Madagascar 2004


racconto di viaggio maggio 2004 di Marco S.

Data la partenza alle 7 da Fiumicino, non c’è altra soluzione per me che prendere l’intercity Caserta Roma Tiburtina dell’1.59, seduto su sediolini del corridoio, per timore di un’addormentatura fatale sui sedili comodi (!?) dello scompartimento.
Il controllore, che sta dalla parte dei deboli, insiste a farmi accomodare dentro perché, dice, non è giusto che gli altri si stendano, mentre io soffro lì. Non può sapere che la mia è una sofferenza volontaria e necessaria, oltre che di viaggi notturni stravaccato in comparti di vecchi espressi ne ho fatti a volontà, fregandomene dei cristi a farsi la nottata nel corridoio.
Due ore sembrano un’eternità, a ciondolare la capoccia dal sonno; di tanto in tanto un’emigrata d’altri tempi esce per il bagno: donna calabrese dalla stazza tarchiata e robusta, foulard campagnolo in testa, salami e vino nella tovaglia, cartoni pieni di generi di prima necessità e regali caserecci. Ma sono a Tiburtina, finalmente; poi a Fiumicino, poi al Charles de Gaulle, ed infine, dopo un viaggio moscio su per l’Africa nera, al triste aeroporto d’Ivato, pochi km. da Antananarivo. I pochi e piccoli aerei dell’Air Madagascar sembrano presi da un sonno da letargo, adagiati qua e là sulle piste, mentre il pachiderma volante dell’Air France pare capitato lì per sbaglio, dopo aver perso la via dei cieli.
Le solite formalità doganali, poi, a 2 km, il paesino che dà il nome all’aeroporto; lì dormo, infastidito da tutto per la stanchezza (che ora è; da quanto sono sveglio?). Il mattino dopo sloggio, per raggiungere la cittadina d’Antsirabe, la prima che s’incontra visitando gli altipiani centrali del paese. Il mancato assalto che temevo all’aeroporto di Tana c’è stato invece alla gare routiere di Antsirabe: appena scortomi, decine di conduttori di pousse pousse infilano la testolina fra i finestrini del taxi brusse, ancora in movimento, per accalappiarmi, rischiando di spezzarsi l’osso del collo. Data la temerarietà del gesto per farsi i pochi centesimi della corsa, capisco che me li terrò incollati per un po’; infatti, una decina di loro mi sta alle calcagna, corteggiandomi, per il primo km di scarpinetto. Mi rompo, e chiamo uno che invece viene in senso contrario, facendomi portare in prossimità dell’albergo (non all’albergo, per evitare rotture a posteriori).
Antsirabe offre al viandante straniero il paradosso di una cittadina tranquilla e rilassante, e contemporaneamente il turbamento provocato da schiere di mendicanti di tutti i tipi: bambini, storpi, raccolti in famiglie dedite all’attività a tempo pieno, vecchi incapaci di provvedere alle loro necessità; partendo in taxi brusse dopo un paio di giorni, alla stazione di rifornimento dove normalmente il mezzo si ferma appena fatti i soldi dai passeggeri, due vecchiette, che sotto quell’aspetto di miserabili donato loro dai stracci e la sporcizia, si appostano al mezzo per chiedere dell’elemosina. Mollo loro una busta di nespole appena comprata, da consumare in viaggio, e se la prendono con tanta umiltà, mangiandosi quel pasto inaspettato sedute sul marciapiedi, in un angolo, salutandomi e ringraziandomi ulteriormente quando le  oltrepassiamo, per lasciare il posto.
La seconda sera ad Antsirabe mi rendo conto, per caso, consultando la cartina del paese affissa nella sala dell’albergo, che presumibilmente non sarò in grado di compiere il giro che intendevo fare, a causa di mancanza di collegamenti fra località della stessa regione, o adiacenti. Febbrilmente studio la mappa e le indicazioni offerte dalla Lonely circa i posti da visitare, dato che l’indomani partirò per proseguire il viaggio; decido infine di deviare verso la costa occidentale, fermandomi nel paesino di Miendrivazo, e lì contrattare per una discesa in piroga lungo il fiume Tsiribihina magari aggregandomi a qualche altro turista che fa lo stesso giro.
Arrivo sul posto nel tardo pomeriggio, che corrisponde ad inizio serata, visto che il sole da queste parti tramonta alle 17.30, o giù di lì, durante tutto l’anno. E’ un posto polveroso, con funzioni di transito per i taxi brusse che collegano la costa occidentale agli altipiani, oltre che per le chiatte che lungo il fiume trasportano tabacchi, locali, e alla bisogna turisti a valle, ai villaggi leggermente all’interno rispetto la foce del fiume. Già in partenza da Antsirabe un tipo mi aveva proposto il trasporto via fiume e jeep alla costa; mi ero riservato di verificare altre proposte in loco, onde evitare d’impegnarmi in qualcosa di poco conveniente, ma poi mi sono reso conto che quello che gli ho dato, in confronto alle somme estorte ai turisti in arrivo a Tana, rincoglioniti dal viaggio e spaesati dall’ambiente nuovo, non è granché.
