India del Nord 2008


racconto di viaggio 29 agosto – 21 settembre di Marco S.

Itinerario: Delhi, regione himalayana, Punjab, Himachal Pradesh, Delhi

Passaggio a Helsinki 

Prima di mettere piede in India ho pensato di spezzare la continuità fra Napoli e Delhi con un passaggio a Helsinki, visto che notoriamente le due città hanno similitudini in fatto di non eccessiva pulizia, di traffico e rumori, d’inquinamento ed eccessiva confidenza dei concittadini. Eccetera. Anche se sono partito di sera ed arrivato di notte all’aeroporto di Helsinki, non mi sono fatto scoraggiare dalla nottata in bianco, e così alle 6 e qualcosa ho preso un bus per il centro città. Un cazzo di freddo, che manco a febbraio a Napoli, figurarsi a Delhi; col pantaloncino corto ho fatto i conti senza l’oste, e la sottile maglia che avevo indosso non serviva a proteggermi dal vento gelido mattutino scandinavo. Alla stazione dei treni, luogo di riparo e di conforto per i ragazzi riversi negli angoli con ancora la bottiglia in mano, reduci dal sabato sera, pensavo fosse uno scherzo il fatto che si dovesse pagare un euro per accedere al bagno, ed invece no, in ogni posto pubblico la stessa storia, perfino al Mac Donald’s. Sono riuscito a fare fesso il sistema solo quando un negretto che puliva i cessi di un fast food (come al solito) si è intenerito e mi ha fatto accedere al bagno, aperto per l’occasione; quando si dice solidarietà. Purtroppo il freddo mi ha fregato, perché mi  veniva da pisciare in continuazione, perciò la mattinata passata sul posto mi è costata cara e amara, e mi ha messo pure di cattivo umore. La visita alla città è durata qualche ora, giusto il tempo di dare un’occhiata ai posti turisticamente più in voga, come il mercato all’aperto e quello coperto, i vari palazzi storici con annesse le piazze,  una chiesa scavata nella roccia presa d’assalto dai giapponesi, qualche casetta in legno in riva al lago, una spianata chiamata appunto il parco Esplanade, dove gli helsinkesi e i turisti vagano in direzione del porto. Tuttavia c’è troppa pulizia, troppo ordine, troppa accuratezza, tutto quello che manca dove vivo; invidioso, prendo il bus per l’aeroporto, pensando che sarebbe bello passare lì la seconda parte della mia vita, staccandomici di tanto in tanto per visitare posti come quello dove andrò ora. 

Fuga da Delhi 

A Delhi di notte è buio, non illuminato, e nel taxi che mi portava dall’aeroporto all’albergo si viaggiava nell’oscurità, scorgendo le vacche, la gente che dorme sugli spartitraffico, un tipo che mette mano al motore in panne della sua Ambassador, topi che corrono squittendo. Arriviamo in vicinanza dell’albergo, una zona che mi sembra che più schifo non potrebbe fare. Non pensavo di prendere una sola neanche il tempo di mettere piede in India, però un noto sito di prenotazioni di voli ed alberghi mi ha venduto una stanza in un posto che su Internet sembrava tutt’altro; vabbè che ho pagato solo sei euro, però che vuol dire, per quasi quattrocento rupie qui ci si può concedere pure qualche lusso. Il posto invece faceva veramente schifo, la tipica trappola per gli sprovveduti che mettono piede per la prima volta in India, e questo mi ha fatto incazzare ancora di più, visto che è la terza volta che ci vengo. Meglio non fidarsi della propria esperienza. L’indomani i ragazzetti della pseudo reception vogliono il passaporto per farci delle copie, e mi svegliano pure per averlo; a questo punto, rassegnato alla sventura di aver a che fare con quei cazzoni, mi vesto velocemente e prendo un risciò per la stazione dei treni, mandando a cagare il ragazzo che disperato cercava di trattenermi. Un altro po’ e gli avrei messo le mani addosso. La stazione è un caos assoluto, con lunghe file agli sportelli, gente accasciata a terra aspettando il treno o forse qualcos’altro, masse che ondeggiano in prossimità della sopraelevata pedonale che porta ai vari binari. Il treno ce l’ho di pomeriggio, così lascio la valigia alla clock room e mi dirigo verso il centro, tanto per passare il tempo visitando un paio di templi; il caldo però non aiuta, tantomeno quell’inferno di traffico fatto di orchestre di clacson, macchine, bus, risciò a motore e a pedali ingrovigliati in una matassa senza fine e senza ordine. Non so come si possa resistere ogni giorno della santa settimana in questo bordello, e manco voglio provare ad immaginarlo; mi dirigo nuovamente alla stazione, visto che è ora, per sbagliare ripetutamente il binario a seguito delle solite indicazioni indiane equivoche, e come un pazzo sfido la calca col bagaglio in testa, sudando pure l’anima, per arrivare al mio treno, che, giustamente, se la prende ampiamente comoda per decidersi a partire. Sono esausto, e un poco timoroso di quello che mi aspetterà in questo viaggio.

A Chandigarh e a Shimla 

Chandigar, come leggo dalla solita Lonely, è una città inventata dopo la partizione del territorio in India e Pakistan per dare una nuova capitale al Punjab, visto che la vecchia, Lahore, se l’è fregata il Pakistan. In vena di progetti fantasiosi, i governanti dell’epoca hanno chiamato al lavoro architetti ed urbanisti prima americani, poi uno svizzero, Courbusier, mi pare, che si è divertito come un pazzo a creare una città che non ha niente a che vedere con il resto dell’India: strade larghe, percorsi ciclabili che manco ad Hannover, giardini e parchi, laghetti artificiali dove passeggiare. Quando ci viene uno di Delhi, pensa, ma dove cazzo sono capitato? Poi, palazzi stravaganti, come l’alta Corte, dove ho cazzeggiato un poco, fra giovani avvocati e vecchi giudici in pompa magna, in un mare d’auto, moto e biciclette parcheggiate, cercando di tenerci un ordine. Ci sono andato in bicicletta, noleggiata all’ufficio turistico, e, maremma maiala, ogni tanto la dovevo ribaltare per sistemare la catena che volentieri s’incagliava negli ingranaggi; metti il caldo boia, il peso della borsa contenente l’indispensabile, cioè guida, che pure è un mattone, bottiglia dell’acqua, e macchina fotografica obsoleta, da un kilo e mezzo, allora si capisce il livello di stress da viaggiatore che si ostina a fare tutto da solo.
A Chandigarh ci sono mega quartieri chiamati sector, e il numero 17 è quello che concentra i negozi alla moda per i giovani agiati, i bar, il cinema, e altre attrazioni per locali, tuttavia a me non è che me ne frega più di tanto di trovarmi davanti le solite cose che lascio in Italia, perciò mi annoio un poco. In ogni caso, a movimentare il pomeriggio, si fanno avanti due gay che tentano l’approccio, con la strategia del timido e dell’amico che cerca di lanciarlo;  l’altruista mi chiede se conosco qualcosa del mondo gay, e io gli rispondo che si, visto che ho diversi amici della parrocchia, mentre il timido fa la faccia scontrosa ed impacciata, sperando che si concretizzi il desiderio; tuttavia dopo aver ascoltato qualche battuta anche esplicita, li mollo al loro procacciare e cerco un posto per mangiare, prima di tornare all’albergo dove mi sono sistemato, tenuto da un seguace di Sai Baba (la disciplina gli ha fatto bene, visto che la stanza è veramente pulita, al contrario del cesso di Delhi).  

