Messico 2006


“MAYA viaggio più ATZECATO”

(diario di viaggio 23 agosto – 6 settembre di Marcello)

2 pernottamenti a Oaxaca: visita alla città e al Museo nazionale, al sito di Monte Alban, a Mitla, al villaggio di Tlocolula e ad El Tula;
2 pernott. a Puerto Angel: escursioni balneari a Mazunte e a San Agustinillo;
2 pernott. a San Cristobal de las Casas: escursione al Canon Sumidero di Tuxtla G., visita al villaggio tzotzil di Chamula e al villaggio tzeltal di Abasolo, al Museo Na Bolom e al mercado municipale di S. Cristobal ed al sito archeologico di Toninà;
3 pernott. a Palenque: escursione alle cascate di Agua Azul e di Miso-ha, visita a le “ruinas” di Palenque e al Museo del Sitio e gita ai siti di Yaxchilan e Bonampak;
3 pernott. a Ciudad de Mexico: visita al Templo Mayor, ai monumenti della città, spettacolo di piazza dei Mariachis e manifestazioni ludico-politiche a lo Zocalo, gita al sito archeologico di Teotihuacan

Il giorno 23 agosto 2006 io e la mia compagna Paola cominciavamo con piccoli problemi di conferma prenotazione biglietti elettronici all’aeroporto di Fiumicino in Roma, il nostro viaggio in terra messicana.
Il volo aereo durava circa undici ore e mezzo da Madrid a Ciudad de Mexico, a cui vanno aggiunte altre due ore e mezzo, da Roma a Madrid (scalo tecnico), per un totale di volo complessivo di circa 14 ore.

Arrivavamo a C.d.Mexico alle sette di mattina, del 24 Agosto e con un taxi della Sitio 300 (con tariffe fisse a secondo delle destinazioni), ci catapultavamo a Campos Eliseos nel quartiere Polanco, per ritirare l’auto (una Ford Fiesta di segmento economico), preventivamente prenotata  e pagata dall’Italia, con la formula Todo Incluido. Congedavamo il tassista (172 $, pesos messicani) e ci muovevamo per divincolarci dalle viscere enormi del traffico della capitale.
Il programma di massima prevedeva: due gg. a Oaxaca, due gg. di mare a Puerto Angel sul Pacifico, due gg. a San Cristobal de Las Casas cuore del Chiapas, tre gg. a Palenque compresa gita a Yaxchilàn e gli ultimi tre gg. a Città del Messico, dopo aver consegnato l’auto, che come già potevamo appurare nella capitale è più d’ingombro che altro.
Avevo già studiato il percorso generale e il programma di viaggio da circa due mesi e tramite l’ausilio di una carta telefonica internazionale, dopo aver individuato grazie alla GeoGuida del TCI, che in ciò è molto attendibile, i possibili alloggi per le varie tappe, avevo già prenotato nei presunti giorni di permanenza, eccetto Città del Messico, dove vista la grandezza della città, presumevo di trovare facilmente disponibilità! Naturalmente questo è un metodo non vincolante, se ci riserva la facoltà di verificare almeno dall’esterno, l’attendibilità del consiglio della guida; comunque debbo ammettere che i consigli su hotel, posade e ristoranti, sono risultati quasi sempre validi.
Torniamo a noi, dopo una estenuante ricerca dell’autopista del Sud-Est, tra i vincoli di traffico e la lunghezza della circonvallazione della città, riuscivamo ad imboccare l’autostrada in direzione Oaxaca alle dieci del mattino. La strada, confermava le “impressioni di cartina”, con lunghi tratti dritti un po’ a saliscendi, stile strade extraurbane americane, per intenderci. Primo assaggio dei pedaggi autostradali molto salati, in riferimento alla qualità della strada (dei lunghi tratti autostradali sono addirittura ad unica carreggiata!), comunque riuscivo a tenere una buona media e in cinque ore, compreso dovute soste rifocillatici e di rifornimento, dopo quasi 500 km, eravamo ad Oaxaca (pronuncia Ua-ha-ca).
L’impatto con la cittadina zapoteco-mixteca, di stampo coloniale nelle sue costruzioni, non era però dei migliori, perché trovavamo molti tratti stradali del centro, interrotti da ostacoli interposti per evidenti azioni di manifestazione e protesta, auto distrutte da incendi, copertoni arsi per gli incroci e giovani per le strade, impegnati a far deviare il tuo percorso, insomma per ragioni a noi ancora sconosciute, l’impatto iniziale con Oaxaca, non era dei più incoraggianti…
Ciò non toglie, che dopo qualche gimkana di troppo, riuscivamo ad addentrarci per l’Hotel Cuilapan, pensione eletta dalla guida, e difatti l’aspetto esterno ed il patio con il posto auto, che si intravedeva dalla strada, erano abbastanza invitanti, quindi scendevamo dall’auto, ci presentavamo, contrattavamo un po’ il prezzo (300 $ a notte, circa € 22) e ci sistemavamo subito.
Tra sistemazione e doccia rigeneratrice, si erano fatte le cinque, e così ero costretto ad involarmi al Museo de las Culturas de Oaxaca, ambientato presso l’ex Convento di San Domingo; consapevole di aver tempo fino alle 20 per la visita, che doveva fungere da introduzione alla cultura e all’archeologia Zapoteca e Mixteca, di cui l’indomani tra il sito di Monte Alban e quello di Mitla, avremmo avuto il piatto forte, me la prendevo abbastanza comoda e rimanendo quindi “impietrito”, quando alle 18.20, il custode mi faceva scoprire di avere solo altri dieci minuti (l’orario indicato dalla guida, era quello in vigore l’anno prima), e fortuna aveva voluto, che il pezzo forte (il corredo funerario mixteco della tomba 7 di Monte Alban), non me lo fossi riservato per ultimo, come faccio solitamente…
Il dopo museo ci vedeva in giro tra centro storico e Zocalo (“piazzone” centrale di matrice spagnola), e così tra il comizio e i cartelloni dei manifestanti, cominciavamo a comprendere i motivi della sollevazione di piazza, che tanto aveva ostacolato il nostro cammino automobilistico nella ricerca dell’albergo: la contestazione era diretta verso Ulises Ruiz, fresco e risicato vincitore delle elezioni come governatore dello stato di Oaxaca ad Aprile; ma successivamente contrastato ed avversato dalla classe intellettuale e da tutte le componenti universitarie, sotto l’accusa di una politica lontana alle esigenze della città e reo di un progetto di legge, tendente a far decadere il sovvenzionamento di alcuni contributi a favore dello studio e dell’Università.
Ritiratici in stanza, l’agognato riposo (che tirata tra aereo, auto e giro cittadino…), era un po’ disturbato dai clamori di piazza della notte, in cui si consumavano gli ennesimi incendi d’auto governative, e fuochi, presidi e blocchi agli incroci stradali, che avrebbero accompagnato e caratterizzato sempre questa due giorni in  terra oaxaquena!