Il buio cala rapidamente sulla cittadina, così come l’ora di cena, fra una doccia ed una sistemata al bagaglio. Mangio per fatti miei, essendo naturalmente allergico alle adunate di turisti che, credendosi in un’avventura, commentano i loro viaggi, le tappe o si scambiano aneddoti ed informazioni, che si volatilizzano non appena la comunicazione ha termine. E’ solo un modo per tenersi compagnia, ed illudersi dell’importanza di quello che si sta facendo. Quelli che mi faranno compagnia nei prossimi quattro giorni sono una coppia francese ed una australiana, oltre ai due ragazzi vogatori e cuochi, e alla  guida, ipernutrita dagli affari coi turisti, che cade nell’equivoco di considerarsi uomo d’affari di una agenzia eco turistica locale, consistente nell’adescare lettori occidentali di guide malgasce della Lonely o Routard, determinati a visitare le meraviglie del paese , da esse divulgate.
Dato che in albergo non c’è molto da fare, me ne vado camminando nel nero notturno delle uniche due strade di Miendrivazo. Le strade sono pressoché deserte, e gli unici posti animati sembrano un ristorantino locale ed un bar affianco l’albergo, dove affluiscono ragazze vestite all’occidentale, la cui attività è quella di prestarsi alle voglie sessuali dei viandanti, compresi i waza, come me. Seduto in una veranda a bere birra, una ragazza timida mi si offre attraverso l’intermediazione di un ragazzo dal fiato impastato dal rhum locale e birra; sarà il fratello, il pappone, un amico, un impiegato del bar? Mah. Tento di abbozzare un discorso sulla mia contrarietà al ricorso alla prostituzione, ma è fiato sprecato; a quello non gliene frega molto, come alla ragazza, che di lì a poco si alza annoiata, tornando dalle sue amiche. Finita la birra, torno alla mia dimora, sul balcone in legno, da cui s’intravede il corso del fiume che scorre lento più in là, attraverso la vegetazione che lungo le rive cresce rigogliosa. Dopo i freddi degli altipiani, questo caldo umido mette in circolo la voglia d’avventura, lo spirito del viaggiatore avvezzo ai caldi desertici, ai monsoni dell’oceano indiano, alle paludi amazzoniche, alla rassegnazione di faune insettifere ostili. Comincio a sentire il senso del viaggio, l’incombenza della fatica, il sopravvenire dei disagi: quello che giustifica un volo intercontinentale ed uno smazzarsi a 10.000 km. da casa.
Mi aggrego quindi alle due coppie di turisti, ed assieme alla guida e ai vogatori precediamo sotto il sole cocente e lungo la calma piatta del fiume, culo basso per non interferire nell’equilibrio precario del tronco scavato, a cui affidiamo i beni di turisti occidentali. I ragazzi malgasci vogano per ore, senza interruzione, alternando un braccio all’altro, e noi seduti, sdraiati, anchilosandoci ogni ora di più. Le canne d’erba non servono ad alleviare i dolori, ma solo a renderci più pacifici rispetto a quest’andare interminabile in piroga. Ogni tanto intravediamo una scimmietta, un lemure, un antro, condominio per famiglie di pipistrelli lunghi quanto il mio braccio, e due stronzi che hanno appena cacciato ed ucciso di frodo un coccodrillo. Ci chiamano per mostrarcelo, così i ragazzi accostano le piroghe alla riva, e giù foto, per i ricordi d’avventure che non ci sono state, toccando parti dell’animale, alzandogli le zampe come si farebbe al barboncino vivo nel salotto di casa.
Di tanto in tanto i turisti tirano fuori gommoselle dai colori psicadelici; il francese ne offre qualcuna a dei bambini venuti dai villaggi circostanti a curiosare, che le guardano con sospetto, infilandosele infine in bocca (Grazie, wasa, ma che cazzo sono? Si mangiano?). Poi, lo stesso manda a cagare altri bambini che lo tormentano chiedendogli il nome, un cadeau, una stylo ecc (Waza, ma perché non molli qualcosa come hanno fatto gli altri, la scorsa settimana? E dai waza, molla qualcosa…). Forse il francese è stanco per la lunga marcia dal fiume al villaggio dove abbiamo dormito la terza notte, tuttavia molti di questi turisti cosiddetti indipendenti commettono la stessa cazzata di cedere alla tentazione di sentirsi generosi e magnanimi regalando sciocchezze ai bambini in momenti di relax, allontanandoli in malo modo quando sono stanchi o si sentono perseguitati, mentre nel frattempo creano una dipendenza di questi all’accattonaggio nei confronti dei turisti,considerati alla stregua di elargitori inesauribili.
Durante la discesa in piroga si mangia la solita sbobba preparata con i viveri trasportati, fra cui una coppia di galli destinati a diventare di lì a breve polli, digeriti al secondo giorno nelle nostre panze (domande e risposte di rito sulla bontà dei piatti: buono? Vi è piaciuto? Buono, buonissimo, complimenti ecc: in queste situazioni è d’obbligo sottostare alla prassi della mangiata di robe in condizioni che altrimenti giudicheresti da neuro, col sorriso di soddisfazione stampato in faccia), si dorme sulla riva del fiume, ci si risveglia avvolti da nebbie padane, coll’umidità nelle ossa e che spugna la tenda, la foschia che sfoca figure stagliate in lontananza.
