Stati Uniti 2007


TESTIMONI DELLA CREAZIONE
Stati del West Soft: il viaggio più bello del Pianeta Terra

(racconto di viaggio 25 agosto – 13 settembre di Renzo)

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Ormai si fa del turismo in tutto il pianeta. E più lontano si va, più ci si aspettano meraviglie esotiche. Più difficile è l’interazione con gli autoctoni, a causa di lingua, costumi e cibo diversi, più ci si aspetta di provare brividi di piacere. Le peripezie di quei viaggi riempiranno certo le lunghe serate d’inverno attorno al camino coi nipotini, ma lì per lì quello che si sperimenta sono le difficoltà e nient’altro – tant’è vero che dopo tre settimane si è saturi di scomodità, di venir tempestati dalle richieste di acquisti o di regali avanzate dai miserabili autoctoni e di visitare luoghi d’interesse che se fossero in Italia non degneremmo di uno sguardo. La ricerca dell’esotismo, nata forse con le Esposizioni Universali e i Salon di Parigi nella seconda metà dell’Ottocento, quando i musicisti rimasero affascinati dagli strumenti indonesiani e gli impressionisti si innamorarono delle stampe giapponesi, non è mai andata fuori moda. Con il turismo di massa si è affermato il mito del luogo incontaminato, bello e impossibile. “Familiarity breeds contempt”, recita un proverbio inglese: quando qualcosa ci è vicino, non riusciamo a valutarlo come merita. Una cosa, una persona, un luogo… e ci dimentichiamo che tutto è impermanente, e che dobbiamo cogliere l’attimo perché tutto, in realtà, è prezioso.

Dell’esotismo, della febbre della scoperta di cui erano caduti vittima i naviganti del XVI secolo, sono stato preda anch’io – una smania che mi ha fatto girare mezzo mondo e per la quale non avevo trovato la cura. Mi ci è voluto un viaggio superlativo per farmi ricredere. Un viaggio spettacolare, un intrattenimento che è durato tre settimane, alla fine delle quali tutto il gruppo, invece di bramare il ritorno a casa, si è dichiarato pronto a ricominciare il giro. Un viaggio che sembra progettato da uno scenografo, ogni quadro studiato per stupire lo spettatore più del precedente. No, non in qualche giungla, non in un deserto o sui picchi di montagne innevate, non tra i coccodrilli né tra i pinguini, non tra i selvaggi della Papuasia né tra gli Esquimesi: un viaggio nei tranquilli, vicini e confortevoli Stati Uniti.

La visita dei parchi del sud-ovest degli USA offre una sorpresa al giorno. Come tutti i viaggi itineranti, anche questo esige molto dal partecipante: ritmo vivace delle visite, di rado si dorme due notti nello stesso letto, si percorrono circa 7.000 km in tre settimane… e per questo ho ritenuto doveroso procacciare al mio gruppo tutte le comodità possibili: sistemazioni per le notti in motel decenti, cene in posti carini e tagli a tutti i chilometri non necessari. E se questo significa spendere cento euro in più, ebbene, sono i soldi meglio spesi dell’anno. Una vacanza non dura il tempo tra il volo d’andata e quello di ritorno: il ricordo dura una vita, e lo si può rivivere all’istante ogniqualvolta ci punga vaghezza. Senza considerare che il mondo è grande e nei posti già visitati probabilmente non si tornerà più. Per questo i viaggi sono così importanti: per tanti costituiscono l’unico punto di attracco a una realtà diversa, nella quale non siamo più solo produttori e consumatori, nella quale possiamo finalmente coniugare il verbo essere nel mondo, essere testimoni di quello che esiste, e vedere cosa si è divertito a fare il creatore nel nostro piccolo pianeta, sperduto in quest’angolo dell’universo.