Mannaggia la puta madre, ho un senso di scoramento, all’arrivo a Shimla, un luogo di villeggiatura degli Inglesi e del Raj agli inizi del ‘900, mentre ora lo è per la borghesia indiana che ci viene a sciare in inverno, a rinfrescarsi l’estate, e a passarci pure la luna di miele. Si trova su un crinale a 2000 mt e qualcosa, un pezzo di montagna cementificato, con qualche edificio storico di fine ‘800 qua e la, che normalmente guardo solo per pochi secondi, poi saliscendi per percorrere le stradine dell’abitato appeso sulla montagna, bar e ristoranti, piazzette dove è vietato pure fumare (beccato con la sigaretta in mano da gentili guardie in zona buia, ieri sera, forse per colpa della brace luminosa). Il crinale me lo sono dovuto scarpinare avanti e indietro per andare a mangiare, per visitare un maniero di centoventianni fa, per trovare un Internet caffè decente, per cambiare i soldi, per fare il permesso per visitare la zona della valle dello Spiti. Lo scoramento è dovuto al fatto che veramente Chandigarh e Shimla non è che mi abbiano interessato molto, e vorrei che il viaggio prendesse una piega diversa, verso zone remote, monasteri buddisti in culo all’Himachal Pradesh, verso vecchiette che mi offrono una brodaglia calda a me morto di freddo, sprovvisto degli indumenti adatti da viaggiatore provetto, con le capre che entrano pure nella stanza della cucina a cercare un tozzo di pane. Mah, spero che andando verso Tabo tutto ciò si materializzi; domani mattina prendo un dieci ore bus per fermarmi a Rekong Peo, poi dopodomani altro dieci ore bus verso un monastero tibetano che dovrebbe farmi contento, soddisfare le mie aspettative da viaggiatore famelico.  

Kinnaur e Spiti 

A Shimla, fra l’altro, mi becco un mal di gola condito da febbre a 38; che faccio, parto o non parto. Michele, uno strano tipo di Bergamo che da PD è in predicato di passare alla Lega, che sembra uscito da un film di Verdone, si preoccupa per me ed insiste di rinunciare alla partenza, di starmene buono fino a che non mi sento meglio. Purtroppo sono un incosciente, un indisciplinato, e l’indomani mattina parto ugualmente, rincoglionito e buono, per Rekong Peo, regione del Kinnaur. Sono dieci ore di bus scalcagnato attraverso una gola dove scorre un fiume oggetto di dighe mastodontiche, che da qualche anno a questa parte sono in costruzione per dare elettricità alla regione e a quelle circostanti. Il paesaggio è stravolto da centinaia di mezzi di lavoro, di camion, di addetti al progetto. Nelle fasi finali del viaggio, è un susseguirsi di strade sterrate facenti parte di un immenso cantiere. A 10km dal traguardo, una frana ha interrotto la strada, e si è creata una calca di auto, camion e bus alle due estremità dell’interruzione. Un bulldozer ed una scavatrice stanno facendo del loro meglio per liberare la strada, tuttavia c’è pericolo di un’ulteriore frana da un momento all’altro. Dobbiamo scendere tutti, con i bagagli, e farci a piedi il pezzo, una volta liberato dai massi più grossi; dei militari, che qui ci stanno più per altro per sistemare le strade, dà il via libera o lo stop scrutando in alto, tenendo d’occhio macigni che potrebbero rovinare giù da un momento all’altro. Cazzo, metto le ali al mio trolley e attraverso il punto pericolo guardando anch’io all’insù. E se mi venisse addosso un sasso da 10 T? Non sono manco assicurato contro gli infortuni, ma il prossimo viaggio mi riprometto di farlo. Dall’altro lato il casino dei mezzi in attesa è ancora maggiore, e qualche bastardo in jeep quasi mi investe per buttarsi prima degli altri appena il militare dà il via libera. Proseguo smadonnando per la strada in salita, trolley appeso, chiedendo invano come si arriverà a Rekong Peo. Ci sono un paio di militari che mi fanno cenno di seguirli, e il più giovane dei due mi dice di salire sul camion, che mi avrebbe portato a destinazione. L’incazzatura e l’avvilimento scompaiono all’improvviso, e mi sento felice di essermi evitato questa grana che, dopo una giornata in bus, proprio non ci voleva.
Rekong Peo è una cittadina costituita più che altro da un incrocio, da cui si diramano un paio di strade, una delle quali sale su per la montagna, verso il villaggio di Kalpa, che è decisamente più interessante da visitare. Ci vado domani mattina, dopo una colazione al mio hotel da trecento rupie a notte.
Dopo qualche km fatto di tornanti, eccomi a Kalpa, paesino dove la vita scorre lenta, lontana dalla frenesia di Rekong Peo, figurarsi da quella di città come Delhi. Gli abitanti vivono di agricoltura, soprattutto delle produzione di mele, che a prima vista mi sembrano proprio delle buone mele annurche, senza diossina, però. Fra poco ci sarà il raccolto, e la zona s’imbordellerà di camion che le verranno a caricare, mentre ora, fortunatamente, è ancora tranquilla. Da fare c’è solo il passeggio fra le stradine di campagna, attraverso i meleti, lo sbirciare la vita tranquilla del posto, visitare il tempio buddista in cima al paese, e fare qualche foto ai paesaggi. Me la prendo comoda, rilassandomi dopo la giornataccia di ieri, e impossessandomi di quella pace che solo posti del genere possono procurare. A pranzo scelgo il meglio, il ristorantino dell’unico hotel del paese, dove mi faccio suggerire dal tipo su cosa desinare. Quando si va a mangiare in posti modesti come questi, la cosa migliore e affidarsi ai gestori che, guardandoti, ti consigliano sul come rifocillarti. Siccome sono di buona stazza, mi dice che è meglio due chapati che uno, e che il mutton curry dev’essere intero, non mezza porzione. E ci voglio credere! Con la fame che mi ritrovo, il montone me lo tutto.
Torno verso Rekong a piedi, visto che la strada è in discesa, e mi fa compagnia Gennaro, un bel cagnetto pulcioso che mi ha adottato per la passeggiata; ce ne scendiamo giù indovinando sentieri che intersecano i tornanti, finché Gennaro non mi molla, per seguire una famigliola, da cui forse ha capito che ci può ricavare qualcosa di più sostanzioso, che una semplice compagnia. Ormai sono arrivato al centro di Rekong, e l’elettricità manca, perciò niente Internet (il tipo mi dice che sarebbe arrivata fra cinque minuti; l’hai vista tu?); cazzeggio come un autistico davanti ed indietro per l’incrocio, mangio un dolcetto al latte da epatite A in uno Sweet Corner dove le mosche la fanno da padrone, per passare il tempo. Aspetto la cena che consumerò a luce di lampada a gas nella sala dell’hotel da trecento rupie a notte (sempre lo stesso), e vado a dormire con le galline, quando Rekong è immersa nel buio più assoluto. 