Dei bambini coperti di stracci attendono la fine della nostra colazione per mangiarne gli avanzi, tremanti dal freddo, in attesa del sole che li scalderà. Lungo la riva, carcasse di chiatte attraccate a quello che rappresenta il porticciolo del villaggio, arretrato rispetto alla sponda del fiume; più in là, in cima ad una collina, baracche dove si dispensano cibi e bevande, perlopiù alcoliche. In una di queste si muove, danzando al ritmo di musiche malgasce, stridule da una vecchia radio a batterie, una donna di 29 anni, che sebbene ne dimostri 15 in più è tuttavia bella e piacente; entra ed esce dalla baracca, prepara il riso cuocendolo sui carboni, serve gli astanti seduti sulla panca di legno, ammaliati, offre ragazzine dedite alla prostituzione occasionale. Il marito sdentato, ridendo, racconta che il tifone passato a marzo scorso li ha lasciati senza casa, e se ne stanno lavorando lì giorno e notte, accumulando il necessario per ricostruirne un’altra. Intanto i loro bambini giocano sulla sabbia sporca, protetti a malapena da indumenti essenziali.
L’erba che ha comprato il francese fa quasi schifo, secca e fatta perlopiù di semi e rametti; i malgasci lo sanno, ed infatti preferiscono stordirsi con rhum autoprodotto e birra, mentre io favorisco un po’ di tutto, nel tentativo di facilitare il sonno sulla sabbia scomoda ed umida.
Alla fine del terzo giorno in piroga, ci attende presso un’ansa del fiume uno zebù benevolente che trascina un carro con i nostri bagagli, e all’occorrenza anche noi, in momenti di guado di paludi pullulanti d’insetti. Altrimenti, camminiamo per il resto del pomeriggio, fino al villaggio che ci ospiterà per la notte, Lì sarà possibile dormire in un letto protetto da zanzariera, docciarsi con l’acqua marrone del fiume tirata su da un bidone, e mangiare un poco più decentemente. L’indomani una jeep ci porta a Moroundave attraverso piste di sabbia, villaggi e baobab. La cittadina dopo un po’ annoia; non c’è molto altro  da fare una volta visitate le zone delle mangrovie, passeggiato per la spiaggia e le strade polverose del centro. Vicino al mare dei ragazzi giocano a pallone, ed una ragazza colle smagliature sulla pancia di chi ha partorito senza aver praticato ginnastica pre e post parto, tenta di adescarmi colla scusa dei massaggi; digredisco tentando di portare il discorso ai suoi problemi personali, circa i figli, frutto di un amore fallito, che l’ha abbandonata al suo destino. La saluto cordialmente, ringraziandola.
Prenoto un posto sul taxi brusse del giorno dopo per tornare ad Antsirabe, via Miendrivazo, nuovamente. Non mi dispiacerebbe fermarmi a dormirci, salutando il bar delle simpatiche mignotte, cha fa tanto saloon da film western, tuttavia non è possibile perché si passa di lì a notte fonda, arrivando sugli altipiani a giorno inoltrato: un venti ore da affrontare a muso duro, risalendo dalle pianure costiere ai mille e passa della zona centrale del Paese, con la prima parte del viaggio a passo d’uomo, o d’animale, date le condizioni stradali.
Gli intestini reggono a stento le troppe sbobbe consumate negli hotely economici incontrati per strada, e il culo reclama il meritato riposo. Fortunatamente di tanto in tanto il taxi brusse si ferma nel cuore della notte, per lasciar scendere qualcuno, per rifornire di carburante il serbatoio, per cambiare una ruota bucata, per farci pisciare. La pisciata notturna sotto il manto di stelle è d’obbligo in ogni viaggio, durante gli spostamenti. Ognuna è universale, identica a tutte le altre, quando si bagna il suolo al buio, ritagliando un momento ed uno spazio del tutto personale, per ricordare momenti simili, od altri d’assoluta intimità. Nel farla qui mi sovvengono tutte le altre in giro per il mondo, bagnando il terreno come un animale che segna il suo territorio con spruzzate d’urina.
Le baracche lungo questi tratti di Route Nazionale suggeriscono la miseria infinita di questi posti; la donna che mi ha servito un caffè nel buio della sua stamberga, mancante di luce e facente intravedere solo linee che delimitano figure o cose, invita i figli a ringraziarmi, per aver pagato il doppio del dovuto, lasciando una mancia che in Italia sarebbe solo una presa per il culo.
Fianarantsoa, ultima città degli altipiani, prima di inoltrarsi verso il sud del Madagascar, non è quell’idillio che la Lonely vorrebbe far credere, incastrata nella miseria generale che sto attraversando. Come descrivere suggestivo un posto dove al buio da mancanza d’illuminazione pubblica s’intravedono a malapena facce scure che si rintanano come topi nei cartoni, sotto pensiline, attaccati a cenci o tozzi di pane come ricchezze da difendere, nell’indifferenza generale dei turisti, che ci vengono per le meraviglie naturali, per gli ecosistemi, per farsi spennare da loro concittadini che sono qui per sfuggire ad una miseria diversa, quella morale, del ricco occidente.
La depressione è dietro l’angolo.
Che ci fa quel vecchio su sedia a rotelle nel mezzo della notte, in una strada deserta del centro, accompagnato da un bambino stracciato, come il cane che accompagna il cieco? Come vivono? Per loro non c’è altra via che chiedere l’elemosina e tirare avanti, giorno dopo giorno, fino a che questo sarà possibile.