Il 25 Agosto, prendevamo confidenza, dopo i fugaci assaggi del giorno precedente, con la cucina messicana, già in mattinata, dove in un ristorantino vicino l’Hotel, ordinavamo una colazione in piena tradizione messicana, così alla cieca. Alla base di tortille di mais, si aggiungevano salse speziate e soprattutto il micidiale killer dei palati, il chile, un peperone piccante, che si serve nelle tavole locali già di prima mattina, spesso nascosto tra le insidie di una salsa apparentemente innocua… Comunque, dopo questi fuegos diurni e dopo aver ingurgitato il primo caffè all’americana di una lunga lista, io e Paola, ci appropinquavamo, con l’inseparabile Fiesta, per la strada che conduceva al sito zapoteco di Monte Alban, per una prima occhiata ai resti di alcune delle culture preispaniche, che dominarono in lungo e in largo il Messico, prima dell’avvento di Cortes e delle inquisizioni d’oltreoceano!
La prima curiosità appagata era quella di poter vedere, da calcio-amatore quale sono, un campo di juego de la pelota, territorio di contesa mesoamericana dell’esercizio sacrificale, comminato ai giocatori risultati perdenti nella disputa! Erano delle aree a forma di doppie “T”, delimitate da muri, talvolta inclinati, sulla cui sommità venivano apposti degli anelli in pietra o, si presume nel caso di quelli non ritrovati, in legno. I giocatori venivano reclutati spontaneamente, o tra i guerrieri del luogo, o tra i prigionieri di guerra, o nel caso di contese per questioni civili (come ad esempio i diritti sulle terre). Lo scopo del gioco non era ludico, si trattava di un rito che trasponeva il credo dei popoli mesoamericani sulla nascita e sulla vita del Sole: un dio che si sacrificava ogni giorno al suo tramonto, per combattere sotto terra i Signori dell’Inframondo e gli dei della Luna e delle Stelle, e per poi risorgere per la vita sulla terra; ma per ciò, aveva sempre bisogno di quella forza sprigionata dal sacrificio e dal sangue umano. Così, in date ed occasioni prefissate, i giocatori, nelle due ali del campo di gioco, con una pallina di caucciù, a forza di colpi con gomiti, fianchi o ginocchia, si contendevano il loro sacrificio, con la pallina, che doveva essere indirizzata nell’anello in alto e mai mandata in terra, in quanto rappresentazione del Sole, che non tramonta.
Per il resto, Monte Alban è sicuramente il sito archeologico della città mesoamericana, più longeva prima dell’avvento degli spagnoli. Circa 2000 anni di storia zapoteca e mixteca si sono sviluppati in queste terre e poter individuare tratti di mura del 500 a.C., era davvero esaltante, vi era persino un osservatorio astronomico a forma di punta di freccia, unico nel suo genere, che tra quei megalitici e costanti resti di piramidi scalonate (anche se sarebbe più esatto parlare di tronchi di piramide!), tipiche dell’archeologia messicana, rafforzava il senso dell’unicità verso ciò che stavo osservando…
In seguito chiarivamo il senso degli osservatori astronomici, in quell’intarsio mistico tra religione, studio del tempo e delle stelle e ideazione dei calendari, probabilmente deizzati a loro volta, che facevano dell’utilizzo degli strumenti astronomici un elemento indispensabile!
Su svariati solleciti della mia companera, acceleravo riflessioni e doverosa occhiata verso i Danzantes, stele di stampo olmeco (popolo antecedente allo zapoteco), site nel museo del sitio e mi congedavo da Monte Alban.
Alle due del pomeriggio eravamo a Mitla, a circa 45 km da Oaxaca, una cittadina che si presentava subito nella sua natura indios, con tiendas d’artigianato tessile e comidas obbligatorie al mercato, sotto un sole cocente e quindi rigorosamente a base di frutta tropicale. Finito il pranzo leggero e le trattative di mercato, ci inoltravamo per la visita del secondo sito in programma, antica roccaforte della cultura mixteca. A Mitla si evidenziò molto il passaggio (o la fusione) tra il popolo zapoteco e quello mixteco, e non a caso i punti di forza della visita sono tutti di mano mixteca: maestri dell’arte scultorea del minuto e dell’intaglio, le mura di delimitazione dei templi costruiti sulle piattaforme, sono un gioiello dell’arte di lavorazione della pietra, tanti piccoli mosaici a disegni geometrici e tutti diversi, parete per parete! L’arte manovale dei mixtechi ebbe un’eco così grande, che anche nel periodo in cui la zona dell’attuale stato d’Oaxaca, divenne di pertinenza degli Atzechi, gli artisti mixtechi furono utilizzati per la lavorazione dell’oro e delle pietre preziose, di cui la classe abbiente atzeca si fregiava molto.
Dopo un assaggio del mezcal, liquore estratto dalla pianta dell’agave e famoso per il suo corredo di verme sul fondo della bottiglia, prodotto in buone quantità nei dintorni, rientravamo in direzione Oaxaca, per altre due tappe sulla strada: il villaggio di Tlacolula, famoso per il suo multicolore mercato, anche se l’orario risultava di smobilitazione, e dove non riuscivamo a trovare, mio malgrado, le chapulines, cavallette fritte e tostate (ogni esperienza locale va sostenuta ed alimentata…), ed El Tule, piccolo villaggio che ospitava un ahuahuete, albero millenario di 40 mt d’altezza e soprattutto d’oltre dieci metri di diametro!
In serata ci attendeva il mercato di Oaxaca, tra le tortillas ripiene di vario genere, le banane fritte (eccezionali), e tra le bimbe indios meno timide che ci siamo trovati di fronte in tutto il viaggio (le tortille le abbiamo mangiate con loro), con il solito concitato comizio di piazza per la eventuale destituzione di Ulises, governatore d’oltreconfine (accusavano la sua residenza in altro stato).
Di notte stavolta, decidevo di scendere in strada, dall’albergo, per fotografare i rivoltosi, ma all’appiccare dei fuochi, essi si indisponevano per la mia presenza, e allora mi trovavo costretto a risalire al primo piano dell’hotel, per poterli fotografare dal patio, clandestinamente…

Nella mattina del giorno successivo, 26 Agosto, si ripartiva di gran carriera, stavolta con direzione balneare, Puerto Angel, per un weekend davvero “Pacifico”. E pacifici sarebbero davvero stati i due giorni tra i porticcioli di zona, ma non i quasi 250 km per arrivarvici: la strada carrozzabile peggiore tra quelle che abbiamo affrontato e nonostante i miei tentativi di sollecitarne l’andatura, lo dimostra il tempo di percorrenza di cinque ore scarse! Le topas: fenomeno stradale tipicamente messicano, ossia dossi o scaloni posti in prossimità dei villaggi, per limitare l’andatura. Ma se a questo aggiungi la tortuosissima strada della sierra tra Oaxaca e Puerto Angel, il mix diventa micidiale.
Fatto sta, che alle tre del pomeriggio riuscivamo a scorgere le onde dell’oceano e confermando la fama infallibile di critica d’alloggi, vestita dalla nostra guida: Hotel Buena Vista, immerso nel verde delle foreste tropicali, con strutture in legno, letto a baldacchino chiuso da retina antizanzare e terrazzino con immancabile amaca double. E il tutto a 300 $: non ci pensavamo due volte!
Dopo una doverosa pennichella pomeridiana, scendevamo al porticciolo del paese, dove una vasta flotta di pescatori a lenza (e senza canna), si muovevano con maestria al calar del sole, sul moletto, inflazionato da innumerevoli esemplari e antagonisti di spatole e pellicani, e che con sapienti strattoni verso l’alto, catturavano parecchio pescados, in ciò i bambini, già figli d’arte, apparivano spesso protagonisti!
Dopo tale spettacolo, la cenetta a base di pesce risultava consequenziale, e allora, altro consiglio “guidato”, Rincon del Mar, risultava avere i giusti connotati per una fresca e romantica serata in un villaggio come questo. Su uno sperone, alto sulla costa, con vista su tutto il porto e il continuo fragore delle onde che si spegnevano in riva al mare sottostante, un bel piatto di gamberoni ed un atun (tonno fresco) alla veracruzana, facevano da giusta cornice gastronomica alla quiete di quella sera.
Una pomeriggio-serata di tutto riposo in attesa del mare di domani.