Dalla Lonely sapevo che la strada da Rekong verso Tabo era pericolosa e paurosa, per cui ho affrontato il secondo viaggio da dieci ore mettendomi l’anima da cagasotto in pace, però non pensavo che ad un certo punto da sporco agnostico che si finge ateo quale sono, avrei raccomandato l’anima a Dio, credendomi sul punto di dare l’addio a questa valle di lacrime. Viaggiando per la regione himalayana dello Spiti, dopo aver lasciato alle spalle quella del Kinnaur, si va su per tornanti, su strade scavate nella roccia dura, fatte perlopiù da sterrati ghiaiosi, stretti e a strapiombo sul canyon dove in fondo scorre, ora placido, ora incazzato, il fiume. I bus, come c’è da immaginarsi, fanno schifo: ruote lisce, sospensioni da giostra tagatà, freni il cui impianto idraulico potrebbe cedere da un momento a l’altro, e gli indiani che fanno appunto gli indiani: dormono, parlano, aspettano di arrivare a destinazione per fare i cazzi loro, ma mica si preoccupano che da un momento all’altro potremmo fare il salto, no, pare che sono l’unico a preoccuparmi. Vabbè, forse è che non sono abituato, penso, e il fatto di non scorgere giù per il dirupo nessun rottame di bus mi consola; può darsi veramente che mi stia preoccupando inutilmente. Tuttavia, oltrepassato il villaggio di Nako, ecco che a cagarsi sotto stavolta non sono l’unico; ad un certo punto ci sono i soliti militari che sorvegliano un tratto che dire che è pericoloso è un eufemismo: diciamo che è una scommessa al 50% di passarci senza finire di sotto. La strada è fatta in quel punto di ghiaia in pericolosa pendenza verso il baratro, con buche che, se il driver sbaglia manovra di qualche centimetro, ci vai dentro perdendoci l’equilibrio precario e pericoloso che sudando sta cercando di tenere; ci sono dossi traditori che potrebbero sbalzarci giù da un momento all’altro, e se ti affacci dal finestrino vedi solo il fiume in basso, che dice vieni, vieni… Mentre il driver, che Dio lo benedica, ci porta in salvo dall’altro lato, tutti quelli dentro, guardano perplessi la manovra, chiedendosi se sarebbero arrivati vivi a casa, stasera. A me scorre tutta la vita davanti, e mi chiedo che cazzo ci sono venuto a fare qui.
Il resto della strada per Tabo rientra nella normale pericolosità di cui prima, quindi ormai credo di essere quasi in salvo, finché, alla fine, arriviamo alla cittadina, con i piedi a terra, e il cuore finalmente non più alle prese con una tachicardia da cavallo al galoppo.
A Tabo c’è da visitare il monastero tibetano buddista, e da dormire la guest house gestita dagli stessi monaci (i preti, dovunque vai, se la passano sempre bene). Bello, bellissimo, dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, però domani mattina parto per Kaza, per spezzare il viaggio fino a Manali, dove dovrò decidere che strada prendere. 