A volte un viaggio si fa anche per cercare una catarsi, un’espiazione del male che affligge noi ricchi occidentali, la mancanza di solidarietà, l’indifferenza per tutta la gente che si trova in queste condizioni, anche e soprattutto a causa nostra.
Il mattino seguente meglio lasciarsi guidare dai suggerimenti della Lonely. Scelgo un’escursione facile facile, adatta allo stato d’animo della sera precedente, presso un Monastero frappista dove si produce un buon vino, a pochi km dalla città. Lì visito i luoghi di lavoro, poi la chiesa dove faccio in tempo a sorbirmi una sorta di canto gregoriano malgascio, che ulteriormente contribuisce a placare lo stato d’animo scosso della sera precedente da troppa stanchezza e miseria. Smammo deciso a visitare degnamente la città, girandomela a piedi per tutto il santo giorno, snaturando l’aura negativa che vi aleggiava la sera precedente. Me ne vado dal centro caotico e trafficato verso la parte alta della città, quello che costituisce il nucleo originario, appollaiato in cima ad un cocuzzolo, con strade acciottolate e chiesette e casette di fine ‘800, con vista sul laghetto e sulle risaie situate appena fuori città.
In zona, incontro due bambocci che la sera prima mi avevano rotto, martellandomi affinché acquistassi disegni o cazzate del genere, contribuendo al fastidio che avevo provato appena arrivato. Anche ora ci provano, seguendomi per un po’, fino ai margini dell’abitato; me ne disfo mollando una cosa di soldi, a patto che pulissero con delle ramazze trovate in uno spiazzo quella zona, fino a quando non fossi tornato dal giro.
Poco dopo incontro un tipo del Tsara Guest House, dove non ho soggiornato per motivi di budget, che si sta occupando della ristrutturazione di una vecchia chiesa per farne una scuola destinata ai bimbi della zona. Mi mostra i lavori e le tecniche di restauro, incalzato dalle mie domande, alle quali non si sottrae. E’ ben gentile. Di lì a poco c’è il vernissage di una mostra fotografica presso l’Alliance Francaise. All’entrata c’è un casino di bambini della scolaresca oggetto della mostra: si tratta di un esperimento fatto da Pierre Man, un fotografo franco malgascio, di insegnare a dei bambini di scuole di varie città malgasce il mestiere della foto, col supporto economico di famiglie di loro coetanei in Francia. I risultati sono sorprendenti, e il progetto va avanti da un paio d’anni, facendo tappa nei centri principali del paese.
Rinfrancato dalla bella giornata, decido per l’indomani una visita al villaggio d’Ambalavao, dove il mercoledì si tiene il famoso mercato di zebu. Il posto è un gran casino, col centro interamente occupato da un via vai di gente che gira per il mercato alimentare, più una fiumana di persone diretta versa quello degli animali; a tratti è persino difficile camminarci. Chiedo in giro degli zebu, ma nessuno sembra saperne niente, non capiscono quello che dico e mi ridono pure in faccia. Ci sono poche cose che mi fanno incazzare in viaggio come quando una cosa tanto evidente in un posto sia negata in questa maniera, come se qualcuno mi chiedesse indicazioni su Posillipo ed io non sapessi niente al riguardo. Fortunatamente, dopo diversi tentativi, sempre più inacidito, una brava donna m’indica il luogo dove si tiene il mercato. Mi ci avvio, ed avvicinandomi attraverso nuvole di polvere sollevata dall’andirivieni di grossi camion che portano e prendono i zebu.
Questi sono radunanti su un enorme spiazzo, ai margini di Ambalavau, in piccoli gruppi, sferzati dai proprietari che aspettano i compratori, e nel frattempo li tengono a bada; si pigiano l’uno coll’altro, grandi e piccoli, cogli occhioni terrorizzati, quasi sapendo che fine vanno a fare, destino che le altre bestie, quelle umane, hanno già scritto per essi, maltrattati per il resto della loro esistenza, o macellati senza pietà e riguardo. “Meat is murder”, cantava Morrissey negli anni ’80.
Tento di scattare delle foto tristi, fra il trambusto e le venditrici di commestibili, impolverati loro ed io, scansando corna e colpi di frusta, poco convinto del risultato, dopodiché torno a Fianarantsoa, planando su una peugeot stipata assieme ad altre otto persone, lungo discese poco ripide, per risparmiare benzina; il giorno seguente proseguirò per Ambositra, per visitare, in teoria, dei villaggi tradizionali disseminati nelle campagne. Pessima riuscita del tentativo.
Appena arrivato nella cittadina, sono pedinato da un paio di ragazzi che cominciano a rompere colla storia dell’escursione ai villaggi. Non ci sono taxi brusse che vi ci arrivano, tranne che nel giorno di mercato, e dovrei pagare per intera l’auto procurata a noleggio dai ragazzi, che si sono proposti come guide; non se ne parla proprio, dico io. Tuttavia la proprietaria del Tropical Hotel, dove dormo, mi raccomanda con insistenza i ragazzi, che nel frattempo riducono le tariffe, per cui mi convinco a partire, mannaggia a me. Così l’indomani vado col ragazzino che vuole farsi le ossa come guida, aspirando alla menzione sulla Routard o sulla Lonely, massimo desiderio di chi, in questi paesi, abbia a che fare coi turisti e voglia uscire dalla condizione di morto di fame.
