Guatemala 2004/2005


VULCANI, PIRAMIDI E LAGHI… UN VIAGGIO IN GUATEMALA

(diario di viaggio 26 dicembre – 7 gennaio di Gianfrancesco)

atitlanItinerario: Antigua, El Remate, Tikal, lago Atitlan

26 dicembre 2004, ore 8.30
Passati i controlli, al gate C 24, rifletto su questa nuova avventura. Il Guatemala.
L’immancabile amico mi ha chiamato ieri sera: “E che si fa in Guatemala?”. Dunque, dai miei calcoli, le due settimane di viaggio previste dovrebbero essere appena sufficienti per tre delle molte attrazioni del paese.
Certo ho l’intenzione di non dannarmi l’anima a girare come una trottola ma, del resto, questo è il tipo di approccio al viaggio che intendo perseguire.
Ho pensato e detto che devo trovare la pace ed il tempo per dedicarmi alla contemplazione del mio ombelico.
Due frasi di donne in carriera, recentemente lette in interviste apparse su Affari e Finanza, mi hanno proprio colpito.  In una, la top manager di turno, di fronte all’intervistatore che ricordava un suo curioso passato di campionessa di quiz televisivi per alcune centinaia di milioni di lire, teneva a precisare che i gettoni d’oro di quelle vincite li aveva ancora a casa, in quanto “non riesco a godere di ciò che ho ottenuto senza impegno e fatica” (!).
In un’altra dichiarazione, la rampolla di una ricca schiatta di creatori di moda, posta al vertice dell’impresa da luttuosi eventi che ne avevano colpito la famiglia, affermava che per avere una qualità di vita decente, anche in un contesto lavorativo di tutto rispetto, occorreva andare a New York perché a Milano tutti corrono sempre anche senza stretta necessità e non si sa bene dietro a cosa.
Ecco, nonostante io mi impegni a non fare della mia vita un frullatore, mi tocca spesso entrare in quelli altrui visto che devo ancora perfezionare quel grado di autonomia lavorativa che, nella speranza, mi dovrebbe consentire di modulare ancora di più le mie giornate.
Ho cambiato il destino ! mi avevano assegnato un posto di corridoio sull’aereo per Newark ma ne ho chiesto un altro, in fondo, là dove le file sono di due e non di tre sedili, avrò fatto bene?
Dal punto di vista della modernità non sto messo male. Ascolto una mia compilation dal mio i-pod acquistato su internet e programmato a seguito di un corposo update del mio desktop fermo a windows 98.
Mi preparo a scrivere note e appunti anche sul mio palmare e a riprendere luoghi e momenti con la fotocamera digitale o con quella reflex o con quella del mio nuovo cellulare.
Vabè, comunque, ho una certa capacità di non annoiarmi minimamente a viaggiare da solo e voglio vedere se anche questa volta la regola sarà confermata.

Ore 21.20 italiane. In attesa di partire per Houston annoto, atterriamo solo 50 minuti prima della teorica ripartenza.  Fila mostruosa all’immigrazione dove mi schedano e prendono le impronte digitali (che li possino!). Mentre faccio la fila chiedo ad una imponente vigilessa che regola il traffico degli “immigrati” che speranza ho prendere la coincidenza. Mi rassicura, ma un attimo dopo il tizio del controllo passaporti mi dice, candido, che è un’abitudine per quelli della Continental far perdere le coincidenze!
Corsa affannosissima, assurdo recupero del bagaglio per poi reimbarcarlo, spero di averlo lasciato a quelli giusti. Nuova corsa trafelata verso il terminal segnalato nell’ignoranza totale circa l’essere in tempo o meno.
Mentre affronto l’ultima fila due anziani yankee mi chiedono pure perché ho fretta. E’ fatta, sono a bordo!
E non ho potuto immortalare l’orrore. Lungo i corridoi del George Bush International, è il nome dell’aereoporto, troneggia sinistra una statua di almeno tre metri, color rame, del presidente padre, in tenuta da cowboy con stivali e cappellone…..

27 dicembre. Faccio la mia prima colazione guatemalteca in un locale vicino al Parque Central di Antigua, non è quello suggerito dalla guida che non sono riuscito a trovare. Ma torniamo indietro, sono arrivato alle 22.40, dopo aver temuto di aver perso lo zaino che non si è visto a lungo all’arrivo bagagli.
Un volo fantastico lo Houston – Guatemala city: steward di colore dal nome Clay. Sembrava uno dei personaggi grassi interpretati da Eddie Murphy ed era gentilissimo e premuroso, uno spasso.
Una coppia di locali mi accoglie fuori dal terminal ed il mio nome è storpiato in “Becchio” su un cartello. Hanno due figli pur sembrando giovanissimi e la bambina di 7 (!) anni li chiama sul cellulare preoccupata della loro assenza.
La più bella del viaggio verso Antigua viene detta quando, arrivati a destinazione, mi fanno brevemente vedere il Parque Central, illuminato per le festività ma praticamente deserto. Del tutto pacatamente mi informo sul fatto se sia ormai tardi (è domenica) per le classiche passeggiate serali. Mi viene risposto che loro sono molto cattolici, che addirittura in città ci sono sei chiese e che è proprio un numero elevato per una città piccola come Antigua…..vabbè…
Discreto il panino con uova e pancetta che ha affiancato un curioso cappuccino. Ora provo il caffè locale che si dice molto buono, purtroppo non ho chiesto un espresso e mi portano un brodone! Lo bevo, non è male.