Questo gran tour dei parchi del sud-ovest degli Stati Uniti inizia a San Francisco. La hostess, sussiegosa, annuncia la discesa del nostro aviogetto nella “città più bella del mondo” e mi diverte la sfacciataggine con cui ci propina questa chicca di saggezza. Evidentemente la ragazza non ha visto Venezia. Né Barcellona. Tuttavia San Francisco è una città che rimane nel cuore di molti come un luogo dove tornare. Una lunga passeggiata ci porta, attraverso un mercato domenicale adiacente l’elegante municipio, al portale della Chinatown più famosa d’America. Dai negozi ai templi, alle piazze dove vecchi e bambini si riuniscono a giocare ciascuno i propri giochi e a sentire le ore scivolare, Chinatown è un tripudio di colori, di attività e di mercanzie. Passiamo poi accanto ai caffè e alle librerie dove si ritrovava l’intellighenzia che mezzo secolo fa rivoluzionava la società. Basta ascoltare la musica del periodo per rendersi conto della portata del fenomeno che diede a San Francisco rilievo nella mappa della cultura: le canzoni noir o smielate degli anni Quaranta, grazie a un’iniezione di cultura negra, lasciano il posto al rockabilly, al blues per i bianchi, al rock. I benpensanti si scandalizzano, Elvis ruota il suo pelvis e i rapporti tra giovani e adulti non saranno mai più gli stessi. L’esistenza diventa un esperimento, i libri di Kerouac scoppiano di libertà, della meraviglia di una vita trovata per caso e vissuta con gusto, dove nulla va storto, perché tutto è possibilità. Ci arrampichiamo fino alla strada più tortuosa del mondo, Lombard Street, facciamo un giro in battello per vedere Alcatraz e il profilo di San Francisco dalla baia, e poi attraversiamo il Golden Gate Bridge per un salto a Sausalito affacciata sull’acqua. E’ agosto e San Francisco e addirittura la parte superiore del ponte spesso scompaiono dentro la nebbia… siamo approdati davvero in un altro mondo.

Vicino a San Francisco (si fa per dire, tutto in America è extra large, anche le distanze) si apre una valle verde, chiusa da maestosi blocchi di granito. I cervi-mulo ormai sono talmente annoiati dalle attenzioni dei turisti che nemmeno si muovono e viene il sospetto che siano in realtà di gommapiuma – con gli americani non si sa mai, loro vivono in altro mondo anche in questa accezione della frase e non percepiscono il limite del buon gusto. Ma no, sono veri e risparmiano le energie, a differenza di piccoli branchi di alci americane che ci mostrano il didietro non appena ci avviciniamo un po’ troppo per riprenderle. Cascate, un fiumicello che fa la gioia di un gruppo di bambini, prati e un circuito obbligato per le vetture, dal quale usciamo per raggiungere, percorrendo una strada panoramica, un delizioso ostello poco lontano che ci offre cibo e alloggio.

L’indomani, attraversate montagne, praterie e deserti, ecco aprirsi il Pacifico. Monterey, proprio come San Francisco, ha rinnovato il pontile principale (Fisherman’s Wharf) e adibito un angolo del porto a salone all’aria aperta per nativi e turisti senza distinzione. Questo, per la gente comune; ma noi andiamo a dare un’occhiata anche a dove i ricchi si crogiolano al sole: lungo la 17‑mile Drive si stendono campi da golf e alberghi molto esclusivi accolgono il jet set internazionale. Già, perché quello nazionale invece è proprietario delle meravigliose ville disseminate lungo questo, uno dei tratti di costa più fotogenici del mondo. Fotograficamente interessante è anche l’autostrada 1, tagliata lungo il costone che fronteggia il Pacifico, stretta e perennemente attraversata dai banchi di nebbia che si formano a causa della differenza di temperatura tra le fredde acque oceaniche e le rocce scaldate dal sole. A sud di San Luis Obispo la costa digrada e si aprono insenature e piccole spiagge. I missionari spagnoli, che colonizzarono queste terre nel 1700, costruirono a Santa Barbara la County Courthouse, un tribunale in forma di castello moresco con affreschi e vetrate istoriate. Più a sud, Santa Monica si picca di un megapontile turistico famoso nel mondo con luna park e negozi, ma a noi piace di più il centro pedonale della cittadina, recentemente rinnovato con gusto. Il luna park per noi lo troveremo a Disneyland, verso la quale scendiamo lungo uno degli innumerevoli tentacoli della piovra losangelina.

Una volta si leggeva Topolino, adesso si passano le ore alla Playstation, ma un parco divertimenti coi personaggi dei videogiochi lo debbono ancora costruire: ecco perché un giorno a Disneyland è forse più segretamente soddisfacente per gli adulti che per i bambini. Gli ultrasettantenni del gruppo ne approfittano, ma è anche possibile fare un giro per il centro storico di Los Angeles, città indubbiamente granitica e di rappresentanza, che però indossa la propria magniloquenza con garbo, dalla grande, bella stazione ferroviaria (Union Station, 1939) agli imponenti edifici déco della Broadway, dal municipio – dall’ultimo piano del quale godiamo di una vista panoramica – all’ariosa, luminosa nuova cattedrale. Un salto a Hollywood non può mancare, e ne approfittiamo per cenare in un caratteristico diner anni ’50, tutto cromato e con decorazioni di automobili d’epoca.

