Da Venezia a Istanbul in bici 2008


diario di viaggio 31 luglio – 15 agosto di Maurizio

PREMESSA
E’ da un mese e mezzo che sono tornato da Istanbul e…..non sarei più voluto scendere dalla bicicletta (avrei proseguito all’infinito), così intenso è stato questo viaggio, nell’attraversare così tanti paesi, città, campagne e nello scalare colline, montagne, luoghi conosciuti in precedenza solo vagamente e che, una volta conosciuti, mi hanno estasiato. E’ come avere preso una prima sbornia ed essere diventato alcolizzato, dipendente da un mix di curiosità, meraviglia e sofferenza.
Da Lugugnana, piccolo paesino in provincia di Venezia, fino a Istanbul, splendida città turca in cui l’Oriente si apre all’Europa, ho percorso 2150 km in bicicletta, pedalando per le strade di Slovenia, Croazia, Serbia, Bulgaria, Grecia e infine della Turchia. Tutto questo in una quindicina di giorni (sedici compreso il ritorno in aereo), con dodici tappe, due giorni di riposo e un giorno dedicato alla magica città dei minareti.
La voglia di andare a Istanbul in bicicletta mi è venuta quando un mio amico, Stefano, mi disse che nel duemila in aprile un gruppo di nove persone aveva attraversato la vecchia via della seta da Venezia a Pechino in tre mesi, percorrendo più di dodicimila chilometri.
Non avrei mai avuto il tempo materiale di arrivare fino a Pechino, causa lavoro, ma a Istanbul in quindici-venti giorni potevo farcela. Le difficoltà del viaggio non erano poche, legate al periodo più o meno lungo da impegnare, occorrendo inoltre trovare dei compagni di viaggio che fossero capaci di affrontare 150-160 km al giorno, in quanto mai prima d’ora avrei solo pensato di potercela fare da solo.
Sono così passati cinque o sei anni, non mi ricordo bene, durante i quali ho fatto in bici il giro della Calabria, la Firenze-Napoli, il giro del Peloponneso, sempre con amici, e mentre si stava organizzando con Marco e Celestino un giro in Corsica, il primo dei due, un parrucchiere soprannominato “il Principe”, aveva accennato al viaggio per Istanbul e si era documentato su quanti fossero i chilometri, su che percorso seguire ecc…
Alla fine Marco scartò l’idea, perché ci volevano più di venti giorni; il giorno dopo però, l’idea continuava a ronzarmi in testa come un alveare di api che sta sciamando, e più ci pensavo più mi convincevo che ce la potevo fare anche da solo (-VAI MAURI !! YES YOU CAN !!-) in sedici o diciassette giorni, essendo questi i giorni che avevo a disposizione..
Quindi mi sono informato sul volo di ritorno da Istanbul e ho riferito delle mie intenzioni a miei due amici, dicendo loro che rinunciavo al giro in Corsica per affrontare questa nuova esperienza, sperando si aggregassero. “Cosa?” mi rispondono questi fifoni, cominciando a dire che era troppo pericoloso, che la Serbia aveva appena minacciato l’Europa di ritorsioni se avesse riconosciuto il Kossovo, che i km erano troppi, che i giorni di pausa erano troppo pochi.
Insomma, un terreno pieno di insidie, ci mancava solo che Katrina, uragano tropicale, si abbattesse su queste zone durante il nostro passaggio.
In ogni caso a me questi non apparivano ostacoli, anzi, i miei pensieri erano concentrati su come prepararmi fisicamente all’attraversata dei Balcani, su quale fosse il percorso da fare, sui luoghi in cui dormire e su come preparare la mia mountain bike Merida (che in seguito chiamerò la mia girlfriend, poi spiegherò perché).
Naturalmente raccontando la mia intenzione di andare in bici a Istanbul ad altri amici, lo facevo con sufficienza, dicendo loro che intanto avevo comprato il biglietto aereo di ritorno, e che poi, se avessi avuto il tempo per andarci, bene; se invece qualcosa fosse andato storto, ci sarei andato in un’altra occasione.
Così dicevo ma se fosse andato qualcosa storto, avrei fatto come Russel Crowe nel film “Il gladiatore”, ossia avrei scatenato l’inferno.

CRONACA GIORNALIERA

PRIMO-GIORNO–31-luglio-2008
Finalmente è arrivato il grande giorno: ISTANBUL arrivo!
Mattinata nuvolosa, ma il tempo è ottimale per andare in bici, all’uscita del cancello di casa con la bici, mio Papà mentre si fuma una sigaretta prima di iniziare a lavorare mi da una occhiata non tanto tranquilla, naturalmente avevo informato a casa che andavo a fare un giro nei Balcani, nessuno sapeva che la meta era Istanbul, non volevo dare troppe preoccupazioni. Arrivo con pedalata spedita a Gorizia, entro in Slovenia e qui incominciano i primi saliscendi fino ad arrivare ad Ajdovscin (Aidussina in italiano), cittadina slovena dove storicamente sin dai romani è stata un crocevia verso l’est, ove chiedo informazioni in relazione alle strade che si inerpicano sulle montagne verso Lubiana, non volendo  proseguire per la strada trafficata attraverso la vallata.
Trovo un ragazzo che parla italiano, che mi indica una strada di montagna poco trafficata e immersa nel verde dei boschi sloveni. La seguo e mi ritrovo davanti ad una salita di 20 km; fortunatamente è il primo giorno e considerati i 20 chili di zavorra sulla mia girl friend, l’ho percorsa abbastanza agevolmente. Arrivo a Lubiana nel primo pomeriggio, vado al turist center per trovare un alloggio e qui, dopo una veloce visita alla città e una cena, finisco la mia prima tappa. Lubiana mi è piaciuta, è una città a dimensione di bicicletta, da percorrere attraverso una miriade di rosse piste ciclabili, dovendosi tener presente il fatto che di scooter qui ce ne sono pochissimi.