Da Kaza a Manali 

Sarà l’ultima smazzata per le montagne, il tragitto da Kaza a Manali, oppure scelgo la successiva due giorni spaccaossa da Manali a Leh, nel Ladakh, destinazione prefissatami prima di partire? Mi giro e rigiro nel letto, aspettando la cena, al buio per la solita mancanza di corrente, ci passo due ore a pensarci, a immaginare varianti di itinerari tutti ugualmente soddisfacenti per me viaggiatore indipendente sì, ma non fesso. E’ ora della sbobba di riso in bianco e dhal, cioè lenticchie ed altri legumi, che a volte, quando non eccessivamente speziata, mi fa ricordare le cene o i pranzi veloci di casa mia, e ancora non ho preso una decisione, ma la rimando all’esito della giornata terribile che sta per venire, una 195 Km alla media di meno di 20 all’ora, per raggiungere Manali da Kaza, in circolo vizioso fra le montagne dello Spiti, in undici ore di trance in movimento.
Cominciamo bene. Il bus da Tabo delle 7 non verrà, forse è finito giù per il dirupo. Una decina di noi, otto indiani, io e un mezzo alcolizzato anglosassone di tarda età, che va avanti a sigarette, ci guardiamo perplessi e decidiamo di dividere una Jeep collettiva a 500 Rs ciascuno, più del doppio rispetto al costo del bus. Per un momento sono preso dal panico, ma poi penso che addirittura sia meglio cosi, che la pelle la porto a casa con più probabilità, e che forse il viaggio sarebbe stato più breve. Pia illusione, sulla durata. Dopo un paio di ore di viaggio, quando ormai si è capito che l’asfalto è più che altro una rarità, presente solo a lembi nel primo tratto, ma poi del tutto assente, ci fermiamo a quota 3500 per il breakfast. Avevo desiderato a Shimla la vecchietta che mi serviva il brodo caldo per riscaldarmi, mentre qui ha fatto la sua apparizione una donna giovane, che per colazione mi ha fornito un pane tibetano con omelette, e un bicchiere di chai bollente che mi sono tenuto stretto fra le mani, morto di freddo, mentre il mio passaporto veniva controllato da un gentile ufficiale nel suo ufficio, una scrivania e tre letti disfatti, dentro quattro mura scrostate. Il viaggio continua e sembra che non finirà mai, sembra che questa sarà la nostra condizione per l’eternità, per l’estenuante lentezza del mezzo che ora si arrampica per tornanti, ora ne scende badando a tenersi a freno per evitare il salto nel vuoto, ora percorre altipiani a 4000 Mt spazzati dal vento, rocciosi e desertici, il tutto chiaramente sobbalzando senza soluzione di continuità, fermandosi per non rompere i semiassi, oppure la coppa dell’olio per improvvise buche maggiori del normale. Ad un certo punto comincia a nevicare, poi a piovere, poi a grandinare; nel durante, in mezzo al nulla, incontriamo figure surreali di persone che camminano, senza nessuna meta apparente. Oppure tende di fortuna che ospitano operai che vivono sul posto (quale posto?) temporaneamente, addetti alla riparazione di strade e ponti, sporchi, luridi, seduti fra le pietre fumando una sigaretta o mangiando una mela, che ci guardano, mentre li oltrepassiamo, diritto negli occhi, non so se per chiedere di essere salvati o invece come vedessero apparire all’improvviso qualcosa di assolutamente estraneo al contesto a cui sono costretti. A tratti il paesaggio ricorda quello della Cappadocia, con formazioni rocciose erose da agenti atmosferici, e qualcuna assomiglia addirittura ai camini di fata.
Arriviamo al valico, a quota 4550 Mt, dove in una sorta di radura c’è un magnifico stupa buddista, che gli autisti rispettosamente circumnavigano da sinistra; ci fermiamo durante la nevicata, e ne approfitto per pisciare, dietro una piccola costruzione religiosa. Il vento impazza, portando con se fiocchi di neve, e solo con la magliettina di lana e sotto quella di cotone, mi sto letteralmente cioncando dal  freddo. L’accendino non funziona, causa mancanza d’ossigeno, e il tipo anglosassone, che pure non ha mangiato stamattina, mi chiede i fiammiferi per accendersi la sua ennesima sigaretta; me la faccio anch’io una, nella speranza di riscaldarmi un poco all’interno. Per il pranzo ci fermiamo presso uno dei motel della statale, tre pareti di massi l’uno sull’altro e sovrastati da un tendone lacero da camion,  con dentro due tipi che al buio ci danno dentro col dhal, verdure in padella, e riso bianco. Lo posso evitare? No, a  meno che non voglia patire la fame fino a sera, con solo un uovo e un poco di pane nella panza. La roba che mangio provoca dei scriccioli fra i denti, sicuramente tracce di terreno presenti nella verdura lavata male, oppure del tutto non lavata, ma tant’è: butto giù e mi consolo col chai del dopo pranzo, ed un’ulteriore sigaretta per concludere il pasto.
Ormai avanziamo per inerzia, catatonici, ed arriviamo all’incrocio della strada che porta a nord verso Keylong, tappa notturna per il secondo giorno nel Ladack. L’anglosassone scende, dopo qualche titubanza, e decide di aspettare un mezzo di trasporto che lo porti verso Leh, dormendo a Keylong. Io col cazzo che ci vado, ormai ho deciso, basta con questa storia delle giornate intere passate fra le montagne, sbattuto senza interruzione; me ne vado a Manali e poi verso destinazioni più accettabili, e la prossima volta che vengo a Delhi prendo un bel volo interno, un’ora, per Leh, e me la visito senza colpo ferire, affanculo i due giorni in bus fra le montagne. Basta con la storia del viaggiatore intraprendente, almeno per stavolta, voglio fare quello che non mi uccida la salute più di quello che finora non ho sopportato. Nel Borneo malese, un anno e mezzo fa, dovevo decidere se visitare una zona remota, al confine indonesiano, per meravigliosi trekking consigliati dalla Lonely, tuttavia infestati da sanguisughe; ci vado, non ci vado, finche un tipo dell’ostello col quale parlo mi dice che si che devo andare, che quella è la vera Malaysia, che invece la zona continentale è solo un cesso, coperta di cemento. Allora ci vado, a dispetto delle sanguisughe? Mi faccio coraggio per decidermi in questo senso, tuttavia c’ho ancora qualche resistenza dentro di me, e ne parlo alla proprietaria dell’ostello, che mi pare una brava donna. “Ma non lo dare retta a quello, che è ingrippato per i viaggi tipo macho man, Indiana John, Tarzan, Tex Willer, ma in realtà devi fare solo quello che ti fa stare bene, ed evitare situazioni spiacevoli, o sgradevoli…(E ora basta, non mi rompere più i coglioni, credo abbia pensato)” . Mia Salvatrice, mia Dea, mia Guida Spirituale, mia Musa, mi hai illuminato, mia hai fatto risparmiare 150 euro dallo strizzacervelli da cui non avrei avuto sicuramente lo stesso risultato, e alle soglie degli anta finalmente so come mi devo comportare nella vita. Affanculo tutti i viaggiatori intraprendenti, farò quello che non mi stressa, almeno non in maniera eccessiva. 

Basta, non ce la faccio più, voglio scomparire dalla jeep e stare in una cazzo di stanza di hotel, pure con le cimici, non mi interessa. Macché, la pena da sopportare è ancora lunga tre ore, con la discesa che dai 4000 del bivio di cui prima porta a Manali, giù per la valle percorsa dal fiume, e con tracce sempre più evidenti di umanità varia. Ci sono gli indiani che vengono a provare il brivido della neve, con famigliole di uomini, bambini, mamme, ragazze con ai piedi solo i sandali. Poi cominciano le bancarelle, in spiazzi per il ristoro degli avventori della domenica, e noi sempre lì, a procedere ormai completamente collassati. Spengo pure lo stereo dell’auto, che da dieci ore mi percuote i timpani con canzoni d’autore indiane, che pure all’inizio avevo apprezzato, ma poi alla fine arriviamo a Manali, e mi sembra di essere arrivato sulla luna e tornato, in giornata. 