E’ pieno di centri internet e ho telefonato via web per 4 quetzales (mezzo dollaro) in Italia.
Dopo qualche foto e l’organizzazione del trasferimento sulla strada per Tikal faccio la prima tappa alla Cattedrale del Parque Central.
E’ costituita solo da alcuni resti delle, direi tre, navate dell’originale costruzione crollata per vari terremoti. Di integro c’è la facciata che dà sulla piazza. Nel visitare le rovine, che sono un po’ dietro ed alquanto spettacolari, anche se presentano strani e inappropriati tentativi di restauro, vengo guidato da Oscar che mi arpiona sull’ingresso e non mi molla più visto che la sua gentilezza non mi fa essere brusco.
Ora, però, che sto per magiare messicano da Frida’s mi sento mediamente truffato dalla mia guida improvvisata, ma non sarebbe molto grave se la banca non mi avesse assurdamente detto che dopo una certa ora non cambiano più dollari!
Insomma, mi ha fatto vedere alcune cose interessanti, come la chiesa dei francescani e delle curiose facce maya disegnate sulle mura dell’antica università. Ma alla fine, gira e rigira, Oscar mi condotto in un grosso emporio-para museo (!) specializzato nella lavorazione e vendita della giadeite di varie tipologie. Sono stato pure capace di comprare una pietra, giadeite e oro, per una cifra probabilmente spropositata e destinata a mia madre, ma dopo che avrà superato un controllo qualità romano.
Tengo a precisare che sembravano enormemente più seri di quelli che mi solarono in Cambogia ed il posto era pieno di turisti stranieri che, palesemente, acquistavano.
Sarà un pendant a certi quadri di Frida Khalo, pieni di inquietanti particolari anatomici pure riprodotti sulle pareti del locale, ma una delle due televisioni del locale è sintonizzata su un terribile programma di operazioni ed interventi su pazienti in condizioni disperate!
Ma ecco che arriva la mia sconsiderata ordinazione, Nachos Mixtos. Un piatto enorme su un letto di classici tacos frantumati, una quantità imbarazzante di formaggio fuso, due tipi di carne, peperoni rossi e verdi, cipolle ed insalata. E mi volevo tenere leggero! Giusto uno spuntino! In una delle rare circostanze della mia vita consumo non più di 1/3 del piatto, peraltro ottimo (almeno ora, poi si vedrà).
Dimenticavo di dire che, a conferma dello stato pietoso dei miei nervi, stanotte ho sognato diverse disquisizioni giuridiche che mi hanno svegliato più di una volta, vediamo quanto dura….
Mollato Oscar sono salito su un palazzo che affaccia sul Parque Central a godermi la vista per poi trasferirmi su una panchina innondata di sole e proseguire le mie meditazioni.
Il posto è bello, decisamente bello, la contaminazione nord americana, pure presente in certi negozi e nei prezzi, non mi sembra abbia causato stravolgimenti.  Direi che, insomma, è chiaramente percepibile una specificità locale. Tra l’altro l’inglese non lo parla nessuno, solo spagnolo… bravi!
Il pomeriggio trascorre parzialmente al sole del predetta panchina studiando itinerari e leggendo il curioso romanzo di Marai, la Donna giusta. Con notevole calma mi accingo poi ad un altro giretto con la luce del pomeriggio e devo ammettere che la facciata di Santa Clara ne guadagna molto così come la fontana con lavandaie che vi sta di fronte.
Altri luoghi che vorrei visitare sono chiusi essendo lunedì e, quindi rimando a domani. Purtroppo tra questi è la Casa Palopo che è chiusa fino ai primi di gennaio e che la mia guida segnala come qualcosa di veramente meritevole… sarà per la prossima volta!
Verso le cinque il ritorno in albergo risulta alquanto accelerato da un’emergenza intestinale. La sensazione è che, andando via il sole, la temperatura scenda ben oltre le previsioni. E tale sensazione sarà confermata.
Esco alle 20.00 per recarmi all’Escudilla dove curo a modo mio un inizio di infreddatura: mojito e zuppa di pollo, ci aggiungo una mezza porzione di fettuccine con gamberetti (discrete) e riparto nella notte per vedere il Parque Central ed il locale forse più in, la Casbah.
Costruito tra i ruderi dell’ennesimo edificio crollato di Antigua, direi che non è affatto male ma desolatamente vuoto, sono si e no le 21.30.
Torno verso l’Escudilla il cui proseguimento è il Rickis Bar, altro locale più piccolo e alquanto affollato dove consumo il mio secondo mojito. Ogni tanto pick-up con stereo potentissimi traversano lentamente, non so se per farsi sentire o perché l’acciottolato irregolare impone tali andature, ma per il resto le vie sono poco animate. Giusto qualche strimpellatore di chitarra tenta qualche improbabile gorgheggio tra i giardini del Parque Central.
Bello, sereno e riposante buona notte.

28 dicembre. Mi dà una strana sensazione il passeggiare tra le gigantesche rovine del convento dei francescani. In particolare colgo quello che sembra un sorriso sul faccione di una grassa guatemalteca che si trova sola con me in questo spazio decaduto. Che sia una vendetta? Presto vedrò il sito maya per eccellenza, o quasi, Tikal e anche se all’arrivo dei conquistadores era già stata abbandonata, furono loro a massacrare e schiavizzare gli indios. E allora, il fatto che i terremoti successivi abbiano ridotto in macerie così tanti edifici alzati dagli europei potrebbe leggersi come una sorta di compensazione per le malefatte compiute?