SECONDO-GIORNO–1°-agosto-2008
La mattina è iniziata presto, alle 7 e 15 sono già in bici, dovendo percorrere circa 180 km passando per Zagabria. Quindi esco da Lubiana abbastanza agevolmente attraversando delle campagne coltivate prevalentemente a fieno e seguendo una strada secondaria limitrofa a corso d’acqua ed alla ferrovia che porta verso Zagabria. Sono immerso in una fitta vegetazione, durante un continuo saliscendi tra paesini curatissimi, colorati da balconate fiorite. Arrivo senza accorgermi al confine con la Croazia, giunto al quale esibisco il passaporto al poliziotto croato, che, dopo averlo visionato, mi chiede in italiano dove sono diretto, ed io gli rispondo: “Istanbul”, al che lui, sorpreso dalla mia risposta, con un sorriso mi fa gli auguri di un buon viaggio. Arrivo alla periferia di Zagabria, rendendomi conto di avere fatto 30-40km in più del previsto.
Quindi, per entrare e uscire dalla città velocemente, al fine di raggiungere ad un orario decente il paesino in cui ho programmato di fermarmi la notte, ho dovuto immettermi, cosa più facile a dirsi che a farsi, nella tangenziale trafficatissima, senza lo spazio nel bordo strada per le bici  e con auto che suonano spesso, e non certo per salutarmi.
Io a testa bassa cerco di accelerare per uscire il prima possibile da questo inferno. Entro in centro città, scatto velocemente un po’ di foto e via verso Sveti Ivan Zabno, paese in cui avrei dovuto  passare la notte. La strada si fa ondulata e all’improvviso, quasi senza accorgermi, penetro in splendidi boschi. I km aumentano e il sole non c’è più. Mi rendo conto che per raggiungere Sveti Ivan Zabno devo percorrere altri 40 km. Quindi devo fermarmi prima. Entro a Vrbovec, un paesino su una piccola collina, senza traccia di alberghi e ostelli. Quindi provo a chiedere in giro, ma niente, ed intanto si fa buio e i negozi non mi vendono bibite perché chiedono cune ed io ho solo Euro, e non trovo nemmeno fontane, avendo una sete da prosciugare un fiume, al che mi sono fatto prendere dal panico, posto che avevo già in passato fatto campeggio libero in mezzo ai boschi, il che non mi sarebbe dispiaciuto, ma in quella occasione ho dovuto passare tutta la notte senza una goccia d’acqua, cosa terribile. Quindi mi decido di uscire dal paese e proseguire, quando vedo un miraggio, HOTEL tre stelle, con uno splendido ristorante all’aperto che emanava un  meraviglioso profumo di carne alla brace. Quindi lì mi fermo e passo la notte.

TERZO-GIORNO–2-agosto-2008
All’inizio di questa tappa ho ritardato un po’ la partenza per stanchezza: sono le nove di mattina quando a cavallo della mia Merida  mi dirigo verso Nasice, sperando che i km da percorrere per raggiungerla non siano più di quelli calcolati a tavolino. Sono immerso nelle campagne e nei boschi croati: la zona è prevalentemente agricola e per me molto interessante, essendo io un agricoltore che coltiva in prevalenza cereali nelle campagne venete tra il fiume Livenza e il Tagliamento; mi incuriosisce non poco vedere la famose e concorrenti tenute croate limitrofe al Danubio, dicono le più fertili d’Europa: però da queste parti vedo solo piccoli appezzamenti di terreno coltivati, di grosse aziende neppure l’ombra. Arrivo senza grossi imprevisti a Nasice, entro nell’unico hotel del paese, mentre nel ristorante adiacente si festeggia un matrimonio. La musica  mi lascia dormire bene solo dopo le 3 del mattino.

QUARTO-GIORNO–3-agosto-2008
Anche in questa tappa non ho voluto partire presto per non accumulare troppa stanchezza, in quanto il primo giorno di riposo è previsto a Sofia l’8 agosto. Parto con calma  verso le 9 per una tappa tutta pianeggiante che mi avrebbe portato in Serbia a Novi Sad. Qui, nel sud della Croazia, più mi avvicino al Danubio, che vedrò a Vucovar, più gli appezzamenti di mais, soia, girasoli, barbabietole e frumento già raccolto si estendono a perdita d’occhio, e si vedono grosse aziende agricole con allevamenti di bestiame, mi accorgo di pedalare su una bicicletta solo quando prendo delle grosse buche sull’asfalto.
Non riesco a tenere ferma la mia curiosità e mi intrufolo in un’azienda agricola nel cui cortile ci sono grossi macchinari per la lavorazione del terreno. Mentre faccio velocemente un po’ di foto si avvicina il proprietario, penso, il quale mi ha fatto capire che me ne devo andare. Io con aria ingenua gli dico che sono un turista e pian piano esco dall’azienda soddisfatto, per aver visto con quali attrezzature lavorano i campi, sentendomi in quel momento una spia che sta affrontando una missione segreta.
Arrivo a Vucovar verso l’una di pomeriggio e la giornata si oscura non per le nuvole in cielo, ma bensì per le nubi di guerra: sono passati più di 15 anni dalla fine della guerra e i segni delle cannonate sulle case, sui palazzi, sull’acquedotto, sui silos di cereali vicino al fiume non sono spariti, ed inoltre alcune case, anzi la maggioranza, sono nuove o risistemate con stuccature a seguito dei colpi delle mitragliatrici. Faccio un po’ di foto e mi avvio verso il cimitero fuori dal paese, in cui la metà o forse più delle tombe contengono morti a causa della guerra, e risultano infatti deceduti tra il settembre e il novembre nel 1991.
Lungo la strada verso il confine con la Serbia sono così distratto dalla meravigliosa campagna e dai fitti boschi che…sbaglio strada, cosa in bici non consigliabile, e poi nelle mie condizioni ancora meno, perché i km sono ancora tanti per arrivare a Istanbul e il tempo è poco.
Arrivo a Tovarnik, dove mi rendo conto di avere fatto un ventina di km in più; vedo una pattuglia di poliziotti fermi lungo la strada e chiedo loro informazioni per arrivare a Novi Sad. Uno di loro incomincia a spiegarmi che sarebbe stato meglio tornare indietro perché, proseguendo su questa strada, avrei dovuto entrare in Serbia, rientrare in Croazia e poi nuovamente in Serbia, e tutto questo scalando un collina prima del confine con la Croazia. In realtà così decido di fare, nonostante i gentilissimi poliziotti me lo abbiano sconsigliato per la salita impegnativa.
Risolto il problema di quale strada prendere, un poliziotto mi chiede da dove vengo, dove sono diretto, con una domanda dopo l’altra, fino a che li ho salutati e ringraziati della loro disponibilità e cortesia, poiché il tempo è tiranno.
Raggiungo il primo confine ed entro il Serbia e qui la lontananza dei paesi dal confine e il numero elevato di militari al confine mi hanno confermato che tra i due stati non c’è tanta armonia. La prima cosa che vedo entrando in Serbia è una discarica che sta bruciando; pochi chilometri più in là c’è Sid, un grosso paese in cui un gruppo di ragazzini senza alcun timore, ridendo, mi ronza intorno dandomi delle occhiate come a voler dire “ma dove sta andando questo individuo?”, e si allontanano. Questo fatto mi ha un po’ ricordato quando sono passato, anni fa, in bici per Platì, paese della Calabria chiuso in mezzo alle montagne dell’Aspromonte, dove dei ragazzini avevano gli stessi atteggiamenti di sfida.
Arrivo al confine Croato su una collina e poi giù verso Ilok, attraverso cui ritorno in Serbia, però questa volta attraversando il Danubio; seguo quindi la strada verso Novi Sad, e qui vedo le campagne un po’ trascurate, e percorrendo i paesi questi campi mi danno la sensazione di degrado. Entro in città costeggiando il Danubio, vedo le rive affollate da famiglie e da giovani intenti a prendere il sole. Trovo in centro un hotel non molto costoso e pernotto..