E venne il Pacific-day, 27 Agosto. La notte una delle solite burrasche a ciel sereno (o…quasi), aveva messo in discussione la gita balneare di oggi, ma la mattina invece, si diradavano gran parte dei nebuloni della notte, e il sole appariva nuovamente, ridonandoci la voglia di oceano, necessaria per affrontare con il giusto piglio le sostenute onde di queste zone. Una capatina dal gasolinero (un lt di benzina a 87 ottani costa la bellezza di 6,665 $ in media, ossia meno di € 0,50!) e via per Mazunte (10 km da Puerto Angel), un golfo ampio, ma non troppo aperto, che permetteva di affrontare i capricci dell’oceano con una buona dose di tranquillità. Arrivati sulla playa, notavamo tra i soliti alti cactus a candela che emergevano sulle rupi adiacenti alla spiaggia, e molti avvoltoi scorazzanti a cielo aperto, ma ciò non faceva che esaltare maggiormente la messicanità del luogo. In acqua, io e Paola, eravamo in lotta continua con gli umori del vento e si intuiva chiaramente l’eventuale pericolosità dell’oceano a mare aperto. Ad un certo punto un’onda un po’ più pronunciata delle altre ci scaraventava sott’acqua per qualche secondo, mostrandoci quale buon vento ci portava….
La mattina proseguiva bene tra sole, bagni e l’osservazione di grandi granchi neri sugli scogli. Poi altra puntata marittima nella vicina San Agustinillo, pranzo doverosamente pescado e lunga sosta sulle amache del lido. Nel pomeriggio nuova visita a Mazunte per l’allevamento di tortugas, tra cui emergevano le caraibiche, recenti vittime di mattanza nei loro giorni di “arenamento” naturale nelle coste vicine, e adesso protette con leggi nazionali dalla carneficina degli anni scorsi.
Al ritorno in albergo, dal basso della nostra amaca sul terrazzo, si ascoltavano dei rumori provenienti dal tetto in tegole del terrazzino, la nostra curiosità veniva subito soddisfatta: un’iguana nera, con la cresta dorsale bianca, si affacciava sorniona dal tetto e lentamente percorreva in bilico la trave in legno del soffitto esterno, per poi rifugiarsi in una intercapedine del muro…, la sorpresa era talmente tanta che pur avendo la fotocamera a nostra portata, non riuscivamo a distogliere la sguardo dal rettilone.
Serata di tutto riposo e di tutto acquazzone, l’indomani ci avrebbe atteso il lungo tratto che dall’oceano ci avrebbe condotto sui sentieri di Marcos, ai 2.200 mt. di San Cristobal de Las Casas in Chiapas.

Alle sette e mezzo del mattino del 28 Agosto, dopo un breve ma “lungo”caffè in hotel, proseguivamo sulla statale 200 in direzione Tehuantepèc, passando per le bahias di Huatulco, ma non fermandoci, vista la totale disconoscenza ed assenza di informazioni certe riguardo i tempi di durata del tragitto stradale che ci avrebbe portato nel pomeriggio in Chiapas.
La pioggia disturbava parecchio l’andatura del “coque”, e verso le nove, un improvviso bisogno di rifocillamento, ci induceva comunque a fermarci presso uno di quei baretti sulla strada: eletto il più rassicurante d’aspetto, stavo per frenare, quando un’infima pietra emergente dal manto stradale adiacente il locale, provocava una bella bozza sulla parte sottostante della carrozzeria (vicino alla scatola del cambio). Subentrava in noi parecchia preoccupazione, quando ci accorgevamo di un rivolo d’acqua proveniente all’incirca dal punto dove avevamo subito il colpo, e allora decidevamo di raggiungere il più vicino meccanico per ascoltare il suo parere. Venti km di divergenza, fino ad un certo Raimondo Lopez, steso sull’amaca dell’officina, e sornione finanche nell’esprimere il suo parere: un sonnecchiante controllo sotto l’auto, un’occhiata al livello dei vari oli e un rassicurante “Es solo agua caliente”, 20 $ benedetti, per la diagnosi rassicurante, d’acqua convogliata da quella pioggia che ininterrottamente stava disturbando il nostro tragitto…
Nel primo pomeriggio arrivavamo a Tuxtla Gutierrez, capitale del Chiapas, e decidevamo di entrare in città per un’immancabile strada panoramica al Canòn del Sumidero.
Con l’acquazzone sotto cui ci siamo trovati, il transito automobilistico veniva parecchio ostacolato dalla scarsa visibilità di quei pochi cartelli indicatori del canyon esistenti in città, purnondimeno alle cinque riuscivamo a percorrere la strada dei miradores del parco e ci fermavamo ad ammirare il panorama dei 1200 mt di strapiombo sul Rio de Grijalva, in ben cinque belvedere su sette, grondanti d’acqua piovana, ma soddisfatti per uno spettacolo naturalistico d’alta intensità.
Rimessici in moto, l’ultimo tratto di strada era l’autopista per San Cristobal de Las Casas (33 $), e alle sette raggiungevamo così il cuore del Chiapas, dopo undici ore e mezzo, che senza soste sarebbero diventate nove, e comunque una lunga camminata…
Ci fermavamo al Barrio de Guadalupe presso la Posada Jovel a 200 $ e stavolta ci accontentavamo di una sistemazione più arrangiata, perché le stanze migliori sul lato opposto della strada, erano più care.
Dietro l’angolo ci stava anche un ristorantino di piatti tipici di carne alla plancha, e ricordo ancora quei misti di carne “Al pastor”, con formaggio fuso, alla piastra, che allietarono parecchio quella prima serata a San Cristobal.
Un breve giro notturno per locali terzomondismi, in tempo per annotare quella prima sensazione di attuale latitanza di movimenti neozapatisti, e consapevoli comunque di stare per cedere alle lusinghe del sonno.