Orbene, la mattinata era iniziata con una buona colazione all’Escudilla seguita dalla pacata ricerca del negozio di sigari segnalato dalla guida che, però, già rispetto al 2002 ha cambiato posizione. Alla fine lo trovo ma è chiuso.
Aggiorno manualmente la guida e mi riprometto di ripassare.
Quattro passi nell’incasinato mercato ad ovest dove il massimo è rappresentato da bancarelle che offrono uva rossa e fuochi d’artificio.
Torno al Parque Central dove medito i prossimi passi. Il primo, come detto, sarà la chiesa francescana. Peraltro, ho molte aspettative da un’inquadratura del vulcano Agua catturata passando dal Parque Union. E’ la seconda piazza della città, rettangolare con una grande fontana per lavare ad una estremità.
Passo poi al bellissimo convento delle Cappuccine, la macchina digitale si azzerata da sola spero che, come in altre occasioni, le foto fatte siano recuperabili.
Mi aggiro tra cortili ed uno strano edificio cilindrico contenente le cellette di residenza delle monache, il top è un giardino erbosissimo e pieno di fiori dove, toltemi le scarpe, trascorro la mezz’oretta più distensiva di questo inizio di viaggio.
Mi complimento con me stesso per aver battuto la guida. Ho subodorato l’affare e ora ne ho la conferma. Mi sono fermato a pranzo alle Antorchas dove zuppa di pomodoro, pollo al limone ed espresso sono perfetti, assai cordialmente serviti in un giardino rilassante con fontanella centrale.
Nonostante l’inizio di raffreddore mi accendo un Montecristo e mi prenoto per stasera. Breve sosta fumante in piazza poi di nuovo al negozietto dei tabacchi.
La signora che, stranamente, parla un perfetto inglese, mi vende quattro diversi Honduregni che saranno testati nei prossimi giorni.   Dimenticavo.. prima di pranzo, nel mercatino di fronte ai magnifici resti della facciata della chiesa del Carmen (c’è rimasto solo quella!), ho acquistato una scatoletta per mia zia. Sul coperchio c’è l’arco di Antigua, ovvio ma indispensabile.
Smanetto un attimo su internet: una mail a un caro amico, dall’Asia notizie tragiche.
Di nuovo tra le macerie, quelle di S. Chiara sono piene di indios amoreggianti e su una bella fontana nel cortile forse riesco a riprendere una colomba bianca che beve… buon segno?
Altra foto all’Agua dal cortile del Museo colonial. In effetti è una presenza incombente ma vorrei proprio essere riuscito a darne un’idea adeguata.
Infine la chiesa più vicina alla mia Posada,  La Merced. Qui la guida proprio non sbaglia! La fontana esterna e quella, enorme, interna nel cortile del convento, sono bellissime. All’ingresso la solita signora tenta di fregarmi sul resto del biglietto, la correggo e la perdono.
Ora, in attesa della cena, mi lascio cullare sull’amaca appesa nel cortiletto interno della mia posada… domani parto alle 4!
Cena coi fiocchi, fonduta al formaggio con salciccia e trancio di salmone all’arancio, il tutto annaffiato da un cileno Tarapacà Cabernet-Sauvignon molto solido. Una conferma.
Presto a letto, per non dormire ma nella consapevolezza della sveglia bestiale. Ho pure ricevuto la mail di una cretina dall’Università che, a occhio, mi comunica delle date non corrette per un corso che inizio, ahimè, a gennaio.

29 dicembre  Alle 5.25 sono il primo ad aver fatto il check in e osservo questa ventina di sonnolenti turistacci in lotta con l’unico tizio del bancone che ha pure il coraggio di chiedere le tasse aeroportuali. Mi sa che l’aereo non sarà proprio un Jumbo!
Ho una certa inquietudine, sei notti al El Remate non saranno troppe?
Insomma, se mi voglio riposare, un po’ di tempo in un posto lo devo passare. Forse la mail dall’Università mi ha riportato in mente la cascina di cose da fare a casa e poi, avevo opportunamente obliato che l’inizio del mio prossimo corso è già in gennaio.
Tuttavia sto qui e preoccuparsi non mi sembra migliori la situazione, di pentirsi proprio no, vediamo di dare un grande senso a questa parte del viaggio, più e meglio di Antigua!
La scelta per una sosta così lunga sembra perfetta sin da subito dopo l’arrivo, anche se capisco esattamente il contrario di quello che dice questo americano o inglese (boh!) dai capelli bianchi, gli occhietti azzurri e vispissimi che, comunque, mi fa subito un’ottima impressione.
E’ David e cerca di spiegarmi che ho bonificato più del necessario per cui ho un credito di ben 17 dollari. Anche per il fatto di essere mezzo sordo, dopo il breve volo sul tonante bielica locale, capisco, dapprima, che vuole di più di quanto gli ho mandato. Ne nasce una chiara discussione “surreale”: “ma non è corretto che tu mi chiedi ora più di quanto concordato per internet, ho il testo della mail con me!” e lui “non capisco come possa esserci stato un simile errore, comunque, indagherò, del resto noi ti dobbiamo dei soldi !”.