QUINTO-GIORNO–4-agosto-2008
Partito alle ore 9 con l’obiettivo di arrivare a Smeredevo passando per Belgrado, la prima cosa che incontro uscito dalla città è una bella salita, accompagnata da un sole cocente. Arrivato in vetta mi fermo in un piccolo chiosco di frutta e verdura, chiedo alla venditrice, bellissima, se mi potevo sedere all’interno per mangiare un’anguria  e lei gentilmente acconsente, dandomi un coltello per tagliarla.
Incomincio a tagliare le due estremità per poi aprirla a metà, quando lei mi ferma, pensando che l’avrei tagliata come si taglia un salame. Senza dire niente, un po’ divertito, ho lasciato che la tagliasse ringraziandola. Riparto dissetato e rimineralizzato e raggiungo Belgrado su una strada stretta, piena di buche, dove le auto ti sfrecciano accanto a 200 orari (un po’ meno). Entro in città accorgendomi che se mettessero un apparecchio per rilevare lo smog prodotto dalle auto e soprattutto dai camion, lo strumento salterebbe per aria, tanto ce n’è. Quindi, mentre mi fermo casualmente davanti all’ambasciata americana, per vedere sui miei appunti cosa c’è da vedere qui, dei poliziotti serbi con fare minaccioso mi invitano a fare i miei comodi da un’altra parte. Allora mi dirigo verso il fiume e cerco di capire se è possibile raggiungere Smeredevo costeggiando il corso d’acqua: non lo avessi mai fatto! La cartina non segna nessuna strada, ma io testardamente scalo due colline che costeggiano il fiume e arrivo su una strada senza uscita e ad un certo punto le gambe non girano più.
Quindi torno indietro per la stessa strada e rientro in città.
Mi fermo presso un’edicola e cerco di chiarirmi le idee, bevendo una Coca Cola. Mi siedo accanto a un vecchietto che sta fumando in compagnia di altre persone e gli faccio vedere la mia cartina indicando Smeredevo all’uomo, che mi mostra la strada indicandomi di passare prima per Grocka e poi facendomi con la mano il saluto romano, non per appartenenza ad uno schieramento politico, ma per la lunga salita da fare che mi aspettava.
Non mi sono perso d’animo: finisco velocemente di bere e via. Su, su, e ancora su, poi giù poi ancora su, su…….fino a quando all’imbrunire dopo Grocka ho visto il Danubio dall’alto di una collina, e mi accorgo come la grandezza del fiume faccia apparire piccole le imbarcazioni che vi navigano.
Arrivo a destinazione alle 21:30, trovo un Hotel a 2 km dal centro, naturalmente tutti in salita, mangio 2 panini e bevo 2 birre da mezzo litro, elaboro il piano d’attacco per il giorno dopo e poi mi addormento senza caricare la sveglia. Sia a Smeredevo che a Novi Sad in albergo ci sono solo persone giunte lì per affari, non capivo di che genere, ma non mi ispiravano tanta fiducia, tedeschi, spagnoli, francesi, a Novi Sad la mattina mentre facevo colazione in Hotel ero terribilmente disturbato da, penso, un serbo in giacca e cravatta, che parlava ad alta voce al telefonino come se fossimo nel suo ufficio. Non ho mai parlato con loro ma dagli sguardi che mi davano vedendomi arrivare in bicicletta ero solo un ostacolo sulla strada per loro, magari mi sbaglio.

SESTO-GIORNO–5-agosto-2008
Tappa numero 6. E’ duro partire, sapendo di dover fare più di 200 km non di pianura, ma devo stringere i denti: ancora 2 giorni e poi avrò la meritata giornata di pausa a Sofia.
Attraverso in questa giornata la parte d’Europa più povera e degradata, pur senza mancare di rispetto a questa gente, sperando anzi di sbagliarmi.
Non ho molto da raccontare su questa tappa che mi porterà a Nis nella parte sud della Serbia, ad eccezione di due poliziotti fermi lungo la strada per dei controlli, che  mi fanno cenno di accostare: non sono i classici uomini in divisa tutti d’un pezzo; uno di loro aveva il berretto storto e la camicia non proprio in ordine ed entrambi mi chiedono in un approssimativo inglese dove sto andando all’una di pomeriggio con questo caldo. Io spiego loro del mio viaggio, facendo vedere la cartina; loro sembrano sbalorditi, mi scrivono sulla cartina a penna quanti km mancano a Nis, li saluto e me ne vado. Sarà stato un caso, ma i poliziotti che ho incontrato in precedenza a Tavarnik in Croazia mi erano sembrati più professionali, un particolare di tanti che li hanno differenziati, a scrivermi delle informazioni si sono rifiutati di farlo sulla mia cartina, hanno tirato fuori dal taschino della divisa un block-notice, per paura di rovinarmi la cartina.
Ai bordi delle strade trovo tante piccole discariche a cielo aperto e più mi avvicino a Nis  più queste discariche aumentano di grandezza.
Entrando nella città di Nis mi fermo al primo Hotel, contratto un po’ il prezzo con il giovanotto della ricezione, ci accordiamo, prendo la borsa e chiedo dove mettere la bici, al che il giovane mi  risponde con fare molto leggero che potevo parcheggiarla vicino alle auto. Quindi io, per fargli capire l’importanza della mia Merida, gli dico che questa è la mia girlfriend, allora lui fa cenno con la testa di aver capito e mi risponde: “no problem in this parking”. Quindi vado in camera, mi rianimo e scendo per cenare quando il giovanotto mi ferma e mi dice che ha riposto la mia fidanzata in una stanza vicino alla ricezione chiusa a chiave, al che io gli rispondo: “Bene!”, avendo lo stesso  capito che in caso di furto della bici avrei scatenato l’inferno (-scherzo!).
Bella città Nis bel centro storico, molto animata, il fiume Nisana la attraversa, ci sono le rovine di una fortezza che fa da sfondo ad una festa paesana.

SETTIMO GIORNO–6-agosto-2008
La prima cosa che faccio in questa mattinata è procurarmi un po’ d’olio per la catena, poiché è da due giorni che cigola. Mi fermo davanti a un negozio di bici, e lì trovo un ragazzo che mi dà una bomboletta spray lubrificante, vede la mia bici  Merida e mi fa i complimenti perché è una bella  bicicletta.
Questa tappa mi porterà a Sofia in Bulgaria, un paese a me sconosciuto. Guardando la cartina in passato ho cercato di immaginarmelo, ma non entrava nella mia testa; ho comunque con me un libro sulla Bulgaria acquistato a casa, da utilizzare a Sofia.
Uscito da Nis la strada incomincia a salire seguendo il fiume Nisana, mi incuneo tra le montagne che formano un canyon, i camion non corrono, ma sfrecciano e fanno paura, e di fianco c’è anche la ferrovia: il paesaggio è meraviglioso.
Ci sono tratti di strada in cui bisogna stare attenti alle buche, poiché la mia girlfriend potrebbe farsi male. Sono nell’estremo sud della Serbia e sono circondato da colline non molto ospitali per viverci. Lungo la strada ci sono tante officine chiamate Servis e a pochi km dal confine intravedo dalla strada un paese chiuso tra le montagne, sembra abbandonato da Dio per il degrado, tanto che mi pento di non essere entrato in centro, ma non posso visitare tutto.
Arrivo finalmente al confine dove ci sono colonne di auto ferme per controlli, io le supero pian piano quando un……….. mi apre lo sportello mentre passo, urto con il braccio la portiera e per causa sua cado, mi alzo in piedi, lui esce dalla macchina e con le mani alzate si scusa, lo avrei mangiato in un sol boccone, poi, visto che stavo bene, gli concedo l’assoluzione.
Prendo il passaporto per esibirlo, quando mi trovo davanti una poliziotta che incute paura solo a guardarla (ah benon-penso- qua non se passa!); la stessa mi dà una occhiata da testa a piedi, guarda scrupolosamente il passaporto e dopo alcuni minuti mi lascia passare (ma va a quel…..).
Tanto verde in Bulgaria, almeno per i primi 20 km, boschi fitti di vegetazione, poi il panorama si apre in un altopiano ondulato. Fino a Sofia i campi sono coltivati a frumento e girasoli, ancora da raccogliere. Se devo essere sincero qui non avrei mai fatto l’agricoltore, dati i terreni aridi e pieni di pietre, solo con qualche mucca che vi pascola. L’acqua da queste parti non si vede neanche con il binocolo: ho letto che ci sono scarse precipitazioni tutto l’anno. In questa parte della Bulgaria c’è un clima di tipo continentale caldo d’estate e rigido d’inverno.
Arrivato a Sofia prendo alloggio in un condominio vecchio e puzzolente, per 60 euro a notte. L’albergo è il più economico e mi adatto. La signora della reception è non molto cortese e mi adatto. La stanza ……, e mi adatto. Accendo l’aria condizionata, esce un puzza che avrebbe fatto ribaltare un morto sulla bara…..MI ADATTO!!
Sono talmente stanco che la notte dormo profondamente.