Manali e Mandi 

Manali è un posto turistico, sia per gli indiani, che permangono nella zona nuova, piena di ristoranti e negozi, sia per gli stranieri, per lo più turisti indipendenti, che se la spassano in quella vecchia, oppure, dall’altro lato dl fiume, nel villaggio di Vashashti, simile a Manali vecchia, con le case in legno alternato a pietra. Ci vado a curiosare, inerpicandomi su per stradine, e man mano s’intensificano i posti destinati ai turisti zaino in spalla, cercando di compiacerli con german bakery, per fargli trovare la torta della mamma, o della nonna, baretti dove bere una birra fredda, gustare pizza o patate fritte. Ci sono quelli che hanno preso a noleggio oppure comprato una Royal Enfield, per darsi da fare come in Easy Rider, che sfrecciano qua  e la per le curve delle salite: questa è la zona indicata dalla Lonely come da preferire, per stare un poco più tranquilli, ma francamente non sono d’accordo. Sarà che c’ho l’allergia per questi che salutano con Namaste, anche se non c’azzecca una mazza, e poi magari trattano male i locali se non vengono serviti a dovere. Durante la colazione del giorno di viaggio da Kaza a Manali, due coppie di israeliani (sempre loro!) quasi cazzeano la tipa perché non capiva che non volevano la mayo nel piatti chiesti. Ma che cazzo è sta mayo, e dove se la poteva procurare la tibetana, magari la faceva al momento, apposta per fargli venire la salmonellosi, a quelle teste di cazzo, e gli stava pure bene.
Non fa niente, meglio non rovinarsi la giornata. Dicevo, su per Manali vecchia, alle spalle di un tempio, c’è la zona vecchia, con le casette in legno e pietra, tipiche della zona, con i panni appesi fuori ad asciugare, e il bestiame a piano terra, che funge da stalla. Le donne lavano i panni alle fontane, battendoli a terra, o portano sulla schiena enormi quantità di fieno ed erba varia, per gli animali; le vecchie discutono fra loro, e la vita del villaggio va avanti, solo appena sfiorata dalla massa curiosa che viene a mettere il naso nelle loro cose.
Meno male che sto a Manali nuova, vicino la stazione dei bus, pronto alla fuga, e di un paio di ristorantini dove abboffarsi di zuppe e ravioli tibetani. C’è il passeggio, lo struscio, e nei dintorni templi da visitare, buddisti ed indù, dove la gente, quella locale, prega in maniera particolarmente devota. Il tipo che mi ha accolto all’albergo mi ha detto che non poteva preoccuparsi di registrare il passaporto al momento del mio arrivo, perché doveva pregare, e quando gli ho chiesto se era lui il proprietario, mi ha risposto che c’è ne è uno solo, il Signore; “…ma io dicevo il secondo proprietario, quello dopo il Signore…Ah si, allora sono io”.
Quando il da fare si è  esaurito, a Manali, allora ho preso un bus per Mandi, 110 Km e 4 ore più a sud, viaggiando in bus; un lusso, in confronto a quello in Jeep di due giorni prima. L’asfalto c’è, quasi integro per tutta la durata del viaggio, per cui, a parte il frastuono del veicolo, va quasi bene. Si arriva a Mandi in tempo per visitare dei templi in riva al fiume,  di nuovo accaldato dal clima afoso, data la bassa altitudine. Il pomeriggio si può andare al lago Rawalsar, sacro per tre religioni, meta di pellegrinaggio. Anche qui ci sono turisti, ma pochi, relegati sulla terrazza di un ristorante dedicato a loro, che inevitabilmente li attira come mosche sul miele. Nel caso decidessi di cambiare vita, almeno saprei come fare soldi con questa gente. Visito un tempio buddista giusto durante delle preghiere cantate e suonate, con i monaci che ci danno sotto. Poi uno di loro, con una bancarella all’ingresso principale, distribuisce a dei bambini che si accalcano delle buste con dentro varie leccornie, tipo calza della befana; loro arraffano e corrono via, per gustarsele in santa pace più in la. Il posto è pure infestato da scimmiacce che litigano fra di loro per qualcosa di commestibile che capita e tiro; è capitato che camminando, sbuccio  arachidi di pessima qualità, buttandone via alcune integre, che mi sembravano particolarmente schifose, e quasi le scimmie non mi zompavano addosso, alle spalle, per prendersi tutto il malloppo. Andare al lago, oltre le quattro ore della mattina, mi è costato un’ora e mezza ad andare ed altrettanto a tornare, perciò sono veramente stanco, e a Mandi, nei pressi dell’albergo dove staziono, ho giusto il tempo di una barba ed una cena, prima di buttarmi a letto stravolto. 

Verso Dharamsala 

C’è un trenino a scartamento ridotto, per andare verso Dharamsala, famosa perché da quelle parti c’è il governo tibetano in esilio. E’ d’obbligo andarci, mentre si è nelle vicinanze. Il trenino non parte da Mandi, ma un poco più in la, a Jogindernagar, per cui occorre prendere un bus fino al paese dove c’e la fermata del treno. Ci vado, ma niente da fare, un addetto alla sala di controllo, albino, mi dice che oggi la corsa è soppressa, per cui bisogna andare ancora più in là col bus, a Poprala, e prendere il treno che là si che  sarebbe partito. Mi rimetto in bus ed arrivo, che culo, giusto quando il trenino sta partendo, appena il tempo di fare il biglietto. Questi trenini, costruiti dagli inglesi per andare su in collina a rinfrescarsi dalla calura delle pianure, sono uno spasso. Assomigliano a dei giocattoli, infatti, sono chiamati toys train, e s’integrano perfettamente nell’ambiente circostante, senza stravolgerlo, inserendosi, durante la corsa, in macchie di vegetazione, nascondendosi, oppure oltrepassando torrenti e fiumi con sfiziosi ponti di metallo, poggiati su pilastri in pietra, e tenuti su da funi di acciaio, che fanno tanto demodé. Dentro, ci sono panche in legno, un po’ scomode, però carine, e sembra ci sia un’intimità fra quelli ci viaggiano, perché le carrozze sono piccoline, anche queste in legno, e pare che anziché viaggiare, stiamo solo facendoci un giro sulla giostra. In ogni modo, in tre ore arrivo a Kangra, tappa verso Dharamsala, e mi ci fermo per far visita ad un tempio nella zona centrale della città, non prima di avermi riempito la panza con un dhal e pollo, buono, ma molto oleoso. Lascio la borsa al ristorante e mi avventuro su per la stradina che porta al tempio, dove man mano che ci si avvicina al posto si intensificano i negozi che vendono cibo da offerta e altro materiale religioso. Il tempio è pervaso di misticismo, con gente che viene a pregare e sostare in silenzio dinanzi i simboli sacri; qualcuno batte una sorta di tamburo, altri fanno suonare una campana e recitano le loro preghiere come non ci fosse niente di più importante al mondo, in quel momento. Ormai si sta facendo sera, e prendo il solito bus per arrivare a destinazione. 

A Dharamsala 

Mc Leod Ganj sta un po’ più su di Dharamsala, su un crinale, come Shimla, pero è profondamente diversa, perché qui non ci sono gli indiani a prendere il fresco, in vacanza, ma il governo in esilio tibetano. E c’è anche una bella corte di turisti indipendenti che vengono a provare il brivido della vicinanza spirituale con Sua Santità il Dalai Lama, che, chi  c’ha culo, può capitare di vederlo in qualche discorso pubblico in loco, quando non è in giro per il mondo a promuovere la causa. I turisti indipendenti, nel frattempo, sanno come spassarsela, con la moltitudine di alberghetti e ristorantini dedicati a loro, con le bakery che sfornano torte, colazioni con pancake, muesli con frutta, yogurt e miele, e cosi via. Si crea un po’ di conforto per il viandante lontano da casa, che ricompenserà il pensiero gentile a suon di rupie. Poi ci sono le lezioni di cucina indiana, di massaggi tibetani, di reiki, ecc. Francamente mi basta l’Aikido, e la cucina italiana, salvo eccezioni non troppo dissimili dalla cultura nella quale sono cresciuto. Su e giù per il crinale, vado a visitare un complesso religioso dove c’è un tempio, e fuori di questo uno spiazzo dove gruppi di monaci passano la giornata a discutere di chissà cosa, sbraitando  con veemenza, battendo con vigore una mano sull’altra, o dando al corpo posizioni innaturali, per enfatizzare quello che stanno affermando. C’è anche un museo, dove viene raccontata la storia dell’invasione cinese, la persecuzione, la fuga verso l’India e il Nepal, e la resistenza tibetana. E’ tutto un fervore anti cinese, qui come nel resto della cittadina, con slogan contro la Cina in ogni angolo, chissà se per promuovere il negozio per turisti, o magari perché dettati da uno spirito autentico. Più giù, molto più giù, con una salitaccia di ritorno che mi ha inzuppato di sudore, c’è una sorta di parco con dentro gli edifici del governo tibetano in esilio, con i dipartimenti della salute, dell’informazione, dell’educazione, e altri, e poi c’è un edificio dove si riunisce in sessione il parlamento, di cui ho potuto sbirciare l’interno. Mica male, sono organizzati, bisogna dire. Su per la salita di ritorno al centro, un Suv con dentro monaci dalla guida sportiva mi passa facendomi mangiare la polvere; evidentemente il passaggio al turista come atto caritatevole è troppo superficiale per essere preso in considerazione. Mi fermo in un negozio d’articoli tibetani (c’è solo questo genere, nei negozietti) per farmi tentare da souvenir di facile approccio, e durante la visita noto che monaci sono lì per oggetti religiosi, sfoderando una bella mazzetta di rupie, in biglietti da 500 e 1000, consultandosi al telefonino di ultima generazione, che il mio al confronto fa arrossire, ma sarà sicuramente per la causa…
Mi piacerebbe restare un altro giorno qui a Dharamsala, per qualche passeggiata nei dintorni, o per farmi viziare dai ristorantini per turisti, però, nonostante pensassi di averla finita con le intere giornate in bus, ho appena scoperto che per arrivare a Chamba, località meno turistica che questa, secondo la Lonely, mi arritocca un altro 9 ore e passa di bus, se mi va bene, per cui farò bene a togliere le tende, se voglio rispettare la tabella di marcia.  