Il sorriso finale, al chiarimento dell’equivoco, mi conferma la bontà della scelta, tra l’altro, qui alla Casa de Don David, l’acqua potabile è gratis come pure l’uso della bicicletta e, scoprirò poi, anche l’utilizzo di internet.
Dopo essermi parzialmente ripreso con un riposino sull’amaca davanti al mio bungalow mi faccio la prima pedalata.  3 o 4 km di sterrato e sono all’albergo di lusso della zona, il Camino Real.
Mi faccio il pass per spiaggia e piscina. L’acqua del lago di Peten Itza qui è un po’ troppo schiumosetta ma la piscina è fresca e pulita, la vista poi dalla veranda del ristorante è incantevole. Il lago è lungo e stretto e circondato da vegetazione di diversi colori e tutto in un’assoluta e lenta tranquillità.
Il mio unico cruccio è l’orecchio sinistro che non si stappa e continua a darmi questo fastidioso effetto apnea.
Consumato un pasto non memorabile torno alla mia residenza dove verifico che la stanza a me assegnata è fondamentalmente assurda. Ci sono, infatti, due letti matrimoniali ed uno a una piazza e mezzo, ma niente armadi né cassettiere né una sbarra reggi stampella, niente!
I bungalow affacciano su un bel giardino molto curato anche se privo di accesso diretto al lago, penso per motivi di sicurezza. Il livello dei servizi è tale che mi scaricano la memoria della digitale in un file che sono disposti ad aggiornare periodicamente per darmi poi il CD con tutte le foto scattate.
Considerato il non perfetto funzionamento della mia macchina… una manna!
Il problema maggiore è che alle sei meno un quarto il sole è tramontato.
La cena con panino al tonno è parca ma buona e conosco una polacca che vive in Canada decisamente in carne e che domani sarà con me nella levataccia per Tikal. Prima del letto mi sparo il Santa Rosa honduregno, buono ma non ottimo.

30 dicembre. Come rivoluzionari nella notte il pulmino ci trasporta avanzando nel buio del Peten. E’ carico di europei ed indios in composizione assai variabile. Ogni pochi km il mezzo si ferma, qualche indio sale e qualcuno scende, se non c’è posto in cabina si sale sul tetto in un immaginario cambio della guardia a varie postazioni.
In effetti, la durezza del risveglio alle 5.00 è temperata dalla presenza di David e di un indio che, intorno ad una macchina per il caffè americano, si affannano perché noi lo si possa bere prima dell’arrivo del pullman. Saranno l’ora ed il luogo, ma il liquido caldo che sorseggio e la curiosa galletta dolce di companatico mi sembrano un ottimo auspicio per la giornata.
Si conferma la bontà della scelta di El Remate anziché Flores (che pare normalmente preferita), la distanza con Tikal è comunque notevole e ci vuole quasi un’ora per arrivare. Questo vuol dire che a Flores o si alzano alle 4.00 o non possono arrivare all’apertura che è prevista alle 6.00. Ieri ero un po’ scettico sull’utilità di questo arrivo mattiniero, ma ora non posso negare che godere di queste meraviglie in praticamente totale solitudine giustifica il sacrificio.
Descrivere … dunque per cercare di dire qualcosa che non c’è sulle guide, almeno nell’ordine che vado ad illustrare. Devo precisare che tutta la mia visita è stata condotta sapendo che sarei tornato. Questo mi è servito sia per valutare i posti che avrebbero meritato un ritorno, quanto per non essere ossessionato dalla necessità di vedere tutto.
All’ingresso, con il biglietto, ho acquistato una mappa piuttosto inutile visto che quella contenuta nella mia guida, anche se in scala ridotta, si è rivelata assai migliore.
Insieme con la polaccona, della quale solo a fine giornata ho capito il none, Borasca (!), grazie al fatto che me lo ha scritto dandomi la sua e-mail, ho subito optato per le costruzioni di minore imponenza, poste alla destra del triplice invito ad avanzare nella foresta che si presenta al visitatore.
E sì, perché proprio di avanzare nella jungla si tratta, anche se ovviamente attraverso sentieri alquanto semplici ma, almeno potenzialmente, per chilometri e chilometri.
Il sito è enorme e, se quasi incredibilmente, mi sono ritrovato, ad oltre 7 ore dall’ingresso, ad aver visto circa l’80 per cento delle cose principali, pare ci siano infinite costruzioni secondarie da scoprire nel fitto della vegetazione, anche a rischio di perdersi.
L’atmosfera è indubbiamente fantastica, attimi di silenzio assoluto interrotti da versi di uccelli o animali non identificati, sensazione di energia crescente man a mano che ci si avvicina alle costruzioni più spettacolari. Assenza, poi, di ogni forma di accattonaggio o vendita di ciarpame che invece, come mi confermano Borasca e Curtis, americano che si aggrega in giornata, affliggono siti messicani come Palenque o altri compromettendone la fruibilità. La mia maglietta, scelta con attenzione, mi dà le cercate soddisfazioni.
Raffigura un “Chetrooper”, una geniale contaminazione di storia e fantasia costituita dal contorno capelluto della classica immagine del Che Guevara, il cui volto è peraltro sostituito dalla maschera di un membro delle truppe scelte dell’impero dai film di Guerre Stellari.
Acquistata su internet, dopo averla vista nella versione italiana del New York Times distribuita con Repubblica, mi viene addirittura fotografata da una coppia di ragazzi che ne restano decisamente colpiti.