La mattina del 29 Agosto, indossando le zapatas, riflettevamo sulle aspettative di una giornata sulle tracce di Marcos, poi uscivamo e ci incamminavamo verso lo zocalo e il mercato municipale. Il mercato era una succursale dell’arcobaleno, accostato alla chiesa di San Domingo, la cui facciata purtroppo era in restauro, l’occhio veniva frastornato e ammaliato dai varieganti colori che spiccavano sui tavoli e sui pavimenti di quelle tende, una miriade di oggetti e d’abiti, che catturavano la tua attenzione, disorientando gradevolmente il tuo sguardo, come se fluttuasse leggiadro ed impotente in mezzo a quella miriadi di tonalità diverse. Il tutto corredato da un’infinità di occhi un po’ a mandorla, che ti scrutavano nei movimenti, per poi richiamare la tua attenzione con qualche parola in tzotzil e qualche altra in spagnolo e per alla fine offrirti per un pugno di pesos trattabili, qualche oggettino o vestito indio, sicuramente realizzato a mano. Era impossibile non cedere all’illusione di poter far tuo e di portare via con te qualche colore adocchiato!
Dopo qualche tacos al mais e l’immancabile bottiglietta di agua minerale (da noi preferita a quella purificada…), la mia attenzione si volgeva ai merletti della facciata della Iglesia di Santo Domingo, che si potevano solo intravedere ai margini della copertura per i restauri che vi si stavano effettuando; naturalmente la mia richiesta di poter scattare qualche foto, avendo trovato la porta del cantiere socchiusa, è stata immediatamente accontentata…
Dopo un breve pasto, ci attendeva il Museo Na Bolòm, una sorta di archivio storico della cultura delle comunità Maya-Lacandone, che prima degli anni ’80, in seguito alle politiche agrarie, finalizzate al disincentivamento delle attività agricole, crearono qui nel Chiapas, stato in cui gli indios hanno sempre avuto una grande componente, un forte scompenso sociale ed un conseguente fenomeno di emigrazione e di spopolamento delle foreste lacandone (ai confini del Guatemala). Poi tra movimenti neozapatisti e politiche di istituzioni di Parchi nazionali e Riserve protette, il fenomeno si capovolse, portando nuova linfa (ma anche presenze indios diverse dalle originarie) nel Sud del Chiapas.
I due fondatori del museo-casa di ospitalità Lacandona furono il danese Bloom e la moglie svizzera Duby, essi vissero a contatto con “il popolo verde”, tra miti e tradizioni che quel terremoto sociale stava rischiando di smarrire per sempre e fecero della causa della difesa della cultura maya lacandona (con la sua singolarità, come quella di una religione che professava il credo di un Dio, K’akoch, che aveva generato tutti gli altri Dei), la missione della loro vita.
Immersi nel cuore e col cuore nell’eterogeneità, ci incamminavamo nel primo pomeriggio verso la cittadina (di lingua tzotzil) di San Juan Chamula, per il suo mercato tipico, ma anche per la famigerata chiesa di San Juan, ove il rito cattolico introdotto dagli spagnoli nelle loro opere di “liberazione”, si intrecciava con una sopita tradizione maya ed indios.
Sulla piazza, oltre l’immenso mercato, emergevano difatti delle grandi croci a triadi (gruppi di tre), un po’ a cielo aperto, un po’ nascoste dal verde degli alberi. La riservatezza quasi ostile della gente del luogo, tanto declamata dalla nostra guida, non veniva minimamente colta da noi, anzi Paola dopo aver mostrato e donato dei fazzoletti rinfrescanti a un gruppo di bimbi indios, ricevette la stessa richiesta anche da due anziane indigene assai incuriosite dal nostro atteggiamento!
Al primo rasserenamento del solito temporale pomeridiano, decidevamo di entrare in chiesa, e la prima immagine che si parò davanti i nostri occhi, fu quella di una distesa immane di luci di candele, incollate con la stessa cera al pavimento della chiesa (ricoperto di aghi di pino), per tutta la sua lunghezza. Era la fiesta de Santa Rosa, uno dei tanti santi venerati dalla chiesa, e i fedeli, da soli o più spesso in famiglia, portavano dei doni alimentari a devozione della santa o probabilmente per alimentarla: uova, tequila, coca cola, polli morti ecc., era tutto un susseguirsi di preghiere effettuate con i toni delle nenie, di accensioni di candele poste in file ordinate (il numero di candele per fila, certamente doveva avere qualche recondito significato), e di sorsi di coca e più spesso di tequila…! E tra lo stato d’ebbrezza generale, il Maestro deputato al santo festeggiato, s’introduceva in chiesa seguito da una banda, per venerare il santo nel suo singolo armadietto di pertinenza. Difatti parlando con un addetto all’organizzazione, chiarivo alcuni punti: le fiestas durano tre/quattro giorni e ad ogni santo, la cui statua era presente in chiesa, viene dedicata durante l’anno una festa, è inoltre severamente vietato, da una disposizione comunale l’effettuazione di foto e riprese (sigh!) e quella era l’unica e sola chiesa del villaggio (60.000 abitanti). Quindi contando non meno di 40 armadietti, potevamo dedurre che a Chamula ogni anno c’erano minimo 120 giorni di festa!!! Il resto era altrettanto altamente suggestivo, come i vestiti dei suonatori e dei cantatori, in lana di pecora bianchissima, come il sottofondo corale all’interno della chiesa e come la nostra doverosa e finale visita ad un cimitero che doveva forza maggiore sprizzare un senso di “vitale” diversità.
Sotto i fulmini del ritorno a San Cristobal, suggellavamo la nostra suggestione, con una approfondita visita serale per la città del fascino delle differenze e con la solita cenetta alla “plancha” già adottata il giorno precedente.
Chiudevo gli occhi pensando che, nonostante l’impalpabile presenza (o assenza) di Marcos, qui si respira comunque ancora un senso di estraneità e di divagazione dal congiunto mondo conosciuto finora, quandanche il mondo del sonno prese finalmente il sopravvento.

