Un giorno a Kollywood, l’altra faccia di Bollywood


articolo di viaggio di Simone Mariotti

Chennai (Madras), agosto 2009
Diceva di chiamarsi Jack, ma era un ragazzotto indiano di Chennai (il nome con cui da qualche anno è conosciuta Madras), vestito come un rapper americano e che sosteneva di essere un ballerino professionista. Eravamo al primo piano rialzato di uno dei più lussuosi alberghi della città, di quelli con due ascensori a vetri attorno ai quali, dalla hall, salivano delle scintillanti scalinate di marmo che portavano ai piani. Tutto era guarnito con decorazioni dorate, ottoni, cristalli. Tutto tirato a lucido, e tutto ovviamente kitsch. Esattamente come quello che accadeva al piano rialzato.
Io e jack eravamo seduti al bancone di un bar in una sala non molto grande, buia e a soffitti bassi, dove si stava girando uno dei tipici polpettoni che si vedono nei cinema indiani.
Lui era il primo ballerino, e interpretava il braccio destro del capo della gang dei buoni, il cui leader era anche l’eroe del film, un attore chiamato Barath, abbastanza famoso nell’India del Sud, mi dissero poi altri ragazzi indiani che incontrai in seguito.
“Se andrai a Londra potrai trovare questo film in qualche negozio”, mi disse.
“A Londra? Ma non era destinato al mercato locale del sud. Il ragazzo che ci ha assunti a Mamallapuram ci ha detto cosi”.
“Sì, ma anche a Londra, perché ci sono tantissimi indiani che arrivano da qui e i migliori di noi ballerini, se riescono a farsi notare, vengono mandati a studiare nelle scuole di ballo inglesi. Io ci sono stato per sei mesi l’anno scorso”, disse con un certo orgoglio, anche se lo sguardo era un po’ rassegnato. A vederlo 5 minuti prima sembrava fosse il più birro di tutti, spavaldo e pieno di sé, ma in quella pausa sul set, senza il suo gruppetto attorno, aveva negli occhi tutta un’altra aria. Forse perché, in fin dei conti, anche essere arrivato lì dov’era, non contava poi gran che per lui: “mi piacerebbe andare a lavorare anche a Bombay”.
Forse le sue speranze erano mal riposte, forse inseguiva un sogno che era già dietro l’angolo, perché Kollywood dopotutto sta scalzando Bollywood come mecca del cinema indiano. Il nome deriva da una delle vie di Madras in cui un tempo erano concentrati i primi studios, oggi sparsi in varie parti della città. E sta crescendo tantissimo, anche perché il mercato del sud è più diversificato di quello del nord, dove si parla prevalentemente in hindi. A sud invece le differenze linguistiche sono più radicate e difficili da superare, tanto che i programmi governativi per la diffusione dell’hindi, pensati per uniformare la nazione, a sud trovano molti ostacoli, anche per la presenza di lingue antichissime come il tamil, parlato da oltre 70 milioni di perone. Ogni stato indiano quindi necessita della sua produzione cinematografica. Budget più limitati magari, ma con una continua proliferazione del numero di pellicole. Ma il suo sogno restava di fare il primo ballerino a Bombay.
Da quel po’ che avevo visto sia quel giorno sia nei film che proiettavano sui pullman, non è che gli mancasse molto per diventare una vera star. I passi erano sempre molto semplici, banalotti, che agli occhi di un occidentale potevano sembrare quasi delle caricature.
Nelle otto ore passate assieme alla troupe per girare una decina di scene, vidi un microcosmo che ricordava molto gli albori di Hollywood così com’erano stati narrati in quel fantastico film di Bogdanovich sul cinema dei primi anni del Novecento che fu Vecchia America (1976). C’era il tuttofare buffo e grassoccio che sembrava uscito da una comica di Chaplin, la coreografa iperattiva, una ragazza di una trentina d’anni, piccoletta e dallo sguardo tosto che pareva essere lei a dirigere il film, sempre a parlare col regista dando consigli su tutto. Fuori dalla sala c’erano vecchie attrezzature (carrelli, binari, riflettori antidiluviani) che chissà perché erano ancora lì, e poi di fianco un modernissimo mixer con una serie di monitor per vedere e montare le scene in brevissimo tempo, un angolo in cui il regista di rifugiava di continuo. I soliti contrasti indiani dominavano anche Kollywood.
Poi c’era la starlette della situazione. Una diva con tutto quel che doveva avere una diva che si rispettasse: un vestito completamente coperto di paillettes dorate, una pettinatrice che la seguiva in ogni movimento e che le sistemava i capelli praticamente di continuo, un nugolo di “ancelle” che la consolavano, nutrivano, pulivano e chissà che altro. Bellina, piccolina, anche lei una ballerina mediocre, ma perfetta per la parte da fatalona da adorare che doveva fare. Ma al contrario di Jack, era inavvicinabile!
Poi la pausa pranzo all’aperto, davanti al garage dell’albergo assieme allo staff “tecnico”, una sorta di rancio stile vecchio west dove ognuno si riempiva il piatto col cibo contenuto in una serie di gavette.
Io, una coppia di francesi, due polacchi e una famigliola inglese eravamo capitati lì a lavorare come comparse per un giorno, prelevati da Mamallapuram, un paesello di mare una cinquantina di km più a sud. Era bassa stagione e non c’erano troppi turisti in giro. Un giorno per due volte mi chiesero di partecipare a un film, ma avevo declinato anche perché avevo un impegno per cena. Poi, la mattina dopo, incontrai uno dei ragazzi che mi avevano già avvicinato che parlava con Jeremie ed Emilie, i due francesi di Parigi. Mi unii a loro e la cosa assunse la forma di una specie “gita di classe”. Il film era ambientato a Singapore e ci volevano un po’ di occidentali a gironzolare per le scene per dare l’idea di luogo un po’ più internazionale di un albergo di Madras. E dopo quella giornata, tornati a Mamallapuram, finimmo tutti assieme a mangiare pesce alla griglia vicino alla spiaggia e a bere birra assieme anche a un pescatore locale insonne che doveva prendere il mare prima dell’alba e che per prima cosa volle sapere chi fosse l’eroe del nostro film.
Non eravamo noi, e neanche Jack, che continua a provare, a sognare e a sperare. Sperava, come accade a tanti, di essere visto almeno per una volta per quello era e che veramente valeva, anche quando stava al bancone di un bar, anche se non si atteggiava a superstar, anche senza le solite luci sparate davanti agli occhi.

diva rancio

setwww.simonemariotti.com

Pubblicato il 4 novembre 2009 su La Voce di Romagna in prima pagina


scrivi qui il tuo commento