Tra le tante ragioni che mi hanno portato in questa parte del mondo vi è anche la alquanto recente scoperta che uno dei panorami più incredibili di questo sito è parte di una scena proprio del I episodio di Guerre Stellari. Si dovrebbe trattare delle cime dei templi III, II e I che emergono dalla foresta una volta che si sia avuto il coraggio di inerpicarsi per la scaletta di legno che conduce faticosamente alla cima del tempio IV.
Tra l’altro, da questa fantastica posizione si coglie anche l’ampia spianata del gigantesco tronco di piramide che costituisce il fulcro del complesso denominato “mundo perdido”. In realtà, la circostanza che praticamente tutti i monumenti siano identificati con numeri o con lettere mi dà un po’ fastidio. Anche se magari in forma di complicati ammassi di x e di altre consonanti, avrei preferito conoscere qualche dicitura più vicina a quelle originali ma, da quello che ho letto, ho ricevuto la sensazione che di tutte queste testimonianze della civiltà maya, gli stessi studiosi non sappiano ancora oggi proprio tanto.
Non posso mancare di riportare, però, quella che costituisce una delle scoperte per me più interessanti fatte fin qui. Il concetto di guerra stellare era particolarmente diffuso nel mondo maya. Cioè, pare accertato che, tra le finalità dello studio maniacale dell’astronomia di questo misterioso popolo, vi fosse anche quello di individuare il giorno più astronomicamente adatto ad iniziare un conflitto che potesse concludersi nel senso auspicato. La guerra stellare appunto!
Che George Lucas si sia ispirato alquanto direttamente a questa tradizione?
La visita prosegue in modo piacevolissimo, la temperatura è mite e le fronde degli alberi riparano in gran parte dai raggi del sole, la compagnia è alquanto divertente. Curtis si dichiara missionario e risulta aver viaggiato come un matto, si occupa attualmente di ragazzi difficili in una sorta di collegio militare di New York. Anche lui è un fanatico del recente best seller di Dan Brown che ho appena regalato a mia madre e si dice convinto che la chiesa cattolica abbia molto da farsi perdonare circa l’occultamento del ruolo della donna nella vita di Gesù.
In qualche modo verso le 13.30 percepisco che le mie batterie si stanno scaricando in maniera preoccupante. Riesco miracolosamente a prendere il pulmino delle 14.00, sbrigo alcune faccende tipo controllare internet, chiamare casa, dove sono già le 22.00, ed una doccia veloce. Quindi crollo letteralmente sul letto come fulminato. Mi sveglio alle 18.30 in uno stato di totale confusione e con le gambe assai indolenzite per le centinaia di gradoni scalati in su e in giù.
Tra l’altro accuso anche una notevolissima fame visto che, il pur ottimo sandwich al prosciutto preparatomi per pranzo dalle cucine di casa David, ha appena tamponato la situazione molte ore fa. Ma la giornata mi riserva ancora sorprese positive, il piatto “special del dia”, il pollo alla regina, è una sorta di suprema con riso e para-besciamella decisamente appetitoso. Il cheesecake conclusivo poi mantiene alto il livello della cena.
Poche pagine di lettura, niente musica che l’i-pod è scarico e non sono ancora riuscito ad avere il promesso adattatore per la presa, e poco dopo le 22.00 si spegne la luce.

31 dicembre. Dondolo sull’amaca del chiosco al centro del giardino e colgo brandelli di conversazione di turisti locali alle mie spalle. Alcuni occidentali sono stati rapinati, mi pare di capire, da banditi con passamontagna mentre si recavano a Tikal a bordo di un minibus. OK.. Sempre meglio non viaggiare con tutto il denaro e valori vari addosso.
Sempre con la buffa Borasca, che mi fotografa in continuazione, ho prenotato un giro del lago in barca per gustarmi il tramonto ed un tavolo per il tacchino e non so cos’altro per il cenone di stasera.
David si rivela sempre molto disponibile e gentile, mi racconta che ad aprile saranno 30 anni che è qui. Noto con curiosità che, nonostante mi portino degli enormi tazzoni di caffè, il sapore della bevanda è proprio buono. Questo posto è un incanto. Maturo questa banale considerazione da un piccolo pontile in legno, ad 1 km circa dalla casa di Don David, che aggetta per una trentina di metri nel lago verde di Peten Itza.
Il cielo è adeguatamente nuvoloso, così da smorzare l’irruenza del sole e, nel caso, il pontile è anche fornito di incannucciata umbratile. Ho fatto il bagno e raggiunto una piccola piattaforma galleggiante dove ho riposato un po’. Ora, alla mia sinistra un pontile gemello conduce ad un barcone dipinto di rosso dove è attrezzato un piccolo ristorante “proprio sul lago”.
Dietro di me due o tre casette in legno e muratura, non si vede nessuno…
Anche le amache della terrazza sono vuote.
Per il resto acqua, calma, verde e trasparente e, dopo, la giungla fin dove arriva lo sguardo. Il silenzio sarebbe fantastico ma un motore a scoppio, forse una motozappa o similare, borbotta troppo vicino… Pazienza la perfezione è stucchevole!
Alle 16.00 mi attende una fantastica gita in barca sul lago di Peten Itza. E’ lungo e stretto, 35 km per 5 km al max, l’atmosfera è estremamente quieta ed il riflesso del cielo sulla superficie, perfettamente piatta, dà proprio la sensazione di avere il cielo sotto di noi oltre che sopra, confido molto nelle foto.