OTTAVO-GIORNO–7-agosto-2008
Giornata di pausa. Mi alzo, passeggio, faccio colazione nell’albergo in cui ho dormito -era inclusa nel prezzo e la ricorderò per tutta la vita: DA VOMITARE!
Visito la città al rallentatore. Entro in due chiese ortodosse, assisto anche a una messa in mattinata, faccio un giro per vedere i palazzi presidenziali e tra uno spuntino e l’altro la sera recupero tutte, o quasi, le forze. Sofia non mi entusiasma molto, sarà la stagione, ma di gioventù ne vedo poca. Sto bene quando vado nei parchi a leggere un libro, almeno lì c’è un po’ di verde, anche se i gruppi di vecchi che mi circondano sulle panchine mi danno una tale carica  emotiva ……. Sono indeciso su come proseguire il viaggio, sapendo che il panorama non sarebbe comunque cambiato proseguendo per Plovdiv, Edirne, Corfù, dato che a casa avevo letto degli appunti di viaggio di cicloturisti italiani che in passato avevano percorso queste strade. Mi piacerebbe vedere il monastero di Rila: le guide scrivono che è il più grande e meglio conservato della Bulgaria, incastonato sulle montagne più alte del paese. Sono un po’ combattuto, perché voglio anche vedere la parte nord della Grecia, in quanto l’anno scorso ho girato il Peloponneso e mi interessa un confronto.
Rila è sulla strada, ma dovrei allungare il mio giro di circa 300 km e rinunciare a un giorno di riposo. Penso e ripenso, calcolo e ricalcolo, mi decido e porto i Balcani a fare un bagno in Grecia nel mar Egeo.

NONO-GIORNO–8-agosto-2008
Dopo avere passato una notte terribile per il caldo e per la raccolta del vetro nelle strade sottostanti all’albergo, essendo la mia stanza al quinto piano, sento aprirsi i cassonetti di mezza città, non ho avuto il coraggio di chiudere la finestra e accendere il climatizzatore.
Alle cinque sono in piedi, mezz’ora dopo in sella verso Rila senza avere fatto colazione. La strada che mi porta fuori dalla capitale bulgara è un incubo, per le buche e per il traffico, devo fare una trentina di km per respirare un po’ d’aria sana in campagna, quindi seguo le indicazioni per il monastero e imbocco una strada in salita.
Il cartello scrive “monastero di Rila 31km”, una bella scalata da fare. Su questa salita, che avrei ridisceso in quanto la strada finisce al monastero, mi sono disintossicato, essendo avvolto da una fitta vegetazione, dal profumo di fiori e fieno appena tagliato, da ristoranti e alberghi invitanti.
Se avessi deciso di fare il giorno di riposo qui, ci sarei rimasto una settimana (Scherzo!).
Arrivo al monastero, meraviglioso, curatissimo, il parcheggio pieno di comitive di turisti, quasi tutti bulgari. Faccio delle foto e all’uscita chiedo informazioni su che strada seguire per andare in Grecia a una guardia forestale di corporatura robusta, lui capisce che sono italiano e chiama ad alta voce un suo collega, a poche decine di metri, che parla la mia lingua: è stata così possente la sua chiamata che si è girata verso di noi tutta la gente trovatasi nel parcheggio. Mi indicano di non seguire la strada principale in quanto trafficata, ma di seguirne una tranquilla persa in mezzo alle montagne, dove avrei  faticato per le salite ma avrei visto una parte della Bulgaria  molto particolare. Contento per le preziose informazioni, li saluto e mi dirigo velocemente giù per la vallata, quando sento, dopo avere preso un buca ad alta velocità, che un raggio della ruota posteriore si rompe. Non è il primo: in Serbia ne avevo già rotto un altro, ma allora ho potuto continuare, mentre adesso la ruota ondula troppo e devo quindi cercare un meccanico che me la ripari. Lo trovo a Blagoevgrad, piccola cittadina a 50km da Rila, indicatomi da un taxista del posto che sa qualche parola in italiano, che mi dice di seguirlo e mi conduce in una casetta di legno (4metri x 2) circondata da biciclette disposte in modo caotico, una piccola officina, sembrava quella di Barbie. Ho spiegato al meccanico il problema, lui toglie la ruota, sale su una bici e me la porta non so dove, poi ritorna senza la ruota e mi dice ok, devo aspettare non so chi, che me l’avrebbe aggiustata. Intanto che aspetto faccio amicizia col taxista e altre persone che erano lì in quel momento. Uno di loro, che mastica un po’ di inglese, mi domanda  dove sono diretto, gli racconto che sono venuto in bici da Venezia, tolgo il contachilometri dalla bici e faccio vedere a tutti i km che avevo percorso fino a qui, e un signore, appena vede scritto 1460 km circa, incomincia ad agitarsi da quanto era sbalordito, e intanto le persone attorno aumentano: sono diventato una attrazione. Rimango lì mezz’ora a parlare con loro, sarei rimasto tutto il pomeriggio, e intanto il meccanico va via ancora in bici e ritorna con la mia ruota riparata, la monta e mi domanda 4 euro per il servizio. Voglio offrire una bevuta in qualche locale del posto ai presenti ma il tassista  mi fa capire che non c’è bisogno. Ringrazio tutti i miei nuovi amici bulgari per la loro disponibilità nei miei confronti e me ne vado.
Sono nella statale che porta dritta in Grecia, che avrei lasciato 20km più avanti. Arrivo a Simitli, dove pernotto in un hotel.