Arriviamo al villaggio principale coll’auto presa a noleggio, e di lì ci mettiamo in marcia per arrivare a quello più vicino, Ifasil, un’ora e mezzo di marcia, lungo un sentiero facile facile. Cammina cammina, non si arriva mai, e sono passate più di due ore e mezza. Dove sta questo villaggio, chiedo al ragazzo; Dopo qualche esitazione mi dice che ha sbagliato sentiero, e vorrebbe andare a quello che dista 4 ore di cammino. Col cazzo; decido di mollare tutto e tornare indietro per visitare almeno il villaggio principale, mandando a cagare le aspiranti guide, fallite in partenza. Ad Amboetra giro fra le capanne di legno del villaggio, dove l’attività principale dei locali sembra quella di accalappiare gli sprovveduti waza per propinargli ogni sorta di prodotto locale, soprattutto oggetti di legno scolpito. L’insistenza è notevole, hanno il loro pollo e lo vogliono spennare ben bene; già incazzato per la storia dello scarpinetto a vuoto, la situazione mi stressa notevolmente, e l’unica cosa da fare è fuggire via, scappare, darsela a gambe, tuffarsi nell’auto, chiudere i finestrini e le sicure ed intimare allo chauffeur di partire, lasciandosi i mohicani alle spalle a mangiarsi la polvere, e conservare il mio scalpo (alias portafogli) sano e salvo.
Di ritorno ad Ambositra, carico d’energie decisamente negative, ho bisogno di sfogarmi con qualcuno, e chi meglio dei venditori di oggetti in legno scolpito, rei di sbolognare la stessa mercanzia del villaggio-trappola appena lasciato? Metto sotto torchio venditori innocenti d’artigianato locale, contrattando tutto quello che decido d’acquistare fino allo sfinimento (loro), soddisfatto solo quando vedo le loro facce stravolte, in preda a calcoli numerici forsennati, tentando di capire se stanno guadagnando qualcosa oppure no al prezzo che impongo loro (la matematica, nei paesi in via di sviluppo, è roba per pochi). L’ultima vittima mi dice, fra il perplesso ed il meravigliato, che sono un tipo bien dur; biondo, gli rispondo, sono napoletano, e prima di te, ho fatto piangere anche i negozianti arabi, notoriamente fra i più cazzimmosi della categoria (a Luxor un commerciante di prodotti d’alabastro mi accoglie col sorriso da un orecchio all’altro, e mi congeda bestemmiando i profeti; a Tetuanne, Tunisia del sud, colleghi d’affare si consultano perplessi sul prezzo che sono riuscito a spuntare, incapaci di replicare, dopo la dichiarazione del dernier price, dopo il quale la correttezza di venditori ed acquirenti impone di non più replicare).
Una volta placata l’ira funesta organizzo le cose per la partenza del giorno dopo alla volta di Tana. Occorrono sei ore di marcia, più la solita attesa che serve a riempire il mezzo, condizione sine qua non per convincere l’autista ed accendere il taxi brusse, con motorino d’avviamento o a spinta di volontari della gara routiere.
Grazie alla sveglia mattutina dettata dal gallo, arrivo nella capitale non tardi, giusto il tempo per rendersi conto, di primo acchito, che non c’è molto da fare, oltre a girare per i mercati, o servirsi delle opportunità offerte dalla grande città, come centri Internet, centri culturali, un bel concerto fiume di tre ore, giusto alle spalle del mio albergo, infine le numerose prostitute che, come nel film Matrix il sistema clona Smith istantaneamente da un qualsiasi essere del software, sembrano poter impersonare qualunque ragazza o donna che incrocio per strada,  soprattutto di sera: quella seduta al tavolo del ristorante squallido dove prendo un caffè, quella che cammina coll’amichetta a braccetto, quella alla fermata del bus (waza sulla sessantina, a gruppi di quattro o cinque, girano indisturbati nella città, colle borse piene di preservativi marca locale, Protector, scegliendo le ragazze come farebbero i bambini in un negozio di caramelle o giocattoli, ma col potere d’acquisto della carta di credito, incuranti dei poster affissi in tutti gli alberghi malgasci a buon mercato, che recitano la scritta: STOP AL TURISMO SESSUALE, ATTENTO, IL MADAGASCAR TI GUARDA, nonché della copia del Nuovo Testamento di cui è provvista ogni stanza). A tutte rispondo gentilmente, offrendo il mio rifiuto cortese.
Francamente, tolgo le tende da Tana, nonostante le attrazioni descritte; inoltre è cara, rispetto la media del resto del paese. Mi dirigo verso Mahajnga, costa occidentale del Madagascar, tappa intermedia per l’isola di Nosy Be, paradiso tropicale in terra malgascia, via volo interno, crepi l’avarizia, siccome raggiungerla mi costerebbe troppo in termini di tempo e fatica, per le condizioni impossibili del percorso. Non ho più voglia di passare notti insonni sbattuto sui seggiolini di un taxi brusse. L’ultimo sacrificio lo riservo per le 12 ore notturne impiegate da Mahajnga a Tana, purgatorio propedeutico al riposo sulle spiagge di Nosy Be.