Ci addentriamo nei due immissari visibili del lago ed il barcaiolo ci illustra i nomi della moltitudine di uccelli policromi che sembrano attenderci sulle rive. Tra di essi anche il re pescatore che mi ricorda uno splendido film di Terry Gilliam con Robin Williams.
Nell’acqua è facile vedere le piccole teste di tartaruga marina che si affacciano un attimo e poi si immergono. Nel secondo fiume il nostro pilota ci avvisa di guardare bene verso un tronco cavo che si sporge sull’acqua. Non capiamo il perché, ma ecco che, avvicinatosi di molto, una decina di pipistrelli disturbati dalla nostra rumorosa presenza si lancia fuori venendoci incontro, bello scherzo ragazzo!
Il giro si conclude con un tramonto infuocato d’arancio che trasforma una strana nuvola in una larga cascata surreale degna di un quadro di Dalì.
La serata prosegue e dopo qualche notizia tragica e qualcuna felice proveniente da internet, si va a cena per provare le specialità di fine anno.
Prima i talos, strani involtini di simil polenta ripieni di pollo, cotti e serviti in foglie di banano. Poi uno stratosferico tacchino in crosta degno dei migliori ristoranti nostrani. Concludiamo con un ottimo cheesepie alla frutta annaffiato da una pina colada fatta sul momento con notevole maestria. Borasca fotografa tutto ed io confido in internet per gli scambi.
Nel mezzo della cena ci viene a trovare David, qualche battuta e poi entrambi capiamo solo che, dopo cena, siamo invitati nel giardino, ma per cosa non si sa. Borasca insiste ipotizzando uno show pirotecnico ma io sono scettico al riguardo, il giardino è buio e privo di ogni movimento.
Occorre veramente tenersi forte perché si tratta del clou di una giornata davvero superba.
Scopriamo che il parco è pieno di tarantole!
Enormi ragni neri che si rintanano nei buchi sotto le aiuole e, qui in Guatemala, bontà loro, non sono molto velenose e aggressive.  David armato di torcia e bastoncino, seguito da una piccola folla, stuzzica l’entrata di varie tane fino a quando non esce l’esemplare delle dimensioni volute. Fa paura, è grande quanto un mio pugno.
La prende con maestria e la rivolta per farci vedere i due grossi denti. Poi propone ad ognuno di noi di tenerla qualche secondo sul braccio. Lo fanno tutti, tra gridolini e risa isteriche ed io non credo quasi a quello che sto vedendo ma alla fine, quasi in trance, sono l’ultimo che accetta la proposta. Ovviamente, dopo pochi attimi di immobilità, il ragnone scatta sul mio braccio e David riesce a togliermela che ha già raggiunto la spalla destra. Ho la foto dell’impresa per la quale non so se darmi del cretino.
La mezzanotte viene attesa nel gazebo in giardino, il gran numero di botti rudimentali sparati dai ragazzini e l’oscurità dell’esterno non consigliano di uscire. Borasca mi racconta le follie del clima di Toronto e del sistema lavorativo locale. Ha dovuto dire che aveva ospiti per ottenere le ferie, se il suo capo avesse saputo che intendeva partire gliele avrebbe certamente rifiutate.
La ascolto con tristezza e mi godo il Don Melo honduregno, decisamente superiore al Santa Rosa. Ciao 2004, per molti aspetti sei durato anche troppo.

1° gennaio 2005. Continua ad andarmi bene, sono sceso vivo dal tempio V, una pura follia costruttiva. L’angolo della scalinata, vietata, è forse inferiore ai 20 gradi. Una volta su, attraverso un leggermente meno ripido sistema di scale di legno, si ha una microbase per muoversi, si e no 2 metri per 60 cm e chiari sintomi di vertigine. Dicevo, sono sceso, oltre che vivo, anche un attimo prima dell’ennesimo sgrullone d’acqua di questo capriccioso inizio d’anno.
Dunque, dopo un comodo risveglio e una potente colazione ho fatto un salto ad immortalare il pontiletto di ieri e dove conto comunque di tornare, il cielo era già alquanto coperto.
Mi sono poi piazzato ad aspettare il primo mezzo per Tikal e, nell’attesa, ho chiaccherato con un italo-svizzero anziano ed avventuroso che mi preannunciato la bontà della mia scelta di domani: Yaxha.
Una volta arrivato ho pensato ad alcune operazioni secondarie, un’occhiata ai negozietti, che peraltro sono preceduti da un gran bel plastico di tutto il sito che risulta utile per un orientamento di massima. Ho quindi inutilmente cercato una maglietta che rispondesse ai miei requisiti estetici per poi optare per un cappelletto con piramidi e tucano. Ho seguito, quindi, il consiglio della mia guida visitando l’unica sala del museo Tikal. In effetti, la bellezza della stele 31, con la raffigurazione perfetta del Re Giaguaro così come la ricostruzione della sua tomba, ritrovata alla base del tempio I, meritano la visita. Se si aggiunge poi che era deserto, pieno di vasellame ed altri oggetti decorati in maniera inquietantemente simile a manufatti analoghi visti in Cina, nonché che il divieto di fare foto era facilmente eludibile, visto che il custode se ne stava placidamente fuori, beh scemo chi non ci va!