DECIMO-GIORNO–9-agosto-2008
In questa tappa trovo l’unico tratto di strada pianeggiante quando arrivo in vetta alla salita. Di notte c’era stato un forte temporale che aveva reso l’aria frescolina, quasi fredda. In mattinata arrivo a Razlog, dopo una salita di una ventina di km, e qui devo fare attenzione, perché devo trovare il bivio che mi deve portare a Bansko, e poi verso il confine bulgaro–greco. Nella incertezza mi fermo sempre a chiedere alla gente, sempre molto disponibile. Passo per il centro di Bansko, località sciistica bulgara molto frequentata, in cui  stanno costruendo una miriade di condomini e alberghi: mai avrei pensato che in queste montagne si potesse sciare (non sapevo neanche che ci fossero montagne così alte).
Le vallate sono molto ampie con un continuo saliscendi; per le strade il caldo nel pomeriggio comincia a farsi sentire, ma soprattutto diventa fastidioso il vento, che soffia contrario. Nei paesi lungo la strada ogni famiglia ha una piccola serra davanti casa, nella quale  mettono ad essiccare le foglie di tabacco raccolte nei campi limitrofi. Ogni tanto incrocio dei giovani zingari a bordo di carretti trainati da muli; mi fermo mentre vengono verso di me e li fotografo: loro a loro volta si fermano, contenti di essere fotografati, e mi fanno segno con le mani se ho soldi ed io faccio finta di non capire. Una ragazzina scende dal carro e mi gira intorno, come volesse rubarmi qualcosa dalla borsa, al che le do un’occhiataccia, saluto tutti e me vado.
Mentre mi avvicino al confine non vedo mai cartelli che segnalino la Grecia, indicando gli stessi solo Drama, città greca a 30 km dal confine. Anche qui non corre buon sangue tra i paesi confinanti. A qualche km dal confine la strada si fa in salita, con il vento sempre contrario, più forte e caldo; lungo la strada si trovano delle comunità di zingari, emarginati in queste zone di confine, con qualche capo di bestiame, e ci sono delle donne che cercano di accendere il fuoco.
In quel momento arriva un furgone sgangherato da cui scende un uomo con una piccola anguria in mano e subito i bambini circondandolo gli fanno festa: dalle mie parti gli zingari stanno molto, molto meglio. Non vedo bella gente che gira in auto, ma non mi preoccupo più di tanto. In ogni caso c’è un via vai di macchine continuo.
Arrivo al confine, all’ennesimo confine, ormai ho perso il conto. Entro nella Comunità Europea, non devo più cambiare la valuta: tra cune, dinari, lira bulgara, ero sempre a far conteggi per rapportare la moneta locale con l’euro. Mi dirigo verso Drama, scalo l’ennesima montagna, e questa è stata veramente dura  per la pendenza, col vento (sarà una costante) sempre contrario, sempre contrario, sempre contrario, e col caldo, e con le montagne che mi circondano, che progressivamente si spogliano di vegetazione ed appaiono come degli enormi panettoni. Finalmente una discesa per una decina di km. Arrivo in pianura, i paesi si fanno belli, con splendidi giardini davanti alle case, mentre i capannoni delle zone industriali sembrano villaggi turistici con le facciate in roccia o porfido e con verdissimi giardini antistanti. Senza offesa per Croazia, Serbia e Bulgaria mi sembra di essere entrato a Gardaland, però nel Peloponneso che avevo visitato lo scorso anno non avevo visto un tenore di vita come qui. Mi sono dimenticato di dire che i campi sono tutti coltivati a mais, irrigato continuamente: se qui si fermano a dar acqua alle colture, queste si seccano in una settimana, tanto è il caldo e tanto il clima è asciutto.
Mancano ancora tre tappe e poi due giorni per visitare Istanbul e riposarmi, sono quasi stremato dalla fatica, incomincio a sentire dolore alle ginocchia. Specie la mattina, ma non mollo, anzi!

UNDICESIMO-GIORNO–10-agosto-2008
Ma non mollo, anzi! In questa tappa percorrerò 209 km da Drama a Alexandroupoli, il giorno più impegnativo. Lascio Drama e mi immetto sulla statale deserta, è domenica mattina, quando mi affianca una volante della polizia, abbassa il finestrino in corsa  e mi chiede la mia provenienza: “Venice” rispondo, rimanendo anche loro meravigliati. Lungo la strada tanti insediamenti archeologici. Raggiungo Kavala, una piccola Montecarlo sul mare, dopo avere scalato l’ennesima collina: da queste parti non c’è il mare che di solito contraddistingue la Grecia, il Peloponneso sarà stato più povero, ma quanto a mare vince il Peloponneso 10 a 0. Il tempo minaccia pioggia, ma non a breve. Mi dirigo verso Xanthi e dietro di me si incominciano a sentire i primi tuoni, il vento è girato finalmente a favore ma durerà poco. Sono costretto a fermarmi in una taverna, e visto che è mezzogiorno pranzo, è  la prima volta. Per mezz’ora buona i secchi del cielo si rovesciano. Mangio un’insalata greca, una braciola e patatine fritte. Dopo un’ora, passato il temporale, mi rimetto in cammino, ma non mi sento molto bene, la temperatura era calata di 10 gradi, il pranzo mi è rimasto sullo stomaco, comunque vado avanti. A Komotini incomincio a vedere in lontananza dei minareti, non sapevo che in Grecia ci fossero delle comunità islamiche con le proprie moschee. Sul paese di Aratos passo su una strada in cui da una parte c’è il cimitero ortodosso curato con fiori sulle tombe, e dall’altra un cimitero islamico per niente curato con l’erba incolta, che fa appena intravedere le lapidi. Vedo sulla cartina che per raggiungere Alexandroupoli bisogna attraversare un’altra montagna. Le forze mi stanno abbandonando, ma facendo ogni ora una pausa e andando piano, arrivo in cima al passo. Su queste montagne ci sono greggi di pecore con pastori e cani a seguito. Ogni tanto sbuca un cane che si avvicina con fare minaccioso, richiamato subito con un fischio dal padrone. Ho il terrore dei cani: in questo momento ne vedo tanti per le strade, e non sempre c’è il padrone. Finalmente arrivo in cima alla salita  e vedo dentro una casa recintata con il cancello aperto due enormi cani, che appena mi vedono incominciano a rincorrermi. Scalo i rapporti della bici e  pedalo con il cuore in gola e per fortuna c’è un tratto di discesa, guardo il cardio-frequenzimetro che ho sulla bici e lo stesso segnala 180 battiti a minuto. E’ la seconda volta in questo giorno che i cani mi rincorrono, tanto che per sicurezza lungo la strada sono andato in cerca di un bastone che non ho trovato. Finalmente arrivo a Alexandroupoli, stremato, e mi fermo in un campeggio, non riuscendo neanche a comunicare in inglese con la signorina della ricezione tanto sono sfinito. Comunque piazzo la tenda e quando mi tolgo la maglietta per farmi la doccia sento brividi in tutto il corpo, ho la febbre. Faccio la doccia velocemente e senza cenare vado a dormire e non riuscendo a riscaldarmi mi vesto con tutte le maglie che ho, mettendomi perfino calzini e scarpe. Quando incomincio a riscaldarmi un violento temporale si abbatte sul campeggio, mi entra acqua da tutte le parti, ma per fortuna è durato poco.