A Chamba 

Fortunatamente il viaggio per Chamba è tranquillo, non nove ore, ma solo sette, e sole stradine di montagna niente affatto perigliose, come in precedenza. A Chamba c’è un alberghetto economico, definito dalla guida ordinario, nel senso che fa abbastanza schifo, ma bisogna accontentarsi, perché per qualcosa di meglio i prezzi schizzano. Incredibilmente, nei due giorni di permanenza non incontro un solo turista occidentale, e l’atmosfera mi sembra notevolmente più rilassata degli altri posti presi d’assalto dai viaggiatori del nord del mondo, quelli che hanno soldi da farsi spillare dai commercianti locali, o degli addetti ai servizi turistici, come alberghi, ristoranti, agenzie di viaggio. Appena metto piede nel ristorante gestito dalla proloco locale, in un momento di bisogna, una coppia di livello sociale medio si fa subito avanti per aiutarmi nell’informazione che sto cercando al cameriere che non comprende l’inglese, o forse il mio inglese, e passeggiando per le strade è un continuo salutare, non per ricavarci qualcosa, ma in maniera disinteressata. Mi sento più leggero, incondizionato dal fatto di essere un turista che provoca reazioni dettate dal tornaconto, bensì solo quelle della curiosità benevola verso il diverso. Girando per le stradine che salgono su per la collina, dove ci sono da visitare templi e palazzi storici, faccio conoscenza della tranquilla vita da paesotto di Chamba, di domenica mattina. In un incrocio strategico, dove passeggiano famigliole ed anziani, di fronte ad un tempietto in pietra, un tizio che sembrerebbe un contadino sta tranquillamente accovacciato a vendere le sue mele, tenute in due canestri, con alle spalle, su due panchine, vecchietti che chiacchierano del più e del meno (a meno che non stessero discutendo del contesto politico internazionale), mi sembra, mentre massaie di varie età, con mariti o nipotini al seguito, si soffermano per scegliere quelle belle mele, tastandole e mettendole nel solito contenitore di carta di giornale apprestata a mo’ di involucro. Me ne sto un po’ a guardare la scena, riposandomi, e godendo della pace del venditore di mele. La sera prima, facendo zapping sulla tv indiana, fra film bollywoodiani, videoclip di star musicali locali, e notiziari vari, in risalto come notizia di primissimo piano, c’è l’attentato a Delhi, per opera di un gruppo estremista islamico, che ha fatto svariati morti, con una sequenza di bombe esplose a distanza ravvicinata, in varie zone della città, affollate in maniera particolare come tutti i sabato pomeriggio. Scene di dolore e morte, che mi angosciano non poco, mentre qui sembra d’essere anni luce distanti da quella follia che si nutre di terrore. I giornali dicono che gli stati limitrofi a Delhi sono in stato di massima allerta, in particolare le zone sensibili come luoghi di culto, stazioni ferroviarie e luoghi turistici; in poche parole proprio i posti che dovrò frequentare nei prossimi giorni, prima del ritorno a casa. Mah, ormai che ci sono, non vale la pena farsi prendere dall’ansia, anche se proverò a stare attento, solo che non ho la minima idea di come si possa fare, in città indiane dove il caos è la norma.
Cercando un altro tempio, sperduto sulla collina sovrastante la città, percorro un sentiero in mezzo la vegetazione, dove di tanto in tanto s’incontrano campi e casette nascoste; mi sembra di averlo trovato il tempio, con all’ingresso figure di divinità dai colori vivaci, come a volte capita qui, pero c’è pure un’altalena, e questo mi suona strano. Alla fine mi ritrovo, come ho capito poi, a casa di una donna con i due suoi figli, che sta lavorando dei legumi, seduta a terra. Dico loro, ma questo è il tempio? Non parlano inglese, al che uno dei due ragazzi chiede al padre che sta al cesso, dalla porta, e per tutta risposta una voce tuonante urla NO SPEAK ENGLISH. Ho capito che forse è meglio andare, salutando con cortesia i tizi a cui aveva palesemente violato il domicilio, senza essere sbattuto fuori a calci in culo, però. Alla fine l’ho trovato il tempio, bello, ma poi, cercando di tornare verso il centro, chiedo ad un tipo la strada. Purtroppo questi è una di quelle persone che gioiscono, quando gli capita qualcosa di strano, d’imprevisto, specialmente, quando, di domenica pomeriggio, non c’hanno una mazza da fare, cosi mi porta con la moto a casa sua, dove mi offre un paio di specialità cucinate dalla moglie, qualcosa di terribilmente piccante, poi si offre di preparare il chai, pulendo le tazze dalla polvere col dito, poi con lo stesso eliminando la pellicola che si è formata sulla superficie del latte bollito in precedenza; tanto sono abituato. Riesco ad andare via non prima di essermi sorbito un paio di raccolte di foto di famiglia, fra cui quelle del viaggio di nozze a Shimla. Almeno ho visto dall’interno una casa tradizionale in legno e pietra.
Mancano poche ore all’imbrunire, che passo seguendo un film d’arti marziali, poi i notiziari, anche se non ci capisco un’acca. L’indomani mattina partirò per Amritsar, in bus fino a Pathankot, poi in treno fino a destinazione, per visitare il Golden Temple e il confine Indo pakistano di Attari, dove ogni pomeriggio si tiene la cerimonia di chiusura delle frontiere. 