Imboccato poi il sentiero verso le rovine ho preso la direzione esattamente opposta rispetto alla volta precedente e quindi sono andato a sinistra. Per minuti lunghi e silenziosi, ho camminato solo e apparentemente sperduto in un sentiero addentrandomi sempre più nella jungla.
Non credevo proprio che la vista di una lattina di coca cola buttata tra gli sterpi potesse darmi una sensazione così positiva di terreno già battuto. Alla fine, combattendo con una pioggia intermittente sono arrivato al tempio VI. Maestoso, con il suo imponente cornicione che doveva contenere migliaia di iscrizioni.
Purtroppo, anche sfruttando come microscopio il mio zoom da 300 mm, direi proprio che ormai non si vede più niente. Coltivo comunque qualche speranza per le foto in b/n scattate mentre la pioggia era alquanto intensa.
Ho quindi lentamente proseguito per raggiungere il grande palazzo detto delle Scanalature, complesso imponente pieno di stanza e passaggi vari. Anche qui devo lamentare la totale scomparsa delle iscrizioni che ne dovevano ricoprire buona parte. Così, mentre ne ricopiavo una riprodotta e che un cartello asseriva essere stata ritrovata sulle mura (sarà poi scomparsa ho l’avranno rimossa per proteggerla?), una gentile viaggiatrice anglofona mi avvisava che proprio sulla mia testa uno spettacolare tucano se ne stava appollaiato su un ramo.
Mi ha fatto uno splendido regalo, era coloratissimo ed è volato subito via ma, in questo modo, ho visto bene anche l’altro elemento raffigurato sul mio cappelletto acquistato all’ingresso.
Alcuni odiosi italiani dividevano con me la visita del palazzo ma sono riuscito a rimanere in incognito. Come detto sono passato poi al folle tempio V e poi all’oggetto principale di questo ritorno.
Scrivo, mentre ammiro il cielo screziato dalle nuvole, dalla cima del tempio più alto di Tikal, il IV.
Nell’aria le grida rauche delle scimmie del posto sono decisamente inquietanti e poco addolcite dal pure presente cinguettio degli uccelli. Le poche persone presenti, fortunatamente, parlano a bassa voce proprio come se si fosse in un luogo sacro.
Ho le cime dei templi I, II, e III di fronte a me e poco più a destra la punta del V e la piramide del mundo perdido. Due coppie di pappagalli verde brillante compiono evoluzioni ardite sulle cime degli alberi sotto di noi. Se mi deve venire qualche idea geniale questo posto dovrebbe aiutarmi.
Ok, il momento è passato e mi accingo a fare il giro della parte alta del tempio che mi ospita, per fotografare un grosso uccello dal collare arancione appollaiato proprio in cima all’ultimo cornicione rischio pure qualche cosa ma, almeno in questo caso, il finale è noto e non tragico.
Sulla via dell’uscita tento di immortalare una scimmia meno veloce di quelle viste fin qui e poi riesco a prendere miracolosamente posto sul pulmino delle 18, pieno come un uovo e che lascia ad aspettare per chissà quanto tempo almeno 30 viaggiatori più ritardatari di me.
A cena tacos ripieni di pollo e dessert di ieri.  Mezzo ottimo ma enorme Flor de Copan honduregno mi prepara al sonno.

2 gennaio. Ed eccomi qui sulla cima di un’imprecisata piramide di Yaxha. In effetti sotto la scala di legno che mi ha portato quassù vi è solo un’apparente collina di terra e alberi che però, ragionevolmente, cela chissà quali misteri. La vista da qui è notevole, un grande lago alla mia sinistra, dalle coste irregolari e ricoperte di vegetazione, una imponente piramide alla mia destra emerge sopra la cima degli alberi, chissà se riuscirò a scalarla presto.
Sono arrivato qui a bordo di una scassatissima Toyota guidata da Juan. Anche in questo caso a bordo c’era quella che ritengo la sua signora, come quando sono stato preso all’areoporto di Guatemala city. Dopo 45 minuti di viaggio si è imboccata una strada sterrata e, a 11 km dalla meta, ha ceduto la frizione di questo cassone.
Vuoi in prima, vuoi in terza siamo faticosamente arrivati all’ingresso del parco. Qui ho apposto nome, cognome e nazionalità su un antidiluviano registro degli ingressi, non c’erano italiani sulla pagina che ho firmato.
Durante il tragitto ho chiesto qualche informazione su El Mirador, il sito maya più antico e più grande, disperso nella foresta del nord.  Juan mi assicura che oggi lo si può raggiungere non solo con 3 giorni di cavallo ma anche con un giorno su jeep particolarmente attrezzate. Da farci un pensierino per la prossima volta.
Nel complesso mi sto divertendo come un matto, direi proprio come un bambino a cui ogni giorno regalano un nuovo bellissimo giocattolo.
Comunque, per fare le ultime curve fino all’inizio dei sentieri di Yaxha sono stato gentilmente invitato a salire sullo spazio di carico di un grosso pick-up che, una volta fattomi scendere, ha proseguito nella giungla lasciandomi la curiosità di sapere dove stesse portando i due intrepidi bianchi che trasportava.
Al mio arrivo un piccolo parcheggio deserto, una minuscola bancarella il cui titolare dormiva alla grande sulla panca postale davanti ed un irridente segnale di divieto di suonare il clacson. Direi che sono l’unico visitatore presente e sono le 9.00 di mattina.