DODICESIMO-GIORNO–11-agosto-2008
Visiterò Istanbul un solo giorno. Sono costretto a fermarmi un giorno in questo campeggio per recuperare le forze per il rush finale, nella mattinata non so neanche dove sono, a mezzogiorno mangiando forzatamente qualcosa il cervello si è connesso al resto del  corpo, nel pomeriggio ho fatto anche una nuotata in mare nella massima rilassatezza. Nel campeggio c’è una famiglia di italiani, avevo voglia di fare quattro chiacchiere con loro, ma ci ho rinunciato: il padre, ammiraglio in capo, in spiaggia dà ordini alla famiglia stando seduto sulla sdraio con la madre sempre premurosa nei suoi confronti, e con i due figli, di 4 e 6 anni circa, che devono fare sempre quello che il padre loro dice, ed alla lettera: guai se litigano, egli manda la madre a sgridarli, mentre lui dice solo “UNO !!”, per intimorirli, ed io non ho capito cosa significasse.
Quella sera l’ultima cosa che ho sentito prima di addormentarmi verso le 22 e 30 è stata: “UNO!!”.

TREDICESIMO-GIORNO–12-agosto-2008
Undicesima tappa, un’altra strapazzata di 176 Km con arrivo in Turchia a Tekirdag.
Spero anche oggi di avere il vento che mi soffi in faccia, bello, forte, per rallentare la corsa perché ho paura, col vento favorevole, di essere troppo veloce. Ho ringraziato la buona sorte quando sono salito in bici, perché il vento non è solo contrario e forte, ma anche a raffiche.
Da Alexandroupoli fino al confine con la Turchia non ho visto moschee, non capendo il perché essendo convinto del contrario. I campi sono coltivati a cotone e il frumento o avena è già raccolto. Imbocco una autostrada deserta che mi porta al confine, in lontananza vedo una enorme bandiera sventolare, avvicinandomi vedo che è rossa con una stella e una mezza luna bianca: sono quasi arrivato.
Un fiume divide in questo punto la Grecia dalla Turchia, passo i controlli dei militari greci, attraverso il ponte e vedo che i soldati delle due nazioni sono numerosi, tanto che penso ci sia una festa (scherzo!), quando incrocio il primo militare turco, lo saluto, lui mi risponde col saluto militare.
Mi fermo allo sportello della barriera doganale con il passaporto in mano e i doganieri senza vederlo mi mandano avanti; ne passo un altro, ancora uno, e arrivato all’ultimo mostro il documento e il giovane militare sorridendo mi chiede da dove vengo in bicicletta, e io gli faccio cenno di guardare sul passaporto e lui esclama: “VENICE!”.  Mi ha chiesto che lavoro faccio e chi me lo ha fatto fare di venire fino a qui in bici, e mentre si chiacchiera, egli divertito riferisce ai suoi colleghi  la mia provenienza. Quando gli ho detto che a casa lavoro in un’azienda agricola, mi ha detto di non credere che un contadino potesse mettersi in viaggio lasciando incustoditi i propri campi, essendo anche suo padre un agricoltore. Nel pomeriggio ho capito perché erano cosi interessati e divertiti. Prima di lasciarmi andare mi salutano calorosamente.
La prima cosa che vedo entrando in Turchia è una distesa di terreno coltivata a riso per km, verdissima, piena di aziende agricole con fabbricati nuovi e macchinari per la lavorazione della terra moderni, e questo tanto per iniziare mi ha stupito non poco, la mia ignoranza avendomi portato ad immaginare in precedenza la Turchia come un paese del terzo mondo.
Percorro una strada larghissima e trafficata: non ci sono più i campi a riso perché sono arrivate le colline, che in Turchia sono sacre, e non si possono scavare per costruire tunnel. La strada qui va sempre dritta o quasi e segue tutte le inclinazioni delle colline, che vengono smussate solo in vetta per evitare ai veicoli l’over jump.
Comunque sia avevo già capito alla frontiera che oggi è un giorno di festa, e infatti sono invaso dai clacson e specie i camionisti, appena mi vedono a cavallo della mia Merida, mi salutano, non con un colpetto, bensì attaccandosi al clacson. Li saluto tutti con il braccio, tanto che la sera non sono più riuscito ad alzarlo. Vedo moschee e minareti da tutte le parti. Mi fermo nel negozio di un distributore di benzina per mangiare qualcosa, quando vedo passare un cicloturista con andatura non elevata, mi sembra un vichingo, con barba e capelli lunghi, che pedala come un forsennato. Mangio tranquillo, intanto lo avrei ripreso più tardi.. Così è stato, 4-5 km più avanti lo raggiungo a metà di una salita mentre lui è fermo, attaccato ad una bottiglia di succo che stava bevendo. Si chiama Geo, svizzero di Langethal, parla bene l’italiano e mi racconta che era partito da casa a metà giugno, aveva percorso in lungo e largo le Alpi e poi proseguito lungo la costa croata, ed attraversato Albania, Macedonia, Grecia. Anche lui,diretto a Istanbul, deve fermasi in campeggio a Tekirdag, per la notte, con Corrado, un altro cicloturista da Modena, conosciuto due giorni prima in Grecia. Corrado era giunto fino ad Ancona in treno poi si era imbarcato e raggiunto Igomenizza in Grecia e da li fatto tutta la parte settentrionale  fino a incontrare Geo non mi ricordo dove.
Ci siamo dati appuntamento nel primo campeggio della città e ognuno ha proseguito con la propria andatura.
Nei paesi che attraverso, sulle colline, ci sono  complessi di condomini in costruzione, tutti con attigua moschea di cui richiamavano i colori e lo stile.
Mi fermo lungo la strada per fotografare un vecchia stalla con delle mucche all’esterno e una moschea con minareto sullo sfondo, quando, dalla parte opposta della strada un signore, cinquantenne, mi indica di raggiungerlo. Lì per lì mi sembra fosse seccato che facessi delle foto, e gli dico “turist, foto”, ma lui insiste, fa segno con le mani di lasciare lì dov’ero la bici, e di attraversare. Al momento sono titubante, pensando che forse è vietato fare delle foto a monumenti sacri, e che questo me ne dirà quattro in turco.
Alla fine ho attraversato e l’ho raggiunto, stando attento ai camion e auto che saettano per la strada, mandando al diavolo tutte le stupide supposizioni che mi sono girate in testa. Chi mi ritrovo davanti? Un collega che vuole farmi vedere la sua azienda agricola. Arrivato nel cortile della sua casa gli ho detto di essere italiano, lui mi risponde “Berlusconi”, mi  fa cenno di andare verso il capannone lì vicino e lo apre, e dentro vedo in un angolo un ammasso di frumento da una parte e dall’altra delle balle di paglia ben accatastata, con  in mezzo due trattori con dell’attrezzatura. Sempre a cenni, poiché il contadino turco non sa una parola di inglese, gli ho fatto capire che anche io faccio il suo stesso lavoro: a quel punto mi invita a sedermi fuori casa sotto il porticato ed entrato in casa ne esce con mezza anguria, una manna dal cielo, fresca, dolce, buonissima.
Aspetta che io finisca l’anguria e mi porta ancora nel capannone. Comunichiamo armati di carta e penna, a disegni. Io disegno le colture che semino a casa e scrivo la marca delle attrezzature che utilizzo, e lui mi scrive il numero degli ettari che coltiva e le produzioni che in questa annata ha prodotto. Quindi mi fa vedere i concimi, i trattamenti e i diserbi che usa per le colture, più o meno simili a quelli che uso anch’io e alla fine mi fa segno, sfregando le dita della mano quanti soldi prendo al quintale delle colture che semino in Italia: tra agricoltori i discorsi muoiono sempre qua.
Assuk, così se non ricordo male si chiamava, mi vuole offrire da bere al bar lì vicino. Io rifiuto, perché si sta facendo tardi e devo cenare in serata con i due nuovi amici. In qualche modo gli spiego che devo andare verso Istanbul, lui capisce che ho fretta, ci siamo stretti la mano come due vecchi amici, mi ha dato tre mele e un pomodoro e quindi io me ne sono andato. Attraverso la strada, vado avanti 100 metri, mi giro, lui mi saluta ancora.
Nel mio immaginario in passato ero un po’ titubante circa l’accoglienza dei turchi, perché  li vedevo distanti anni luce da noi, anche se ho sempre letto che la Turchia è il paese musulmano più vicino all’occidente.
Infatti 2 mesi circa prima della mia partenza, uno spiacevole episodio era successo a Istanbul: una ragazza italiana, che voleva portare i valori dell’amore per il mondo vestita da sposa, era stata barbaramente uccisa e violentata.
Inoltre una settimana prima della mia partenza un attentato dinamitardo aveva provocato 17 vittime e 150 feriti nella periferia di Istanbul.
Se avessi dovuto ascoltare tutto quello che è stato detto e scritto non sarei mai partito per quella che tanti chiamano avventura, ed io invece chiamo vacanza esplorativa.
La sera, dopo avere risalito e ridisceso in linea retta una cinquantina di colline, arrivo al campeggio di Tekirdag. La prima cosa che l’uomo della ricezione mi ha detto dopo avere sentito che ero italiano, è stata “ Berlusconi” ed io sono rimasto seccato di sentire per la seconda volta in un giorno che l’Italia qui è conosciuta principalmente per questo.
Dopo un’ora arrivano lo svizzero e il modenese, ceniamo insieme e a letto presto, domani il grande giorno, arrivo a Istanbul.
Ci siamo messi d’accordo sulla partenza, con lo scopo di arrivare insieme, Geo partirà per primo perché più lento, alle cinque, Corrado alle 6 e mezza ed io alle 7 e mezza.