La levata del 30 Agosto, con strada in direzione Palenque, ci conduceva alle 9 del mattino in un villaggio in provincia di Ocosingo. Si chiamava Abasolo, era una comunità di lingua tzeltal e avendo già visto numerosi bambini con lo zainetto a tracollo, percorrere la strada montana in direzione del paese, una volta giunti ad esso, decidevamo di andare a curiosare presso una scuola del luogo. Convincevamo ben presto il direttore della scuola elementare (lì effettuano i primi sei anni d’istruzione tra i due/tre anni d’età fino agli otto/nove), vincendo le sue resistenze ministeriali, per poter visitare una classe all’inizio delle lezioni. Il maestro però bloccò la lezione per spiegarci il programma di bilinguismo, con la contemporaneità di insegnamento di lingue spagnole e tzeltal, la composizione della classe (oltre 40 alunni) e l’apposizione del nominativo dei bambini sul proprio banco in ambedue le lingue!
Tra gli schiamazzi ed i festeggiamenti curiosi dell’evento di una visita straniera, da parte dei tanti bambini ancora non entrati in classe, congedavamo e salutavamo il direttore, per ripartire alla volta del sito archeologico di Toninà.
Era il primo sito di archeologia e storia Maya, che potevamo visitare: il Chiapas difatti si distinse tra l’altro come area in cui si insediò la cultura maya, nel periodo storico considerato più fiorente, l’era classica dei Maya, all’incirca tra il 250 e il 900 d.C., e Toninà rappresentò una città che segnò gli ultimi anni di questa era (mentre dal 900 al 1500 si parla di era maya postclassica). Il museo era un ottimo preludio alla visita degli scavi, e si apprezzava molto una serie di reperti scultorei in pietra, che introducevano l’abile uso della numerazione tra i maya, l’utilizzo di simboli detti glifi, come scrittura e come individuazione di eventi o di attestazioni dinastiche e l’immagine di statue raffiguranti sovrani deificati, alcuni Dei dei cieli e altri Dei del mondo sotterraneo (l’Inframondo).
La settima e l’ottava piattaforma della piramide principale del sito, difatti, simboleggiavano rispettivamente i nove signori dell’Inframondo e i tredici Cieli, mentre gli stucchi in rilievo sulla parete della sesta piattaforma, riproducevano il mito dei quattro Soli (o dei Rombi), come stagioni o come ere cosmogoniche, che si sacrificavano con la decapitazione per poi risorgere in una nuova era (rappresentati, difatti, a testa in giù…). I Maya, tra l’altro, furono l’unico popolo mesoamericano che utilizzò anche una forma di calendario caratteristica, denominata a Conto Lungo, che partiva da un giorno prefissato, si calcola 13 Agosto 3113 a.C., per concludere il ciclo terrestre dopo circa 5125 anni (dopo le cinque ere cosmogoniche) il 21 Dicembre 2012; e Toninà, rappresenta l’ultima testimonianza accertata del calendario a Conto Lungo tra le popolazioni  delle città maya (questo tipo di calendario sparì dopo il 909 d.C.).
Finita la visita ritornavamo sulla San Cristobal-Palenque, strada tanto demonizzata dalle varie guide, ma devo sottolineare invece che, a parte le solite fastidiose topas, essa è solo una impegnativa strada di montagna, ma di certo non paragonabile alla tortuosissima strada per Puerto Angel percorsa qualche giorno prima.
Verso l’una e mezzo, eravamo alle cascate di Agua Azul, posteggiavamo l’auto con lo sportello posteriore destro a “filo d’albero”, visto che la sicura era un po’ difettata e che i bagagli erano a vista, e ci fermavamo ad un ristorante del luogo per due carpe fluviali. V’erano una serie di cascate, cascatelle e cateratte che si succedevano nell’arco di mezzo chilometro.
Successivamente ci fermavamo anche a Miso-ha, a circa 10 km da Palenque, per ammirare le altre cascate, stavolta ben più alte, con l’agua meno “azul”, rispetto a quella già poco “azul” delle cascate precedenti, ma con panoramica sicuramente altrettanto piacevole…
Alle sei arrivavamo finalmente a Palenque, nel nordest del Chiapas, ma ci accorgevamo che l’albergo eletto tra la strada delle rovine, era “simpaticamente” immerso nel verde della foresta tropicale, scenario molto bello, se non fosse stato per l’umidità soffocante che si avvertiva nell’aria…; così decidevamo di optare per altro, e dopo una veloce ricerca, riuscivamo a trovare, sempre in quella strada, la posada Margarita, composta da una serie di villette multicolori, immerse nel verde ma con un ampio spazio aperto tra di loro. Dopo breve contrattazione ci accordavamo per 350 $ a notte e già l’immediato bagno in piscina ci convinceva di aver fatto una buona scelta.
La sera a Palenque assaggiavamo il tamale, sempre appartenente al regno del mais, ma stavolta con pasta ripiena di verdure cotte ed avvolta con foglie di banano.

Il 31 Agosto, era il giorno prescelto per la visita al complesso archeologico maya di Palenque. La mattina si apriva con una strana colazione continentale, presso il ristorante adiacente all’albergo, unico caso di desayuno o comida irrispettoso della tradizione gastronomica del paese che ci ospitava…
Terminata in fretta quella parentesi europea, ci affrettavamo per le ruinas de Palenque, per evitare lo spettro di orari impossibili, vista la percentuale di umidità che era già avvertibile nell’aria.
Già alla prima occhiata alla antica città-stato di Palenque, si avvertiva immediatamente la diversità di questo sito rispetto gli altri finora visitati: imperavano marcatamente i templi alla sommità delle piramidi, di cui non emergevano tanto l’altezza ma quanto la proporzione, i templi stessi presentavano, nello stile tipico delle città maya dell’America Centrale, una cresta di pietre sul tetto, ma queste merlettature, invece di essere apposte posteriormente, spiccavano proprio sulla parte centrale del tetto dei templi, donando a tutta la piramide, una grazia e un’eleganza tipica.
Qui, inoltre vi furono le prime realizzazioni ed utilizzi di spazi anche all’interno delle costruzioni piramidali, come la tomba di Kin Pakal, ricavata entro una parete di una piattaforma della Piramide delle Iscrizioni.
Sul Palacio, anch’esso sopra una piramide, spiccava tra l’altro una costruzione turrita, individuata come probabile osservatorio astronomico, ed il palazzo stesso, sede di governanti e consiglieri sacerdotali, era un susseguirsi di templi e di patii, con le pareti dei muri costellate di bassorilievi e di sculture rappresentanti la storia dinastica della stirpe di Pakal, riti ed offerte sacrificali (dopo le contese di guerra o i juegos de la pelota) ed un ampia numerazione glifica, in cui spesso numeri (vigeva la numerazione vigesimale: il punto era 1, la barra era 5, la conchiglia il 20 e l’ovale lo 0) e glifi, narravano intere storie di incoronazione o di glorificazione dei sovrani.
I templi della deificazione dei sovrani alla loro morte (come quella di Kan B’alam, figlio di Pakal), appartenevano invece al cosiddetto gruppo della Croce, così denominato perché oltre agli stucchi e ai bassorilievi in pietra, raffiguranti incoronazioni ed ascese ai cieli dei sovrani di Palenque (il cui apice della storia fu all’incirca dal 650 all’800 d.C.), furono scolpite delle Ceibe, alberi cosmici, che apparentemente ricordavano delle croci, ma che in effetti demarcavano per i Maya, il punto di congiunzione tra la terra ed il cielo.
La città di Palenque, fu la più rappresentativa della cultura maya nel periodo classico, ma non ebbe il predominio politico e militare sulle altre, in quanto a quell’epoca emergeva un sistema di città-stato, che presentavano un apparato politico a carattere teocratico (potere dei sovrani-sacerdoti), essa quindi influenzò, ma non dominò le altre città stato di quell’epoca.
Dopo una sosta di “assaggio” degli aguacates, caduti dagli alberi di cui era piena quella “foresta maya”, e dopo una sosta più consistente per ritrovare le giuste energie alimentari ed idriche, ci introducemmo al Museo del Sitio, trovantesi proprio alla fine del percorso delle rovine. Lì si potevano osservare le varie statuette ritrovate negli spazi delle aree sacrificali o come corredi alle tombe, e spiccava, nelle figure riproducenti personaggi umani, la deformazione dei crani, che i maya praticavano regolarmente comprimendo con degli assi di legno il cranio dei nascituri (quando le strutture ossee sono più deboli), in quanto era loro convinzione che la fronte alta e schiacciata fosse simbolo di potere e di autorità sociale.
Emergevano tra l’altro tra i reperti del museo alcune lastre di sigillo tombale, e tra i bassorilievi si notava Itzamnà, che per il credo dei maya del periodo classico era il Dio assoluto, alla cui figura si assoggettavano tutti gli altri dei, come sue autorappresentazioni. Secondo il mito maya, inoltre, uno stesso sovrano sacerdote poteva elevarsi ad Itzamnà, dopo la morte, per meriti terreni e divini conseguiti durante il suo regno.
Alle 16 chiudeva l’interessante museo di Palenque, allora considerato il tasso di umidità associata a quella giornata particolarmente afosa, decidevamo di ritornare nella “laguna” della posada, dove facevamo presto a decidere di farci il solito bagno pomeridiano in piscina.
In serata, prima fissavamo con l’agenzia Kukulcan (“Serpente Piumato” dei Maya dello Yucatan) l’appuntamento per la gita con il minibus per l’indomani a Yaxchilan e Bonampak presso la frontiera col Guatemala per 500 $ a persona, e dopo, cartoline rituali al Tropitacos con chiacchierate messicane tra i tavoli, sempre con…contorno di tortillas!