Il viaggio vero e proprio inizia ora. La Valle della Morte è la prima, curiosa tappa. Zabrisky Point, il Campo da Golf del Diavolo e il Percorso dell’Artista sono solo alcuni dei fantasiosi toponimi che queste formazioni geologiche hanno suggerito ai primi esploratori. Sotto la tettoia, l’orologio del Visitor’s Center segna 45 °C: questo caldo secco è feroce, ma non uccide. La sera entriamo nel mondo illusorio di Las Vegas. Ci chiediamo come funzionino le macchinette, visto che non abbiamo la faccia tosta né conosciamo il vocabolario in uso ai tavoli da gioco. Alla fine riusciamo, puntando un dollaro, a vincere un dollaro e mezzo. Le cameriere hanno visto giorni migliori ma non è stato loro permesso di cambiare il guardaroba: le minigonne e le scollature, più che disapprovazione, suscitano la nostra pietà. Le lasciamo nel loro inferno, noi andiamo verso la nostra terra promessa. Zion National Park fu così battezzato perché, ai coloni mormoni che per primi vi si stabilirono, parve bello quanto doveva essere stata Zion, la biblica terra promessa. La splendida imponenza del parco si ammira da una navetta gratuita che carica e scarica i visitatori alla decina di fermate che costeggiano i dirupi del canyon. Uscendo dal parco in direzione est la sorpresa è ancora maggiore nel vedere la Checkerboard Mesa, peculiari formazioni rocciose che fanno pensare a colate di budino alla vaniglia con venature di cioccolato.

Qualche ora di guida e già ai lati della strada si cominciano a vedere espressioni del territorio differenti, assimilabili stavolta a canne d’organo. Il Red Canyon merita una breve ma intensa raffica fotografica, ma è il grande anfiteatro di Bryce Canyon a lasciare tutti a bocca aperta. L’eleganza delle forme e dei colori delle colonnine che, come un esercito in formazione, occupano la vasta conca di Bryce non è cosa che si dimentichi, ed è proprio la bellezza del coro degli “hoodoo” che ritorna alla memoria più dell’imponenza di Zion, più delle dimensioni apocalittiche del Grand Canyon e più delle bizzarie geotermiche di Yellowstone. Proviamo a tornarci a notte fatta, sperando che la luna quasi piena ci regali un paesaggio d’altro mondo, ma le nuvole oscurano completamente la scena. In compenso, un letto a dimensioni di piazza d’armi (king size) ci aspetta giusto fuori dal parco.

Viaggiare in piccolo gruppo è piacevole, ma ogni tanto ci si viene a trovare in mezzo al fuoco incrociato di turisti provenienti da ogni parte del mondo. E’ successo all’Antelope Canyon, un luogo peculiare (tecnicamente uno “slot canyon”) che meriterebbe di essere visitato in solitudine. Questa spaccatura nella roccia misura solo 400m di lunghezza, è larga tra il metro e mezzo e i quattro metri e sembra una versione in miniatura di quella che conduce a Petra. Le curve psichedeliche delle pareti, modellate da pericolose ed improvvise piene (quando piove l’acqua del circondario vi si convoglia e diversi turisti non hanno fatto ritorno), lasciano filtrare la luce dall’altopiano sovrastante solo nelle ore centrali della giornata. La visita viene obbligatoriamente effettuata in compagnia di una guida Navajo, le cui spiegazioni vengono perse nel parapiglia dei numerosi gruppi che vanno e vengono lungo gli stretti passaggi, disturbando i fotografi appostati coi cavalletti. Tanto angusto l’Antelope quanto vasto il Grand Canyon. Il Grand Canyon è una macchina del tempo: ci si ritrova all’improvviso testimoni della creazione, si avverte lo spirito primigenio aleggiare su quelle terre ancora e per sempre vergini, quasi a sollecitare la nostra approvazione, quasi a volerci co-creatori. Ed effettivamente la ciclopica dimensione dei solchi che il fiume Colorado ha scavato, complici migliaia di anni di acqua e neve, fa scattare qualcosa dentro di noi, in comparazione così piccoli e così transitori. Per quel che i greci chiamavano sympathia, davanti ad una così maestosa sfida, ci si sente perfettamente in grado di rispondere: la grandezza dello spirito umano non è da meno, anzi, ha una marcia in più: se tutto lo spettacolo a perdita d’occhio è naturale, vero e puro, ciascuno di noi ha in più la possibilità di dirigere le medesime forze – quelle che hanno forgiato il Grand Canyon e che animano noi umani – con la potenza della volontà.