Il Punjab 

Amirtsar è abbastanza sul caotico, mai quanto Delhi, s’intende, ma è una buona tappa prima di arrivare alla capitale, propedeutica per allenarsi al bordello senza limiti, incontenibile, di quella città. Sto pensando seriamente di tenermi giorno e notte, per le 72 ore di permanenza a Delhi, dei tappi di cera, per attutire la valanga di decibel che, stranamente, ad un abitante del posto sembrano non dare fastidio. Almeno i vecchietti possono contare sul loro tappo di cerume, benefico.
Qui il casotto maggiore sta nel perimetro del Golden Temple, tempio ultra sacro per i Sikh, causa indiretta della morte di Indira Ghandi, che ci fece intervenire l’esercito, danneggiandolo, per sedare una sommossa indipendentista, e per questo ammazzata dalle sue guardie del corpo, appunto Sikh. Almeno avrebbe potuto cambiare l’etnia delle guardie, prima. Siccome il tempio è aperto 24 al giorno, pure tutto quello che ci sta attorno, per fortuna, segue lo stesso ritmo, così non è impossibile procurarsi una bottiglia d’acqua dopo le 22, o sorseggiare un chai, oppure prendere un risciò alle 23, come farò stasera, per andare alla stazione. Ho preso l’albergo, di media categoria, contrattando sul prezzo della stanza e pagando quanto quella di ordine inferiore (E meno male, altrimenti sarebbe stato abbastanza deprimente, sputtanarmi in maniera deprimente gli ultimi giorni); il gestore, turbante, barba bianca e tutto, prova a spillarmi qualche soldo con costi assurdi della lavanderia, e proposte per andare in taxi al confine di Attari per la cerimonia della chiusura, tuttavia non sa che già ho contattato un lavapanni a domicilio, al quale pago meno della terza parte, e un taxista collettivo al parcheggio delle jeep collettive, per andare sul posto di cui prima a costi contenuti. Comunque sembra non essersela presa, ed è sempre molto gentile, come tutti qui, devo dire.
La prima cosa da fare ad Amirtsar è chiara: la visita al Golden Temple; ne faccio due, una ieri mattina, l’altra oggi pomeriggio, per godermi questo spettacolo unico in momenti diversi, per suggestioni diverse. Bisogna lavarsi mani e piedi, e coprirsi la testa, prima dell’ingresso, e c’è tutto l’occorrente per rispettare queste regole; poi, una volta dentro, si ci si trova in una dimensione che più spirituale non si può; raramente credo di aver assistito a tale devozione, a tale pace, come se tutto quello che opprime nella vita di fuori, qui non trovi spazio né ragione d’essere. Attorno ad una grande vasca, al cui centro c’è il tempio d’oro,  centinaia di fedeli si genuflettono appena arrivati, e poi tante altre volte, non appena dinanzi ad un testo, un simbolo, una struttura del tempio sacri, poi camminano, parlano tranquillamente seduti, dovunque, si spogliano per il bagno purificatore, bevono l’acqua della vasca dal palmo di una mano. Nel tempio, al centro, si accede con una passerella sopraelevata, e la fila è costante; dentro ci sono quattro sacerdoti che leggono incessantemente il libro sacro, scritto in idioma punjab, accompagnandosi con tabla, due strumenti a soffietto, uno a corda, e il canto è trasmesso da impianto Bose (Alla faccia) in tutta la struttura e dintorni (perfino nelle sale esterne dove si consegnano le scarpe). Fedeli ovunque stanno accovacciati, leggendo il testo sacro a disposizione di tutti, sotto forma di libretti contenuti in delle teche. Mi sembra che tutti i sacerdoti del tempio, anziani, dalla barba lunga e candidamente bianca, siano dei santi, sparsi in varie postazioni, addirittura in stanze sottovetro, visibili dall’esterno (mi viene in mente il quartiere a luci rosse di Amsterdam), che leggono il Testo; quelli più giovani, barba nera, stanno sulla via  della santità, ancora un po’ e ci arrivano.
Ma mi sembrano santi pure gli anziani che distribuiscono i coperti di acciaio appena lavati della enorme mensa comune, che sfama gratuitamente migliaia di pellegrini al giorno, con stanze grandissime dove mangiare tutti assieme, accovacciati a terra, con ragazzi ed uomini che distribuiscono un semplice thali, fatto di riso bianco, lenticchie, un paio di chapati, ed acqua nella ciotola anch’essa di acciaio. Ci sono stato, stasera a cenare, e mi è sembrato la cosa più naturale del mondo che fossi li, assieme a tutta quella gente venuta per motivi più nobili dei miei, ma nonostante questo, accettato e benvoluto. All’uscita, come una catena di montaggio, addetti prendono velocemente le stoviglie sporche, riordinandole, poi passandole ad una sala per il lavaggio, pure quella enorme, poi accatastate, pulite, e pronte per essere riconsegnate al flusso continuo di devoti. Per la cucina, provvedono dei cuochi che in enormi pentoloni cucinavano ora il riso, ora i legumi, mentre un macchinario gigantesco sforna  a ritmo incessante quintali di chapati in poco tempo, dapprima impastando la massa, poi stendendola e poi cocendola, una volta ritagliata, su un nastro d’acciaio sotto cui c’è fiamma viva. C’è pure il chai, preparato anch’esso in enormi pentole, dall’altra parte, rispetto la cucina.
Quando sono andato, nel pomeriggio, a vedere lo spettacolo della cerimonia giornaliera della chiusura del confine Indo pakistano, nei pressi del paesino di Attari, l’autista del taxi collettivo mi sembrava pure lui un sufi, un mistico, col turbante e barbona lunga, invece, materialmente, ci dava dentro come un forsennato col clacson;  viene usato in ogni momento, quando c’è un ostacolo a meno di cinque metri, con l’intenzione di segnalare la presenza, e per dirgli di togliersi dalle balle. Tutto inutile, chiaramente, perché nessuno se ne sbatte dei clacson urlati dietro, tanto non è che si possa fare molto, con quel caos organizzato che è il traffico nelle citta’ indiane.
La cerimonia di chiusura del confine è una paraculata, per entrambi gli schieramenti, con i soldati in alta uniforme che sfogano la loro virilità e marzialità con passi militari che avrebbero fatto impallidire la Carla Fracci dei tempi migliori, tanto alzano le cosce, tenendole stese fino quasi a toccare il mento. Si va avanti con questa manfrina, mentre il pubblico è galvanizzato da uno speaker che proclama motti patriottici, con urla di botta e risposta, fino all’ammaina bandiera, con le due fatte scendere simultaneamente  e alla stessa altezza (per non rischiare una raffica di mitra), fra gli applausi generali.
Mi ero dimenticato che il guru facente l’autista era uno smanettone del clacson, per cui mi riprometto nella giornata seguente di utilizzare solo risciò a pedali, visto che quegli sfigati sono gli unici che nella calca stradale non hanno il Santo Clacson a cui appellarsi. Cosi facendo, visito un paio d’altri tempi, più un museo, tanto per passare la mattinata; tuttavia quello che mi preme davvero è dare un’altra occhiata al Golden Temple, dove ci sto dal pomeriggio all’imbrunire, stravaccandomi con gli altri fedeli a terra sul nudo marmo e  ricevendo, una volta inginocchiato dinanzi all’offerente, anch’egli un santo, una poltiglia dolciastra a base di semola, che non so se abbia chissà quale significato religioso,  o serva solo per viziare un poco i fedeli arrivati fin quaggiù. Dopo la cena con i pellegrini, mi trattengo finché posso per provare fino all’ultimo quella sensazione di beatitudine che il posto riesce a comunicare. E’ come farsi una pera, credo; sembra che tutto il resto non conti, e si potrebbe restare in quello stato di beatitudine fregandosene della vita che scorre fuori.
Tuttavia il sogno termina, sotto forma di risciò a pedale condotto da un vecchio sdentato, con cui avevo provato a dissimulare la necessità di andare alla stazione dei treni, tradito pero dal cazzone dell’albergo; cerco, possibilmente, di affidarmi ai giovani per questo sporco mestiere, però i vecchi devono campare anche loro, e forse sono ancora più bisognosi, in mancanza di una pensione di anzianità. Per le strade, come al solito buie, ci sono i soliti addormentati sugli spartitraffico e sui marciapiedi, comunità intere di abitanti della strada, che mi fa piacere pensare che solidarizzino fra loro, nel vivere questo ingrato destino.  