Il pulmino per il fiume Usumacinta arrivò alle sei di mattina del 1 Settembre, eravamo una quindicina di partecipanti divisi in due minibus e la gita prevedeva anche una sosta mattutina per la colazione a buffet e alle 14 una fermata in ristorante per il pranzo.
L’organico era abbastanza variegato anche se la presenza maggiore era quella italica con sei componenti, poi vi erano quattro francesi, uno svizzero, un americano e due cileni. Alle nove, eravamo già all’imbarco delle lanchas (piccole imbarcazioni a motore), che ci avrebbero portato alla prima delle due tappe, il sito maya di Yaxchilan, immerso nel verde della selva lacandona e oltretutto famoso per la suggestione del sottofondo di versi delle scimmie urlatrici.
Dopo una simpatica traversata di circa 40 minuti sulle acque del fiume (di cui si notava la rigogliosità della vegetazione, la presenza metamorfica dei coccodrilli e l’elevarsi di alcune capanne indigene sulle sponde del fiume), approdavamo alla meta Yaxchilan, dove ci attendeva un sito maya del periodo classico, secondo per lustro solo ai miti di Palenque e della guatemalca Tikal. Yaxchilan, regno di una dinastia di “Uccello-Giaguaro”, seguì l’utilizzo delle creste a merletti di pietre leggere centrate sul tetto dei templi, perpetrato a Palenque e l’utilizzo delle volte tipiche dell’architettura maya . Esse erano in effetti false volte, determinate da muri che s’innalzavano paralleli all’interno degli edifici, per poi all’apice cominciare a convergere, fino a toccarsi alla sommità, permettendo di ricavare solo parzialmente degli ambienti interni ampi, nei templi e negli edifici maya, e ciò perché i Maya rimenevano legati alla concezione di forme piramidali (a cui la “volta maya” si rifaceva), come riproduzioni della traiettoria del sole nell’arco celeste!
Tra stele ed architravi con rilievi si ammirava la storia di quattro regnanti “Uccello-Giaguaro” e di numerosi riti di autosacrificio, inferti con corone di spine sulla propria lingua, dalle madri o dalle spose dei sovrani.
Ogni tanto poi, un unisono coro simile ai barriti, faceva da fondo sonoro alla visita, anche se monodirezionale: ci dicevano che erano i versi delle scimmie urlatrici, ma nel mondo del business del turismo, stentavamo parecchio a crederci…
Tra i coccodrilli un po’ più svegli della mattina, all’una ci riportavano con le lanchas al minibus, per il pranzo al ristorante; qui continuava la fase di socializzazione con i componenti del gruppo, e bisogna ammettere che emergeva soprattutto la forte personalità avventuriera e scanzonata della coppia cilena, vivente a New York.
Dopo pranzo, un simpaticissimo messicano doc dell’agenzia (quante risate sui nostri dubbi sulle scimmie “urlatrici”), si aggiungeva al bus per portarci al sito di Bonampak. Era una città maya, meno importante e di lustro delle precedenti, dal punto di vista politico ed architettonico, ma che emerse in quanto apoteosi dell’arte pittorica e d’affresco dei maya del periodo classico.
La sua posizione marginale e secondaria, la favorì in questa espressione artistica, perché non dovette sottostare a schemi rigidi e formali di rappresentazioni pittoriche, così qui emergevano immagini (alcune oggi visibilmente danneggiate, purtroppo), di battaglie sanguinose, decapitazioni e sacrifici, e finanche del sovrano del luogo (Kan Muwan II, 776 d.C.) intento a tenere in braccia il figlio!
Apprezzavamo molto l’informalità e probabilmente anche l’estemporaneità che sprizzava in quei colori che ancora si potevano ammirare tra le mura del tempio di Bonampak.
Senza cori di scimmie urlatrici, stavolta, ritornavamo in pullman, congedavamo il brioso e “rotondo” mexicano e ripartivamo per la volta di Palenque; alle sette,  di ritorno dopo una lunga chiacchierata con i connazionali, ci riportavano direttamente al nostro alloggio (un servizio tutto sommato molto comodo e a conti fatti con un ottimo rapporto qualità/prezzo: in caso di gita autonoma, a parte colazione e pranzo e benzina dell’auto, ci sarebbero stati anche tutti i tickets da pagare, compreso lanchas di Yaxchilàn e lacandoni di Bonampak) e così poco dopo ritornavamo al centro di Palenque per una cenetta veloce. Eletto un ristorante a caso, da chi ci sentivamo chiamare? Ma da Ricardo e Marielena, i cileni naturalmente…, così , sedutici al loro tavolo, da una cenetta veloce, la serata si trasformava in un allegro scambio di opinioni sullo stato del mondo intero…
Fascini nascosti del viaggiare!