Volontà invincibile dimostrarono i pionieri, che a metà del 1800 iniziarono a colonizzare l’Arizona. E il pernottamento nella simpatica cittadina montana di Flagstaff è stato l’occasione per vedere come i coloni abbienti se la passassero. Una visita alla Riordan Mansion fornisce parecchi indizi su come l’uomo bianco, appena arrivato, sfruttasse i nuovi territori, importando lo stile di vita europeo e adattandosi alla legge del più forte che vige in natura, legge ancora presente in filigrana in tutta la filosofia interna ed internazionale degli Stati Uniti.

Dopo il Grand Canyon noi, ultimi arrivati, sorprendiamo ancora il tempo all’opera nella Foresta Pietrificata, e tocchiamo sostanza vegetale transustanziata in minerale grazie a un capriccio del destino, degli elementi, del tempo, chissà. Multicolori, i tronchi paiono essere usciti da poco da una segheria e attendere un utilizzo degno del loro status: una casa sui generis, magari, come qualche pioniere ha fatto quando non venivano ancora considerati preziosi. Multicolori sono anche le curve e le colline del Deserto Dipinto, che corona a nord il percorso lineare del parco. Col binocolo cerchiamo anche di scorgere le figure e i ghirigori indiani scolpiti su un muro di roccia, che però è troppo distante dal belvedere. Ma gli indiani, quelli vivi, li troviamo appena più a nord, nel Canyon de Chelly. Uno di loro ci condurrà all’interno del canyon, mostrandoci le rovine dei minuscoli abitati, costruiti in pietra sotto costoni di roccia rossa e con essi mimetizzati. E’ interessante la visita di quel che fu ed è ancora territorio usato dagli indiani, permanentemente o stagionalmente, ma di de Chelly si imprime soprattutto la fulminante visione di Spider Rock al tramonto. Credevamo la Natura avesse ormai giocato tutte le carte vincenti: non avevamo fatto i conti con de Chelly. Ci siamo tornati all’alba per godere ancora della solitudine, della maestosità di un canyon dove ogni espressione della vita trova spazio, e ancora di quella originalissima roccia. De Chelly è relativamente poco noto, a differenza della Monument Valley che ormai risiede nell’immaginario collettivo grazie ai film western. Con tre ore la raggiungiamo, e il percorso attorno alle torri ci cala in un set che si presenta a noi come realtà, anche se solo la realtà di una vacanza. E’ un archetipo che ci spiazza attualizzandosi, un’immagine viva dentro di noi che sorprendentemente troviamo viva davanti ai nostri occhi: realtà interna e realtà esterna identiche nel medesimo istante – per tre indimenticabili ore.

Come vivessero gli indiani da queste parti, centinaia di anni fa, ce lo raccontano i bellissimi insediamenti di Cliff Palace e di Spruce Tree House, nel (relativamente) vicino parco di Mesa Verde. L’abilità nella lotta per la sopravvivenza di quei primi abitatori è evidente, ma è il prepotente senso della grazia, della moderazione e dell’ordine che emana dalle loro architetture che conquista. In quelle costruzioni a secco ogni pietra ha una collocazione e una funzione, così come anche le persone debbono averla avuta: tutto sospeso tra terra e cielo, per un’esistenza da spirito abitatore di territori – granai al riparo dai topi e finestre per l’osservazione degli astri. Non è vero, perché sappiamo che tra tribù confinanti c’erano rivalità e sanguinose faide, ma Mesa Verde fa pensare a una microsocietà dove regnassero coesione e pace. Il mistero, qui come in Messico, è la causa della sparizione di queste società, primitive in termini dell’attuale tecnologia ma così perfettamente integrate nel loro ambiente. Forse i numerosissimi petroglifi di Newspaper Rock ci potrebbero fornire qualche indizio se riuscissimo a decifrarli. Per visitarli occorrerebbe una breve deviazione lungo la strada per Moab, e il tempo è tiranno.

