’apertura delle prime bancarelle, onde evitare la calca domenicale e il caldo asfissiante delle ore più centrali.
Sta di fatto che girando e rigirando tra parte delle 84.000 bancarelle stimate, il caldo sarebbe sopravvenuto lo stesso e lì, tra me e Paola, sarebbe iniziata una prova di resistenza e di sfiancamento, che solitamente in qualsiasi mercato del mondo, in condizioni normali mi avrebbe visto certamente soccombere.
L’impressione che ti arreca un mercato di siffatta portata, in cui le bancarelle si affacciano tra strettoie più o meno percorribili, è un inno alla perlustrazione, alla curiosità, più ti inoltri nei meandri di quella stuoia di bancarelle e più l’idea iniziale di far stragi di affari e di offerte, si va affievolendo sempre di più, ma non perché non ci siano prodotti di convenienza o perché la scelta risulti limitata, ma è forse un fenomeno umano, la troppa dispersione crea disorientamento, ed è ciò che noi e osservando bene, molti dei turisti che si riuscivano a riconoscere, subivamo inevitabilmente, così per una dozzina di acquisti, siamo rimasti lì la bellezza di otto ore…
Da segnalare, padiglioni interessanti di abbigliamento, anche se ad un certo orario si riempiono all’inverosimile di tailandesi in cerca dell’affare, souvenir di tutti i generi, dai giocattoli per bimbi, ai libri, dai Buddha in tutte le salse e le dimensioni, all’artigianato vario, dalle pietre più o meno vere, alle ghirlandine, infine il reparto degli animali domestici, per chi volesse portarsi a casa un cucciolotto thailandese…
Di rilievo naturalmente, in questa Babele, anche il settore gastronomico, dove tra la frutta riuscivamo finalmente a trovare il discusso durian, anche se fuori stagione non poteva di certo impressionarci per la sua nota e pungente essenza, poi tra bambini che suonavano strumenti tradizionali tra cui il ranat ahk, simile allo xilofono, ci sedevamo ad uno dei tanti locali e gustavamo piatti di carne e mango accompagnati dal khao in bianco di turno.
Poi col caldo sempre più asfissiante, si continuava a girare e ogni tanto un nuovo acquisto rimpinguava il bottino, fino a che, sorpresa delle sorprese, la mia compagna cedeva di schianto alle quattro pomeridiane: che soddisfazione! Un taximeter in attesa degli smobilitati davanti la porta del mercato  ci riportava direttamente alla nostra base.
Naturalmente la sera al mercato di Banglamphu, sotto la nostra guesthouse, di giri per souvenirs non se ne parlava nemmeno!

Il 15 e 16 Settembre, erano le rampe di lancio per il viaggio di ritorno fissato alle 3.25 della notte! Così tra la preparazione dei bagagli, come al solito raddoppiati di volumetria, ultimavamo anche il programma di visita finale e, di gran carriera, cominciavamo con una “traghettata” sulla sponda opposta del Chao Phraya, addentrandoci negli spettrali vicoli di Thomburi, alla ricerca del Museo delle Barche Reali (30 Bath, più 100 Bath per il permesso di fotografare). Dopo un tortuoso percorso, giungevamo a destinazione, per ammirare la Suphannahong , la barca personale e cerimoniale del re, lunga ben 45 mt e costruita intagliando un unico pezzo di teak (interessante anche il cigno mitologico dorato, Hansa, che dominava la prua), la Krabi Prab Muang Mara con la bella rappresentazione di Hunaman che spiccava anch’essa a prua, e altre barche tra cui una risalente addirittura al regno opulento di Rama V (intorno al 1880).
Alla fine della visita, dal porticciolo del museo, contattavamo alcuni privati, possessori di taxi acquatici ed imbarcazioni varie, nella speranza di poter osservare il vicino mercato galleggiante Thailat Chan, visto che qualche guidatore acquatico, badava bene ad omettere il fatto che durante i giorni feriali mancavano proprio i venditori… Così dopo esserci accordati per 500 Bath a testa, quella gita, dovevamo considerarla solo una bella immersione tra i Khlong (canali) di una Venezia d’Oriente come era la parte antica di Bangkok, con chiatte e piattaforme sui due lati del fiume, che dovevano esser state usate per due secoli per il trasporto ed il commercio di riso e con barche ormeggiate, che nei weekend, dovevano trasbordare di frutta e verdura fresca. Solo due barche di venditrici di souvenirs, avvicinatesi con sorrisi ammaliatori, ci davano l’idea del mercanteggiamento dei giorni lavorativi, e una barchetta in legno piena di frutta in miniatura, non potevamo di certo esimerci dall’ acquistarla!
Rientrati tramite il taxi acquatico, sulla riva opposta del fiume, beneficiando della vista a tutto grattacielo delle zone multiresidenziali altra realtà della capitale, dal molo d’approdo, ci dirigevamo verso il Mercato degli Amuleti, ultima visita programmata di quel viaggio e poter vedere un mercato di tatuaggi e talismani di quella viva portata, ci indusse alle successive considerazioni e conclusioni sulla portata del nostro viaggio.
Sta di fatto che, il pomeriggio e la serata volarono via tra una doppia cena, per immortalare nei nostri ricordi (e tra i nostri profumi), quella particolare cucina d’Oriente, e tra la lunga sosta, al Mango Lagoon Place, resort meritevole di ottime referenze, in cui godevamo dell’intrattenimento di ultime trasmissioni televisive in lingua Thai e scorgevamo sul muro di fronte, libero a quell’ora da taxi o tuc tuc in attesa di lavoro, delle piccole creature grigie e sotterranee, non certo accattivanti, che rovistavano fugacemente tra sacchetti lasciati lì dai ristoranti vicini…
Così senza noia alcuna, arrivò l’ora del taxi per l’aeroporto (400 Bath) che all’una della notte, si raggiunge in 25 minuti e con estrema facilità.
E tra le ali del viaggio di ritorno, ragionai sulla visita finale al mercato degli amuleti, considerando che proprio lì ci imbattemmo in un ultimo spettacolo inedito ed esauriente, era come se tra stands e bancarelle in cui curiosavamo, ritrovassimo alcune, ma solo alcune, delle risposte alle domande continue di un viaggio intero, osservammo la magia di quei simboli e di quelle statuette, impressa proprio tra gli occhi di tutti quelli che rovistavano tra loro, in quel tintinnio e turbinio di caccia al senso della vita. Il buddismo, eterea religione o filosofia, colmava una parte del proprio vuoto e forse riusciva anche a convivere con le nuove istanze di una società che cambiava velocemente, ma in ognuno di loro, la vista di un talismano, l’appropriarsene, il far proprio un tatuaggio segnato per la vita, era comunque una meta in più. Thai nel Samsara: spirito mai domo della cultura odierna o amuleti viventi di una Thailandia che fu?

Marcello M.

Dettagli viaggio:
Compagnia aerea: China Airlines
Costo del volo diretto (A.R.): € 740 cad.
Costo totale del soggiorno per due persone (Vitti e colazioni: € 117; Alloggi in Guesthouse e Resort: € 212; Trasporti interni (aerei, taxi, autobus, treni, long boath, tuc tuc, soongtaew, 1 gg. di noleggio auto con driver): € 400
Tickets monumenti, divertimenti, shopping e varie: € 260

Per un totale complessivo di spese soggiorno: € 1000 (per due persone)

milazzomar@tiscali.it


scrivi qui il tuo commento