QUATTORDICESIMO-GIORNO–13-agosto-2008
Mi alzo alle sette, gli altri due sono già partiti, faccio con calma le mie cose, ma non troppo, perché voglio essere sicuro di prenderli prima di arrivare a Istanbul (non voglio arrivare ultimo). Anche  oggi il vento è fastidioso e le bandiere, numerosissime, sono belle e sventolanti, le colline coltivate sempre a frumento con girasoli prossimi alla raccolta. Lungo la strada sono numerosi i venditori di frutta e verdura, non sempre fresca, e più passano i km, più i paesi si fanno grandi e diventano affollati da complessi di condomini nuovi di zecca, le moschee hanno due minareti, le auto e i camion suonano meno il clacson rispetto al giorno prima, probabilmente sarà la vicinanza a Istanbul. Ogni volta che affronto la salita di una collina mi faccio coraggio, perché dopo c’è la discesa e mi sarei riposato, anche se poi in realtà non era così, poiché dovevo pedalare ancora, talmente forte poi era il vento contrario.
Le mie ginocchia vogliono una vacanza, ho il copertone posteriore messo in modo tale che si vedono le tele, avendo superato i 2100 km: il meccanico che mi aveva venduto i copertoni aveva detto che dovevano arrivare a 3000 km.
Verso l’una di pomeriggio entro nella periferia della città, trafficatissima; per fortuna c’è quasi sempre uno spazio sul lato della strada per le bici, e ad un certo punto trovo in una discesa Corrado, ma nessuna traccia di Geo, aveva fatto i conti  alla partenza per arrivare prima di noi.
Abbiamo percorso una quarantina di km su una autostrada per arrivare sulla zona dove c’era la famosa moschea blu, nostro punto di arrivo. Ci siamo persi, è destino che ognuno deve arrivare da solo, così  come era partito.
Quando mi trovo, verso le tre del pomeriggio, la moschea blu davanti agli occhi, quasi non ci credo: uno splendido giardino decorato da fiori l’adorna, sono un po’ in confusione, i turisti che mi vedono mi chiedono incuriositi da dove arrivo, un tedesco mi stringe la mano e mi dice che il viaggio che ho fatto per lui è un sogno da realizzare.
Mando messaggi ad alcuni amici col telefonino per riferire del mio arrivo, mi metto in contatto con i miei nuovi  compagni di viaggio dando loro appuntamento davanti alla moschea in serata  per cenare assieme.
Trovo in un hotel uno stanzino dove dormire; di interessante aveva il prezzo, 13 euro la notte con prima colazione e l’accesso tramite computer ad internet.
Verso le nove di sera mentre aspetto Geo e Corrado per cenare, seduto su una panchina pensando ai 2150 km percorsi, mi sono messo a piangere, tanta era la tensione che in quel momento stavo scaricando, chiudendo gli occhi mi corrono le immagini dei boschi lungo la Sava, le campagne croate, i buchi nelle case a Vucovar, il Danubio, il caldo, il vento, le cicogne, i falchetti, le poiane, le donnole che mi attraversavano davanti, le volpi morte sul ciglio della strada, le tante salite, il temporale e i cani che mi rincorrevano inferociti in Grecia, le tante persone che ho incontrato e che mi hanno aiutato, le strade che ho sbagliato, la Coca Cola, la Fanta, la Sprite, e il fiume d’acqua che bevevo dalle fontane e soprattutto la fatica, che è stata la mia compagna più fedele, non mi ha mai abbandonato,sempre pronta a ricordarti che se vuoi vedere qualcosa devi pedalare: non è stata la solita vacanza, è stata una iniezione  di vita.
Ho aperto gli occhi, mi sono aggiustato un po’… magari arrivano gli altri e pensano che mi manchi la mamma.
Ci siamo seduti a tavola in un ristorante all’aperto, e……kebab in tutte le salse, mentre mangiamo nessuno parla della vita privata, tutti essendo intenti a raccontare le giornate trascorse in bici, il vento, le salite, le belle ragazze, sempre a ridere anche senza motivo, ubriachi di km, di tanti km.

QUINDICESIMO-GIORNO–14-agosto-2008
Giornata dedicata a Istanbul, ho visitato il Topkapi  e la chiesa di Santa Sofia e ho girovagato nelle vie della città, praticamente lo 0,5 % delle strade, talmente estesa è la città. Leggo che sono 13 milioni gli abitanti tra residenti e abusivi; negli ultimi decenni c’è stato una spostamento della popolazione dalle campagne alla città dove le opportunità di lavoro sono maggiori  e di conseguenza si è originato uno sviluppo edilizio spropositato.
Tra la stanchezza e il pensiero che domani dovrò rientrare in patria, ho potuto fare poche cose: devo smontare la bici e impacchettarla e prenotare un taxi per l’aeroporto; fatto questo ho passato le ultime ore con Geo e Corrado, a cena nella Istanbul asiatica. Abbiamo attraversato lo stretto del Bosforo in motonave, vedendo in lontananza la moschea Blu e la chiesa di Santa Sofia.
Nello stretto sembra di essere in un’autostrada, per quanto è trafficato d’imbarcazioni. L’atmosfera qui è diversa, non ci sono turisti, tante bancarelle lungo i vicoli, le più belle e colorate quelle della frutta. Sebbene non sia riuscito a vedere  bene la città, per farlo secondo me occorre non meno di una settimana, non sono triste, anzi, già soddisfatto di quello che avevo fatto e visto, con tanta voglia di raccontarlo ai miei amici e conoscenti.