Moab è graziosa, fatta apposta per attirare turisti in cerca di cose carine come noi. Chiunque abbia visto il film “Supersize Me” conosce la verità e il verdetto dei medici: non mangiare mai in un fast food! Evitiamo quindi quegli antri avvelenati, perniciosi non solo per il corpo ma anche per lo spirito: è giusto che la faticosa giornata del turista venga compensata da una cena in un locale carino, che abbia carattere. A Moab è stato possibile grazie a due microdistillerie, frequentatissime e dall’atmosfera spumeggiante come le loro birre. Da Moab si visitano un punto panoramico e due grandi parchi: il Dead Horse Point, dal quale la vista spazia su panorami infiniti, il tavolato di Canyonlands e il curiosissimo Arches. Si chiama “Isle in the Sky” la zona di Canyonlands che visitiamo, ed effettivamente, ad ogni belvedere, ci si affaccia su un territorio molto più basso e selvaggio, una terra dimenticata dal tempo e dagli uomini, in cui l’acqua, il vento e il sole riempiono della loro essenza il visibile. Invisibile invece, ma profondamente pervasivo, è il senso di vanità, davanti alla grandezza di queste forze che governano il nostro pianeta, dei minuscoli problemi, della piccola vita della quale siamo pieni… fino a che non arriviamo a Canyonlands: una mattinata in quella isola nel cielo ritara la mente mettendo tutto nella giusta prospettiva. Tanto austera la lezione di Canyonlands quanto simpatica e giocosa l’atmosfera di Arches, quasi un parco divertimenti. Le forme sono incredibili: rocce in bilico, figure in processione, archi e campate, semisfere di roccia multicolore, gole invalicabili… e un paio di brevi trekking per goderne.

Con un giorno intero di autostrada siamo nel Wyoming. E’ settembre e i rodeo estivi sono ormai finiti, ma i cavalieri si stanno allenando con lazo, cavalli e vitelli, ed è una sorpresa scoprire che il Wild West non sia completamente scomparso. Oltre ai pronipoti dei cowboys, il Wyoming ospita gli ultimi due parchi del nostro percorso: il Grand Teton e Yellowstone. Il Grand Teton offre le montagne più pittoresche che si possano immaginare, grandi piramidi che si levano bruscamente da una pianura costellata da idilliaci laghi. E’ un paradiso naturalistico: ne approfittiamo per una gita in gommone sullo Snake River. Frotte di turisti, americani e non, si riversano ogni estate su Jackson Hole: abbiamo la fortuna di gustare la pace e la bellezza di questo paesaggio prima che ulteriori alberghi vi vengano costruiti. Jackson Hole, come la vicina West Yellowstone, sono carinissime e mirate spudoratamente al turista. Il Grand Teton offre escursioni alpine e camminate panoramiche, ma il paradiso del turista è senz’ombra di dubbio Yellowstone. Cascate, lago, canyon, montagna e pianura, foreste, fenomeni geotermici, e orsi, bisonti, lupi e cervi in libertà. Tutto in una bellezza incontaminata, preservata sin dal 1872, quando quest’angolo nord‑occidentale del Wyoming fu protetto, in qualità di parco nazionale, da cacciatori e costruttori. L’Old Faithful è il geyser più preciso del mondo, ma il vicino Beehive Geyser è più poderoso e si può ammirare più da vicino. E pozze dai colori dell’arcobaleno o d’un turchese purissimo, antri misteriosi d’acqua bollente, sereni torrenti alpini, foreste dove nevica sino all’inizio di giugno… La voglia di avvicinarsi agli animali, liberi nel loro habitat naturale, è tenuta a bada dal rischio di incontri troppo ravvicinati: i bisonti, colle loro spalle possenti, sono enormi, sorprendentemente rapidi e potenzialmente pericolosi, al pari degli orsi che in più hanno artigli, canini e una fedina penale non esattamente pulita.

Il piano dei voli di ritorno ci concede la possibilità di un’escursione in pallone aerostatico. Metà del gruppo decide di alzarsi presto per vedere il sole spuntare dalla catena del Grand Teton a bordo di una mongolfiera. La situazione è divertente, si rivivono virtualmente i primi esperimenti di volo, anche se ora l’aria viene riscaldata con fiammate di propano. E lo champagne all’atterraggio è una consuetudine civilissima e benemerita.

L’asse di rotazione terrestre, gli orari di levata e di tramonto del sole e della luna, la differenza relativa tra la temperatura dell’oceano e delle terre emerse, l’azione erosiva del vento, dell’acqua e della neve, il tempo che sa passare sia in stagioni che in ere… questo viaggio è stato un avvincente libro di geografia. E tutti, alla fine, sentivamo di appartenere a questo pianeta in modo diverso, con gioia e riguardo, perché abbiamo scoperto che è bellissimo. Di più, molto di più. E’ bellissimo ed è nostro. Qui, adesso.

renzo.pin@mclink.it


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