Si parte alle 18.30, anziché alle 16.00 previste dal venditore del biglietto il giorno precedente, come al solito. Anche se il mezzo è ormai completo, bisogna sistemare l’enorme massa di bagagli sul tetto, che occupa un volume quasi pari a quello del mini bus. Lo choffeur ha solo 20 anni, ma sembra saper il fatto suo; la nostra vita  è nelle sue mani: godrà di turni di riposo, a seguito di notti passate a condurre taxi brusse, garantiti da contratto? Non credo.  Gli chiedo se ha sonno, se tutto va bene, ma quello mi rassicura con aria paternalistica, mentre conduce il mezzo con disinvoltura, superando e facendosi superare da suoi colleghi che conducono mezzi simili al suo, lungo la route nazionale sinuosa e curiosa; come in una pista Polistil  le macchinine si rincorrono a vicenda. In distanza si vedono i fari dei mezzi, uniche luci artificiali ad illuminare l’asfalto e la natura che sfrecciano via.
Altre pause a scrutare nel buio, a consumare bevande oscure, a mangiare negli hotely a carattere familiare, sperando di non avere una diarrea l’indomani, a pisciare sotto il solito cielo stellato, poi fa giorno e ci si sveglia dal torpore, ormai alle porte di Mahajnga. Che ci sono venuto a fare? A vedere quelle due porte scolpite e spelacchiate stile swahili citate dalla scrittrice di questa Lonely, a fare delle passeggiate serali su e giù per la corniche, fra i venditori di spiedini e manioca, più verdure alla julienne pescate con disinvoltura da un secchio di plastica? Ad assistere ad un secondo vernissage di una mostra di fotografie presso l’Alliance Francaise  locale? Forse a spezzare il viaggio verso Nosy Be, e a godermi altri esempi di cultura malgascia.
L’indomani dell’arrivo mi reco di buon ora al porto malfamato per cercare un battello che attraversi l’estuario del fiume, che separa la città dal villaggio di pescatori chiamato Katsepi. Questo è un posto dove non c’è altro da fare che passeggiare sulla spiaggia o chiacchierare con i locali dedicati a vendere commestibili a terra o sulle bancarelle, a pochi passi dalla riva che funge da porto per i villaggi situati all’interno. Les enfantes terribles che gestiscono questi ritrovi, ragazzine che non raggiungono l’età maggiorenne, tirano fuori le tettine con disinvoltura per allattare i loro bambini. Gestiscono famiglie come una bambina italiana gestirebbe la casa di Barbie; affrontano le loro problematiche come un gioco, in maniera del tutto spontanea e senza le dolorose sovrastrutture psicologiche che caratterizzano le società occidentali.
I bambini di strada mandati dalle famiglie all’accattonaggio tutelano i loro fratellini o sorelline portandoseli a cavalcioni a chiedere soldi per le gare routiere, dove il via vai costante dei viaggiatori dà maggior possibilità di guadagno; dai sette ai due anni, con responsabilità di un genitore, senza avere altro di cui preoccuparsi all’infuori del semplice riempirsi la pancia quotidianamente ed aspettare l’indomani. Quale altro bisogno ha loro dato questa società da soddisfare? Per alcuni solo questo, per altri qualcosa in più, per una ristretta minoranza, quello che potrebbe assomigliare, molto alla lontana, ai nostri.
Vado a mangiare al ristorante di Madame Bouchard, raccomandato dalla guida. Di lei non c’è traccia, perché sta nel ristorante della figlia a Mahajnga, così il suo cuoco ammaestrato mi prepara una sbobba fatta di pesce e riso, abbellita un poco da una salsa d’erbe. Mentre assaggio la delicatezza un incontro decisamente negativo mi rovina l’idillio del pranzo esotico: un esemplare dal vivo di waza figlio di puttana si accomoda senza tanti complimenti al mio tavolo e tenta dir rompere il ghiaccio con argomenti di cui non me ne può fregare di meno, tipo la F1, Shumacher, il calcio in Italia, i computer, le macchine fotografiche digitali e altre amenità del genere. Poi, con una sfrontatezza inaudita, o forse un’ingenuità infantile, mi spiattella senza mezzi termini il motivo per cui, per l’ottava volta, è venuto in Madagascar: le femmine, belle e facili. Non solo, il bastardo confessa candidamente le sue truffe al fisco francese fatte attraverso società commerciali che operano con Italia e Spagna, paesi con i quali si lavora male, si lamenta, ed intanto si arricchisce illegalmente, alla faccia di quelli che pagano le tasse fino all’ultimo centesimo, e sgobbano per tirare avanti e arrivare alla fine del mese. Evidentemente Qualcuno ha voluto mandarmi questo viscido ricco bianco europeo in tentazione, che solo per la metà delle cose di cui parla con tanta disinvoltura si meriterebbe una dose generosa di randellate legnose, date di santa ragione.
Mangia in quel piatto che ha davanti lamentandosi del prezzo, porta appresso i soldi contati da spendere durante la giornata, per paura di truffe o furti, alterna i lineamenti del volto da uomo d’affari, che normalmente incuterebbe rispetto altrui, a quella da arrapato cronico, che allunga le mani come i tentacoli di un polpo sulle carni femminili malgasce, come quelle della ragazza che al porticciolo gestisce un taxi brusse assieme la madre; le sta accanto, comincia a guardarla, a parlarle, a scherzare, a metterle mani sulle cosce o sulle spalle, a chiedere d’incontri presso il suo albergo nei prossimi giorni. Tecniche collaudate d’approccio con ragazze locali, che intraprese con altre occidentali, esenti da bisogni economici lo manderebbero a cagare al secondo sguardo ammiccante, mentre qui servono a sfruttare il bisogno della persona, soddisfacendo i bassi istinti concernenti il sesso.