SEDICESIMO-ED-ULTIMO-GIORNO–15-agosto-2008
Alle sette deve venirmi a prendere  il taxi per portami a casa, volevo andarci in bici, poi ho cambiato idea perché devo alzarmi alle 4. Comunque dalle sette che doveva arrivare, il taxi si  è presentato quasi alle sette e mezza  e sono un po’ nervoso perché l’aereo sarebbe partito alle 10 e invece di presentarmi per l’imbarco almeno due ore prima, arrivo alle 8 e mezza e vedo davanti a me tutto buio. Entrando in aereoporto vedo solo code, prendo il carrello per la bici e camminando, per l’agitazione urto quasi tutti quelli che incontro. 3 quarti d’ora dopo, mentre corro da uno sportello all’altro, esce il sole, ho il biglietto e soprattutto la carta di imbarco, e quindi ho tempo per fare anche colazione (8 euro).
Mentre aspetto incontro quattro ragazzi di Bassano del Grappa con le bici impacchettate, anche loro arrivati qua pedalando. Uno di loro, dopo che gli ho detto che ero giunto qui come loro, mi chiede se ad ispirarmi questo viaggio è stato il libro di Emilio Rigatti. Di Rigatti, che assieme a due suoi amici fecero la Trieste-Istanbul in bici, e che raccontò l’esperienza in un libro, io avevo solo gli appunti di viaggio che mi ero letto la sera alla fine di ogni tappa. Non volevo avere la strada spianata a ciò cui sarei andato incontro, e ho avuto ragione, bello è stato quando la sera potevo confrontare la lettura quello che  avevo visto.
Dall’aereo in volo con gli occhi accarezzo i Balcani, cercando di vedere se magari riconosco delle zone che avevo percorso: neanche mezza.
Atterrato a Venezia in un’ora, ho montato la bicicletta e via verso casa, alle mie spalle come in Grecia sono minacciato da un temporale, ma non ho la minima preoccupazione. Negli ultimi 60 km che mi dividono da casa ho fatto tre tappe in tre bar: voglio brindare bene a questa vacanza, e nell’ultimo bar incontro anche un conoscente, sorpreso di vedermi in bici con il tempo che minaccia, al che  gli racconto dov’ero andato, e sono un fiume in piena per le cose che ho da raccontare. Arrivato senza prendere un goccia d’acqua mi è sembrato di mancare da qualche anno da casa.

CONCLUSIONE
Per tornare ai miei ritmi di vita normali mi ci sono voluti 10 giorni, senza esagerare.
Complessivamente tra andata e ritorno ho percorso 2195 km, non male, che diviso 10, fanno 219,5 km al giorno.
Ho lasciato per strada 5-6 kg, le ginocchia sono rimaste doloranti per un mesetto, e comunque ho sempre continuato anche dopo a correre in bici, con ritmi inferiori e non quotidianamente. L’appetito mi è tornato dopo una settimana, poiché avevo abituato lo stomaco a non fare gli straordinari, solo a vedere una marea di liquidi passare.
Avevo messo il fisico a dura prova, mi potevano dare le martellate sulle dita che non sentivo dolore, ero narcotizzato dai km del viaggio, e mi è capitato a casa  più di una volta di sognare di essere ancora in viaggio e di alzarmi la mattina con la nostalgia che morsicava le gambe. L’unica magagna fisica che mi è rimasta dal viaggio è il formicolio del  mignolo e dell’anulare dovuto alla posizione non corretta che avevo sul manubrio, ma passerà: avevo messo in preventivo che al mio ritorno qualche doloretto me lo sarei portato dietro.
Devo ringraziare il buon Dio per avere dato mandato a qualche angioletto affinché non mi facessi male cadendo, e in 4 -5 occasioni ci sono andato vicino, non per imprudenza, ma perché volevo vedere tutto quello che mi circondava, e in  alcune strade la discesa piena di buche non concedeva distrazioni.
Tutto è andato bene in modo che arrivassi a Istanbul prima che il mio volo partisse, imprevisti non sono mancati, ma sono stati risolti sempre  brillantemente.
È stato bello fare questa pedalata da solo, ma non mi sarebbe dispiaciuto anche in compagnia, posto che una cosa che mi  è mancata è stato il confronto di opinioni che alla sera  avrei potuto avere con un compagno: quattro occhi vedono meglio di due.
Prima che partissi alcuni (Alberto mi ha dato del pazzo furioso) mi davano dell’incosciente, spregiudicato, irresponsabile, non era concepibile a loro modo di vedere affrontare 2000 km da solo, intenti a pensare che il mondo che ci circonda  sia pronto a farti solo del male. Ovviamente un po’ di attenzione bisogna averla, ma con lo spirito positivo verso l’ignoto. Devo altrettanto dire che tanti mi invidiavano e adesso che lo racconto, gli stessi mi dicono che mi avrebbero fatto perfino la scorta in auto, e ad essere sincero in alcune zone della Serbia meridionale e Bulgaria vicino al confine con la Grecia, magari ingiustificabile, ma un po’ di paura l’ho avuta, anche se le strade fortunatamente erano abbastanza trafficate.
Avevo messo in preventivo qualche malanno fisico e quindi fare un tratto di strada per Istanbul in treno o autobus non sarebbe stata una sconfitta, ma la soddisfazione di partire e arrivare a casa  pedalando, e avere vissuto una, non molto piccola, parte del mondo, è stata grande. Ho invidiato Geo quando mi raccontava di essere partito da casa in bici e che sarebbe tornato a novembre a lavorare 6-8 mesi e poi via a conoscere ancora il mondo. Per gli esseri umani normali come me questo non è possibile. Sono stato invitato al festival nazionale del viaggio in bicicletta da una mia amica Nadia, tenutosi a Portogruaro in settembre a raccontare il mio viaggio, e parlando con altri cicloturisti si discuteva che sarebbe stato bello partire in bici e ritornare non so quando, ma la realtà è diversa per la stragrande maggioranza di noi pedalatori incalliti, e forse è meglio così (magra consolazione), poiché si gode di più sorseggiando in una quindicina di giorni una volta l’anno paesi e culture diverse. E’ un modo di viaggiare questo per rendere le distanze, accorciate  dal progresso, più lunghe attraverso il mezzo della bicicletta.
Quello che a me è piaciuto di questa vacanza  è il senso di libertà che si prova nel percorrere l’ignoto ad una velocità che riesce a far presa sulla memoria.

Fine.

P.s. Il prossimo anno se non ci sono imprevisti si riparte da Istanbul per arrivare a Gerusalemme, attraverso la Turchia, Siria, Giordania e Israele.

maurizioguglielmini@libero.it


scrivi qui il tuo commento