Il programma del 2 Settembre, prevedeva la lunghissima traversata da Palenque a Città del Messico, per totali 950 km circa e avendo pagato e salutato l’albergatore già il giorno precedente, alle sette puntuali, dopo il solito pieno di benzina della lunga serie, lasciavamo Palenque per il lungo percorso.
I primi 150 km, tra Palenque e Villahermosa, capoluogo del Tabasco, erano di statale con qualche topas, ma con strada abbastanza rettilinea, vicino Villahermosa ci fermavamo solo per il caffè e qualche brioches, poi un’unica tirata autostradale, con posti di pedaggio ogni circa 100 km e con fermata per pranzo a base di tacos dorade (ottime) in una stazione di servizio dell’autopista; ne approfittavamo anche per prelevare 1500 $ (equivalenti a circa € 117, commissioni e tasse incluse) presso il Bancomat e poi ripartivamo per la capitale.
Dopo aver rallentato un po’ il ritmo tra le alture dell’altopiano di Puebla (ci doleva parecchio non poterla visitare, ma il tempo c’era tiranno), arrivavamo a destinazione verso le sei (il totale dei pedaggi di oggi era 803 $!) e sorprendentemente, seguendo le indicazioni dell’Avenida Zaragoza, riuscivamo a trovare la strada per il centro abbastanza agevolmente, e vicino allo Zocalo c’era anche l’Hotel Azores, ben commentato dalla nostra guida; il prezzo di 290 $ per la doppia, già anticipato correttamente dalla guida, era ottimo, e per quella notte avevamo a disposizione il parcheggio privato dell’albergo, incluso nel prezzo, per poter sistemare l’auto con tranquillità prima della consegna definitiva della stessa all’Avis, fissata per la mattina successiva.
Una volta sistematici in hotel, scendevamo per il giro classico intorno al centro di Ciudad de Mexico.
L’incipiente folla che immaginavamo di dover incontrare, era ancora più numerosa del previsto, nonostante già verso le sette e mezzo, i negozi cominciassero a chiudere, perché lo Zocalo in quei giorni ospitava la manifestazione di protesta contro l’andamento degli spogli elettorali di due mesi prima, da parte del PRD, ovvero Partito di Rivoluzione Democratica, la sinistra messicana (izcuerda), il cui rappresentante Lopez Obrador era stato battuto nelle presidenziali da Felipe Calderon del PAN, la destra nazionale (derecha). La vittoria risicatissima di circa quattromila voti, aveva scatenato le accuse di brogli elettorali e la piazza era divenuta luogo di assemblea continua e di manifestazioni, almeno fino alla prossima ufficializzazione del verdetto elettorale, da parte della Corte Costituzionale messicana.
Quindi la sera era spettacolo nello spettacolo, con compagnie di danzatori, cantanti ed attori che si esibivano sul palco “politicizzato” fino a tarda notte!
Naturalmente non mancavano tra gli stands, gli appunti e gli aneddoti umoristici e sarcastici rivolti verso il Vaticano o la Chiesa importata dagli spagnoli in America Latina…

Domenica 3 Settembre, scendevamo in strada alle sette per andare a consegnare l’auto a Campos Eliseos, in tempi rapidi per la totale mancanza di traffico in prima mattina, arrivavamo in “solo mezzora” a destinazione e verificavamo la inesattezza delle nostre riserve sulla formula All Inclused del nolo auto, riguardo danni o furti. Una volta consegnata, difatti, l’auto non veniva nemmeno controllata ed immediatamente ci venivano riconsegnati i modelli prefirmati della carta di credito, che avevamo lasciato a cauzione sul pieno di carburante e su eventuali giorni di noleggio addizionali.
Con il taxi ritornavamo in zona centro e dopo una colazione consistente, a base di pandolce, in un bar della piazza, ci indirizzavamo verso la Cattedrale e il suo splendido Sagrario churrigueresco. Essa era il simbolo del trionfo spagnolo di Hernan Cortes su Monctezuma II e sugli Atzechi, che dominarono in Mexico fino al 1521.
La Cattedrale fu costruita in prossimità delle rovine delle piramidi dell’antica Tenochtitlàn, la mitica città atzeca, che emergeva delle lagune in cui, con un sistema di griglie di terra galleggianti fissate da alberelli sul fondo della laguna (chinampas), si effettuava la coltivazione dei prodotti alimentari, e gli spagnoli una volta distrutta la città atzeca, con le pietre dei loro templi, costruirono i propri ancora più alti ed imponenti!
Essa difatti emerge imponente sull’ampia Plaza della Constitucion, e numerose cappelle barocche dorate spiccano tra i corridoi delle tre navate, con il superbo Altar de Los Reyes e il maestoso coro, con un organo imponente.
Cordone ombelicale della Cattedrale, diventava quindi la visita al Templo Mayor, le cui rovine furono portate alla luce casualmente negli anni ‘80, e che oggi mostra solo le ultime piattaforme delle antiche piramidi, le cui pietre furono utilizzate per la costruzione della vicina cattedrale.
Questo era una parte del complesso atzeco, una serie di edifici, piramidi e templi, costruiti, secondo la leggenda, nel punto esatto in cui un’aquila si poggiò su un cactus; era il mito di Huitzilopochtli (sono riuscito a scriverlo correttamente…), legato ai culti del Sole e della Guerra ed impersonificato da quell’aquila errante (per i popoli mesoamericani, l’Aquila era la rappresentazione del Sole di giorno ed il Giaguaro quella del Sole di notte).
Il mito atzeco vuole che il Templo Mayor si trovi perfettamente in direzione verticale al di sotto dei  tredici cieli ed al di sopra dei nove livelli dell’Inframondo; la rastrelliera dei teschi (lo tzompantli), inoltre, era il muro per l’apposizione dei teschi dei sacrificati, previa la loro decapitazione dopo il rito sacrificale, e suggellante la celebrazione di un anno particolare (ad esempio la coincidenza dell’anno Sacro di 260 giorni, con quello Solare di 360 giorni, evento che avveniva ogni 52 anni). Nei resti del tempio si possono comunque ammirare le rappresentazioni del Dio dell’acqua Tlaloc, sia come statua semi-antropomorfa, che come rana, e le rappresentazioni del Serpente Piumato, che si identificavano a sua volta con la storia di Huitzilopochtli.
Il grande medaglione di pietra in bassorilievo (8 tonnellate), riproducente il Dio della Luna Coyolxauhqui, e sito nel museo adiacente, oltre ad essere il primo dei ritrovamenti dell’antica Tenochtitlan, ricorda il mito tolteco della dilaniazione della Luna (che infatti è riprodotta con testa e braccia staccate dal corpo), da parte del Sole appena partorito dalla madre Terra. Questo comunque attesta ulteriormente che il carattere delle religioni mesoamericane (popoli nauatl, zapotechi o maya), era profondamente diverso da quello di altre fedi, spiccava difatti il culto indistinto per divinità diverse e disparate, i cui voleri conducevano sempre all’ordine cosmico e naturale delle cose, in altre parole per i popoli dell’antico Messico non esistevano Dei benefici o Dei malvagi e tutti loro indistintamente venivano venerati nei loro templi!
Alla sinistra dell’uscita del Templo Mayor, dipartiva la mitica calle Moneda, il cui mercato domenicale risulta ancora più affollato del solito, gente di tutti i tipi, per una scelta senza confini, con sosta obbligatoria per una pannocchia di mais arrosto, o per le ennesime tortille ripiene di carni e salse. Naturalmente acquistare tra le tiendas degli artigiani è doveroso…, non so stimare il numero di persone esatto presenti per le tre vie parallele che davano sullo zocalo, ma penso di non essere esagerato se dico che eravamo almeno in 50.000!
Nel pomeriggio ci attendeva una divagazione in direzione del Parco dell’Alameda, dove tra l’eclettismo del Palacio delle Belle Artes, il verde dei giardini e gli ipnotici colori e le forme accattivanti dei dipinti di Diego Rivera, di Orozco, di Siqueiros e di Rufino Tamayo, potevamo concludere il nostro tuffo a ritroso anche nel Messico degli anni “a cavallo” con le Rivoluzioni “de tierra” di Emiliano Zapata e di Pancho Villa (tra il secondo e il terzo decennio del ‘900). Poteri forti e reazioni forti, che hanno sempre caratterizzato la storia di questa terra, che ha comunque forzatamente integrato culture diverse, ha tenuto in piedi interessi ed esigenze divergenti, che non si è mai sollevata in maniera perentoria dalla stentatezza e dalla precarietà del modo di vita, ma che è riuscita a mantenere una forma di tolleranza e di convivenza con/delle diversità, oramai intrinseche oggi nel suo tessuto sociale.
I colori della forza, i colori della differenza, i colori della rivendicazione ed i colori della tolleranza: sembrano tutti in grande contrapposizione, ma sono invece presenti e vivi nei quadri appena ammirati, nei viali e nei palazzi fotografati e nella gente che adesso ci passa accanto.
E dopo questa sbornia di colori, la sera dopo una buona cena al Ristorante dell’Hotel (con l’aria freddamente condizionata, però…), una tequila era la giusta conclusione di questa giornata.