Non ne posso più; o gli faccio un mazzo così subito, sfogandomi, o mi allontano subito per rimuovere il disturbo. Meno male che sta per arrivare il ferry che fa la spola con Mahjinga, così me lo tolgo dai coglioni, preferendo il mezzo di una comandante di una flotta composta di due barchette rattoppate alla bene meglio, e due mozzi che durante la traversata non fanno altre che spalare fuori l’acqua che nel frattempo entra; lei, incurante di tutto, disinvoltamente mi racconta di un suo amore italiano di vent’anni prima interrompendosi repentinamente per urlare ordini all’equipaggio.
Tornando verso le certezze della città, i miei intestini rassicurati cominciano a reclamare l’espulsione dell’unica cagarella del viaggio; purtroppo l’hotel è abbastanza distante, e l’unico compromesso sembra il cesso dell’Alliance Francaise, onnipresente, in Madagascar. Manco a farlo apposta c’è in quei giorni una mostra fotografica, stavolta di un belga; entro per chiedere informazioni, a mo’ di scusa, sull’orlo del collasso intestinale: c-c-c-ci s-s-sono eventi in-n-nteressanti, in quest-t-ti giorn-n-n-i? Intanto faccio sforzi sovramuni per trattenere la panza. Mentre la segretaria bruttina sfoglia carte per documentarmi di ciò di cui al momento non me ne può fregare di meno, butto lì la domanda, apparentemente senza dargli importanza: c’è un wc qui? Mi guarda cose se avesse sgamato la strategia, e mi molla la chiave del cesso, a cui accorro come uno che ha attraversato il deserto colla gola secca ed intravede l’oasi. Benedette diarree del viaggiatore, ti colgono al momento meno opportuno.
Meglio avviarmi a Nosy Be, e sperare di fare due bagni.
All’aeroporto di Mahjinga non ci sono molte formalità per l’imbarco: niente documenti, niente metal detector, niente perquisizioni, solo il biglietto, come quello nostro dell’autobus, mostrato al controllore. Del resto cosa avrebbero da temere i malgasci? Non certo qualcuno che provi un odio generalizzato nei loro confronti, al contrario di quello che accade per molti stati occidentali. Per quale motivo un’etnia dovrebbe odiare il Madagascar, se non ha truppe che vanno in giro per il mondo a rovesciare stati, a torturare, ad ammazzare, a seminare odio per i loro odiati comportamenti? Ad esportare massacri non voluti, ma non la democrazia, come si vorrebbe far credere per mascherare desideri d’imperialismo economico connesso a quello energetico? All’aeroporto di Mahjinga, come in nessun altro del Madagascar, non c’è bisogno di mezzi di controllo sulla pericolosità degli individui, come invece accade perfino all’entrata delle scuole di nazioni che dovrebbero essere l’esempio della libertà per il mondo.
Il bielica arriva da Tana con un ritardo decoroso, c’imbarca, e dopo mezz’ora sono a Nosy Be; a bordo, chiaramente, ci sono molti più waza che locali, data il costo della tratta e la destinazione. Ogni paese del mondo ha il suo posto speciale, il paradiso ambito da turisti e sfruttato turisticamente e selvaggiamente dai locali. In Madagascar Nosy Be è il posto che attrae maggiormente il turismo europeo, fatto di famiglie nel villaggio Venta Tour e falsi fricchettoni nei dintorni del capoluogo Hell Ville, su spiagge tropicali costellate d’alberghi atte ad illudere il turista del sogno esotico. I villaggi di pescatori sono diventati distese di alberghi, bar, ristoranti e quant’altro, con la sgradevole sensazione di viversi un’esperienza presso una moderna colonia europea, di tipo prettamente economico e subdolamente culturale, visto che i locali, per compiacere e mettere a proprio agio i viaggiatori occidentali, devono a loro volta assumere sembianze estetiche e comportamentali familiari e rassicuranti per quelli che vi spenderanno i preziosi dollari ed euro.
Ai Caraibi, Pacifico, Mar Rosso, Oceano Indiano, nel sud est asiatico, tutti i paradisi tropicali s’assomigliano. Si viene qui per farsi fare fesso e contento, coll’illusione di atteggiarsi a persone importanti solo perché si ha il mezzo della carta di credito o del traveller’s cheque. Ci si atteggia a grandi viaggiatori, facendosi poi fare fesso dalle guide false, dai tour tutto compreso per foreste o fiumi, da quelli che ti offrono l’esotismo sapendo che nella loro vita questo termine non ha senso, mentre ne ha solo quanto riescono la sera a portare a casa i soldi del turista. Difficile scegliere fra il viaggiatore cazzone che si crede onnipotente a mezzo potere d’acquisto occidentale, o il locale viscido, che tenta di compiacerlo in tutti i modi pur di intascare qualche soldo, a buon mercato e senza troppa fatica.