Ritorno, e addio a Delhi 

Ho scelto, dopo qualche titubanza, la zona decentrata dei rifugiati tibetani, a nord del centro, tranquilla enclave nel bordello di Delhi; per arrivarci occorre metrò e ciclo risciò, ma gli spostamenti sono agevoli, meglio che camminare o farsi portare in quella bolgia del centro città. Nelle stazioni della metropolitana, specialmente quelle sensibili, come Connaugth Place e quelle in corrispondenza delle stazioni ferroviarie, si entra come negli aeroporti, con metal detector e scansione delle borse, mentre nelle altre c’è solo una sommaria perquisizione corporale e il controllo delle borse. Gli attentati hanno lasciato un brutto segno, e m’immagino all’aeroporto quello che deve essere.
L’hotel tibetano è proprio una bella sorpresa, me l’aspettavo un mezzo cesso, e invece è pulito ed accogliente; il tempo di posare la roba, docciarmi, cambiarmi d’abito, ed eccomi pronto per questi ultimi tre giorni in India; uscendo, però, un pulitore d’orecchie interrompe subito il mio slancio positivo : è la prima volta che ne incontro uno, e cogliendomi di sorpresa, afferra il mio orecchio destro, senza manco che capissi cosa stesse facendo, infilandoci un bastoncino avvolto di ovatta. Ne ricava una buona dose di cerume (Forse mi faceva comodo), e scuotendo la testa in segno di disapprovazione, mi fa cenno di sedere sul marciapiede. Contrattiamo sul prezzo della pulitura, poi si dà da fare pulendo a destra e a manca, infilando nelle cavità dei liquidi dai colori sgargianti, poi di nuovo mazzarella con ovatta, ed infine un energico massaggio, dall’orecchio su fino alla fronte, poi giù fino al collo. Un poco frastornato, affronto Delhi senza timori, giro Connaugth Place e dintorni mandando a cagare i procacciatori di clienti dei negozi, faccio spese in quelli che dico io, torno nella zona tibetana carico come un mulo di buste dello shopping, manco a New York. Stavolta, anche se potrebbe risultare deludente, ho scelto di fare acquisti negli empori statali, perché posso pagare con la carta di credito, e non devo farmi il mazzo a contrattare il prezzo per ogni puttanata da comprare, per poi fare il conto totale, andare al bancomat, e tornare di nuovo nei bazar a prendere la roba scelta; troppo faticoso, e la città è già di per se estenuante, meglio non aggiungerci anche del mio. Il conto alla rovescia procede, posso incastrarci una visita ad un complesso archeologico nella periferia sud della città, dove una vecchietta s’improvvisa fotografa, facendo dei servizi fotografici ai turisti per poi chiedergli le mance; ci sono cascato anch’io, però devo dire che il risultato della sua opera non è malvagio, meglio delle mie, di foto, e poi è simpatica; riesco a visitare anche una grande moschea nel centro di Old Delhi, visitandone il minareto, su in cima. Questi musulmani sono abbastanza attaccati al soldo, oppure ci danno la giusta importanza, per quello che serve loro, ma la visita alla moschea si paga profumatamente, in rapporto al costo della vita locale. Al Golden Temple, invece, è tutto gratuito, dalla custodia delle scarpe, al mangiare, all’ospitalità dei pellegrini in camerate, mentre affluiscono con generosità, del tutto spontanee, le offerte dei fedeli. Se proprio dovessi scegliere da agnostico una religione, darei senz’altro la preferenza al sikhismo, con quella gentilezza e solidarietà che la contraddistingue, e poi tutti quei simboli della forza e  della fierezza, come il pugnale, la barba lunga, il turbante. Sarà per un’altra volta.
La visita continua, con L’Arco monumentale all’India Gate, poi ancora qualche acquisto, preso in tentazione dalle cose bellissime che sono disponibili qui, ma poi restano solo poche ore per prendere il taxi che mi condurrà all’aeroporto. Pure questa è fatta, India del Nord, regione himalayana, Punjab, Himachal Pradesh. Penso che per un po’ non ci tornerò da queste parti. L’India è un pugno allo stomaco, una capata in bocca, un calcio nei denti o nelle palle per l’avventore alle prime armi, ma anche alle seconde e alle terze, come me, se non altro per la fatica di perseguire degli obiettivi di viaggio, per gli spostamenti ammazza energie, per la difficoltà di relazionarsi ad una cultura così diversa, troppo diversa dalla nostra. Una cultura che ha le radici nei tre, quattro millenni anteriori alla nostra era, con usanze e costumi sedimentate e cementificate, che col cazzo si ammorbidiscono, forse nei secoli a venire; e tuttavia ci saranno sempre quelli che dormiranno per strada, quelli che ti portano sul ciclo risciò per poche rupie, coperti di stracci, e poi la notte ci dormono sopra, in equilibrio precario. L’India è il paese perfetto dove mettere in discussione tutto quello a cui siamo abituati, la nostra normalità, la nostra logica, le nostre piccolezze. Per poi uscirne capendo, forse, che anche la nostra vita, seppure ammantata da agiatezza e prosperità, non conta un cazzo come quella dei poveracci che vivono per strada qui. E’ solo diversa.


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