E venne il giorno, 4 Settembre, della città degli dei: la mitica Teotihuacàn. Essendoci sbarazzati dell’auto, dovevamo usare i mezzi pubblici, cosicché per raggiungere il Terminal del Norte, bisognava prendere tre coincidenze della metropolitana, partendo dalla fermata dello Zocalo (unico biglietto: 2 $), poi arrivati alla stazione bus, il pullman partiva ogni 15 minuti ed impiegava circa un’ora per arrivare a destinazione (costo biglietto $ 54, a.r.).
Alle dieci del mattino eravamo già a Teotihuacan, e la città degli dei, si presentava in tutta la sua immensità: l’asse stradale principale, la Calzada de los muertos, che la attraversava nel solito orientamento Sud-Nord, tipico delle antiche città di cultura mesoamericana, lo sviluppo del sito era di quasi tre km lineari, attorno ai cui margini si sviluppavano edifici e piramidi, costruiti soprattutto a livelli orizzontali.
L’architettura dei teotihuacani, si espresse con ampliamenti ed estensioni di edifici a pianta molto larga, per cui le loro piramidi si estesero molto in larghezza e lunghezza, ma anche in altezza. La Piramide del Sole, difatti risulta in altezza la terza del mondo (66 mt.), e si eleva attraverso cinque piattaforme ed un numero consistente di gradini, che portano alla sua sommità, dove vi era costruito un tempo il tempio sacerdotale. La cultura della città degli dei (100/800 d.C.), fu forse la prima, tra i popoli preispanici, che adottò la tecnica delle sovrapposizioni di una piramide all’altra. La costruzione degli edifici piramidali del sito, comunque, seguì un unico progetto, in cui si sovrapposero i muri ed i gradoni di pietra ai terrapieni elevati precedentemente.
All’entrata del sito, vi è il tempio di Quetzalcoatl, il famoso Serpente Piumato, Dio nauatl legato al tempo, al sole ed alla guerra, e innumerevoli suoi bassorilievi si alternano con quelli del Cipatli, il mitico coccodrillo della Creazione.
Continuando la Calzada, s’incontrava il Museo del Sitio, che riportava reperti delle cinque fasi della storia di Teotihuacan, città che fu popolata da oltre 150.000 abitanti nel periodo di maggiore fulgore. Interessanti sono anche i reperti di manufatto locale, trovati in Guatemala, in alcune zone maya del Chiapas e nelle aree zapoteche di Oaxaca, che dimostrano la grande influenza esercitata da questa cultura anche in zone molto lontane, e mostrando l’attendibilità delle tesi di espansioni commerciali e talvolta politiche, alla ricerca di nuove risorse di sostentamento e di approvvigionamento di minerali preziosi da utilizzare nel manufatto di gioielli e di penne pregiate (di quetzal), con cui fregiare i sovrani e i rappresentanti delle classi abbienti.
La Piramide della Luna, chiudeva infine sulla Plaza Mayor, la Calzada de los Muertos; essa emergeva sulla piazza, meno alta della Piramide del Sole, ma comunque più proporzionata, con le sue quattro piattaforme, risultando la degna conclusione della visita al sito che fu più venerato e più popolato dell’intero novero di città preispaniche.
Tra le bancarelle adiacenti agli scavi, acquistavamo quindi qualche riproduzione su metallo del calendario nauatl (Teotihuacano, Tolteco ed Atzeco), con la presenza dei venti giorni del mese mesoamericano, dei tredici mesi dell’anno Sacro o Rituale, dei diciotto di quello Solare o Civile, delle quattro stagioni, del ciclo dei cinquantadue anni, ecc.     
Alle cinque eravamo nuovamente nei pressi dell’albergo, continuando a curiosare imperterriti per le prossimità della Plaza, ove si esibivano numerosi gruppi di artisti da strada, come danzatori indiani o ginnasti giocolieri e tra la folla e i comizi del PRD, decidevamo di optare per la Plaza Garibaldi, per dare un’occhiata ai famosi mariachis.
Erano i primi sombreri che vedevamo dopo due settimane: e così come il loro abbigliamento, appariva desueta anche la loro vitalità musicale, tendente soprattutto a corteggiare con serenate a colpi di tromba e di violino, tutti quei turisti che si affacciavano per la loro Plaza!

Il giorno fissato per il ritorno in Italia, il 5 Settembre, approfittavamo degli ultimi scampoli rimasti in mattinata per un’ultima colazione messicana con crema di frijoles (fagioli) e chile a volontà, e tra i tavoli di questo bar vicino al nostro albergo, conoscevamo una giornalista di Cancun, venuta qui per la manifestazione d’attesa del responso definitivo elettorale. Ci parlava con trasporto e preoccupazione per uno stato di emergenza democratica, con continui brogli elettorali e con un’informazione eccessivamente filogovernativa (in ciò tutto il mondo è paese), ed ammetteva di attendere con fibrillazione, gli esiti della disputa postelettorale, ci congedavamo tra i suoi attestati di speranza, ma poche ore dopo la Corte Costituzionale sentenziava la vittoria definitiva di Felipe Calderon e del suo PAN destra!
Poi ci affrettavamo, prima dell’arrivo del taxi, alla spedizione dell’ultimo blocco di cartoline al Correjo Postal, dato che in Messico i francobolli si acquistano solo alle poste (dalle 9 alle 18), e poi il taxi e via per l’aeroporto con volo fissato alle 12.
Su un sedile dell’aereo, mentre dal finestrino vedevo allontanarsi sempre di più la terra messicana, pensavo ad una sintesi di messicanità: un popolo che nei trascorsi indigeni aveva imparato a convivere con il sacrificio della vita rivolto alle entità, e che successivamente dopo la conquista spagnola imparò a sacrificarsi per affermare la sua vera identità, ma ancora oggi questi sacrifici non hanno dato tutti i frutti attesi da tempo.
E continuando a fissare la lenta intrusione in mezzo a quelle nuvole erranti, mi venivano in mente così, le parole di Fernando Pessoa, il grande scrittore portoghese, viaggiatore per antonomasia: “Viaggiare così è il viaggio, l’assenza d’avere un fine e d’ansia di conseguirlo…”

Marcello M.

milazzomar@tiscali.it


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