Nosy Be, isola tropicale malinconica. Tutto è in funzione alla stagione turistica europea; a luglio ed agosto ci sarà il pienone, mentre ora è come il mare d’inverno delle nostre parti, solo con un solo cocente anziché le fredde nuvole che ci rendono l’ambiente grigio. Le spiagge sono carine, fatte di baie che si susseguono l’una all’altra, prendendo il nome del villaggio che vi ci sta affacciato. Non c’è anima qui, tranne qualche venditrice di tessuti, frutta o altro che la mattina parte da Hell Ville coi taxi collettivi per passare la giornata a vendere ai turisti. E’ periodo di vacche magre, ma l’estate occidentale sta per arrivare, e con essa l’orda di vacanzieri.
Ad Andilana c’è il villaggio del Venta Club, con ai margini i malgasci accampati all’ombra delle palme, a mangiare le loro sbobbe ed aspettare i turisti organizzati che vengono a comprarsi i teli, o farsi fare le treccine ai capelli. Mangio con loro, anziché nei ristoranti appostati in luoghi strategici, che praticano prezzi simil europei. Seduto su un ceppo a sbafare riso con pezzetti di zebù, mentre loro stanno stravaccati per l’ora della siesta, ed una ragazza italiana a guardare la scena attonita mentre tre malgasce stanno su di lei come rapaci a farle le treccine.
L’ultimo giorno a Nosy Be lo dedico ad una gita fuori porta, si direbbe in Italia; c’è un’isoletta chiamata Tanikeli a poca distanza dal porto di Hell Ville, e l’unica maniera per arrivarci è prendere posto sulla lancia che dal porto trasporta le cuoche a preparare il pranzo tropicale ai waza italiani del Venta Club di cui sopra, che hanno pagato suon di Euro per una giornata in giro per l’arcipelago. Il pranzo comprende barracuda arrostiti con brochette di pesce, più altre leccornie che mi potevano capitare solo in un frangente del genere. Mi ritrovo così col gruppo italiano del Venta, che armeggia con i telefonini, alla disperata ricerca di campo pur di comunicare puttanate ai familiari. Fotografano le scimmiette mollandogli pezzi di cibo, mentre in silenzio mi concentro sul cibo, aspettando che il brutto quarto d’ora passi. I malgasci, fra guide e cuoche, stanno più in là, aspettando che i turisti finiscano di cazzeggiare, per sbafare i loro avanzi; nel frattempo discutono di soldi, discorsi preferiti di chi abbia sempre un’emergenza economica da soddisfare. Lo fanno come in un qualsiasi ufficio in cui si parla di problematiche varie; questa è la loro vita, appesa al filo della volontà dei turisti a cazzeggiare in vacanza, lasciandosi abbindolare dagli operatori turistici locali in escursioni varie. I waza sono inconsapevoli di tutto ciò, e credono gliene freghi qualcosa dei loro raccontini circa l’avvistamento della tartaruga marina: “Sai, l’ho avvistata lì al largo, girava di fianco in questo modo….”, e mima la maniera planando colle braccia. Se non sapessi del contrario, penserei che il tipo è fuori di testa, mentre la guida malgascia lo pensa senz’altro. Almeno questi non vengono qui a scoparsi le ragazzine per due euro a botta.
L’indomani torno a Tana in aereo, per gli ultimi giorni del viaggio, che come sempre per me sono melanconici, e mi confondono; sono ancora qui, ma un poco penso al ritorno a casa, al lavoro, alla famiglia. Mi restano pochi soldi, giusto quelli per mangiare questi due giorni e per prendere un taxi per l’aeroporto d’Ivato, e aspetto semplicemente che tutto si esaurisca in queste ore che restano.
Madagascar, terra bella e difficile, generosa verso i visitatori più di quello dovuto, quasi a ricompensare l’impatto dato loro dalla sua povertà; l’accattonaggio spinto, il vivere per strada delle persone che assumono gli scarti di quelli che possono di più, il concedersi delle ragazze alle sozze mani di vecchi soli ed arrapati, a quelle fredde di giovani che non avrebbero nulla da dire a donne non bisognose.
Vederle, queste malgasce, che ottemperano al loro lavoro d’adescamento, come ad un qualsiasi altro, senza che nessuno si meravigli della cosa; alla bisogna del vivere non si è troppo schizzinosi, e forse questo modo per vivere è migliori di altri, che costringono a vivere di stenti. Fortunate quelle belle, che hanno di che piacere al turista voglioso della loro carne, e che possono vivere con qualche agio per un poco. Che ne sarà di loro fra qualche anno, quando tutti i waza del mondo saranno tornati al loro benessere e sicurezza occidentali, mentre quelle che non saranno riuscite a farsi sposare torneranno nella condizione che sognavano di lasciare.
Non posso far finta, non ammettendo che questo viaggio sia stato dominato dall’idea che il Madagascar è purtroppo luogo di sfruttamento sessuale delle donne da parte di turisti, e questa ha accompagnato, caratterizzandola, la mia permanenza qui. Viaggiando per i paesi del mondo, diminuisce sempre di più l’incanto per le meraviglie che offrono, mentre cresce la consapevolezza e il dispiacere per condizioni di vita inammissibili alle nostre latitudini.
Ad un certo punto, il viaggio non è più una vacanza, ma un dovere verso se stessi.


scrivi qui il tuo commento