Evito i due o tre guardiani che incrocio da lontano nella mia passeggiata in questa meraviglia apparentemente abbandonata, urla squassanti di scimmie invisibili, piramidi nascoste, piazze ed edifici sbucano all’improvviso nella foresta ho paura e mi sento un esploratore da fumetti. Proprio quando la solitudine incomincia ad inquietarmi di più il luogo comincia a popolarsi, cosicché osservare qualche iscrizione su cornicioni crollati ai piedi di una delle piramidi gemelle è meno pauroso.
Le urla continue delle scimmie sono vicine ed indescrivibili. Potrei a questo punto chiedere l’aiuto ad una guida ma il piacere di girare senza meta precisa mi sembra preferibile. Inoltre, finora, le cose più belle che ho visto, l’Acropoli nord e quella Est, risultano chiuse da nastro, bastoni e chiari cartelli che dicono NO PASAR. Dopo qualche dubbio iniziale ho opportunamente scavalcato i segnali e goduto di spazi bellissimi e privi di anima viva, non so se con le guide avrei potuto fare altrettanto.
Sono tornato sul mirador in cima alla piramide nascosta per consumare il mio sandwich e dopo aver vagato un altro po’, magari tra tombe che sembravano appena scavate da archeologi che lavorano li, mi sono recato verso il parcheggio.
Del mio autista nessuna traccia, così mi sono scarpinato i 3 km di sassaia fino alla sbarra di ingresso ma anche li nessuna notizia di Juan e della sua carretta.
Ora scrivo queste note confidando nella parola di un guidatore di pulmino che mi ha detto che, fra un po’ (?), ripasserà di qua andando nella mia direzione e mi darà un passaggio. La domanda gliel’ho fatta all’ingresso di un sedicente Ecolodge El Sombrero a pochi metri da qui che risulta gestito da un’italiana. Sarebbe curioso capire perché e come è finita quaggiù.
Non sono particolarmente in collera anche se pretenderò indietro buona parte dei 40 dollari dati a David per un passaggio che non è stato neanche pari alla metà degli accordi.
Intanto scambio alcune confuse parole con un vecchietto su tutte le vite che si è portato via l’anno appena terminato, tra Iraq e l’ultimo disastro naturale e mi sembra che entrambi concordiamo nella speranza che il 2005 sia meno cattivo.
Ecco che appare un pick-up che ha di certo visto giorni migliori, lo spazio di carico mi pare alquanto ingombro di cristiani, ma il tizio che risulta il più sveglio con i suoi occhiali scuri, il pancione e la maglietta grigia firmata, mi chiede se sono quello di Juan.
E così il mio sedere poggia malamente sullo stretto bordo di metallo traballante che chiude il piano di carico di questo camioncino. Più dentro non c’è proprio posto. Siamo dieci con me, tre bambini e una bambina, il locale sveglio ed una indigena che lo sembra molto meno, tre bianchi, due donne e un capellone agee che sfoggia una maglietta “Project Guatemala 2004”. Forse di qualche organizzazione di volontariato.
Procediamo a passo d’uomo, viste le condizioni della strada e il tipo di carico, ma una strana ondata di serenità mi avvolge. Attorno a noi i campi con bufali, cavalli, uccelli e contadini, ogni tanto si vede qualche piccolo lago. Uno dei bambini inizia a scartare un pacchetto di caramelle e, per ultimo, le offre gentilmente anche a me.
Insomma, non sarà la modalità di viaggio concordata ma ha certo un suo fascino. Ad una sosta fatta per far riposare un po’ tutti dal massacrante su e giù di quel cassone scopro che una delle due donne è italiana, vive da 15 anni in Guatemala, chissà che farà, e mi consiglia due posti intorno al lago di Atitlan, il primo è S. Marco il secondo non me lo ricordo.
Alle 16.00 passate sono da David che, sentita la storia, si scusa e mi restituisce correttamente parte del prezzo della gita. E’ assolutamente la brava persona che sembra.
Io ho comunque il tempo di inforcare la bicicletta e raggiungere il mio pontile preferito. Il tramonto è all’inizio, l’acqua è calda e il cielo pieno di piccoli uccelli neri e bianchi. Raggiungo la piattaforma e mi godo questi sprazzi di sole finali di una gran bella giornata.

tramonto PetenItzaPrima di cena recupero, grazie alla cartina, il nome della seconda località consigliatami sul lago Atitlan, è Santiago. Questa sera costolette di agnello in un ottimo sughetto e margherita. In quello che mi servono, in effetti, mi sembra che la presenza di alcool sia minima o nulla ma la granatina al limone che lo compone in gran parte è davvero dissetante. Un dolce al cioccolato decisamente buono conclude il pasto. Ho un sonno devastante e, probabilmente, spengo la luce prima delle 22.00.

3 gennaio. Già volevo dedicare la giornata all’ozio e la pioggia che da stamane smette per un attimo per poi ricominciare mi conferma nel proposito.
A colazione mi sono accorto che servono anche cioccolata calda e quella provata è davvero ben fatta. La mattinata piovosa trascorre tra amache e letture fino a quando, oltre ad accorgermi che è l’una e mezzo, vedo anche un certo sole farsi largo tra le nuvole.
Ci vuole poco.
Un frullato di banana per la sopravvivenza e poi costume e bicicletta. Sono sul mio pontile per godere di alcune ore di sole e della prima e forse unica giornata, considerato il programma, in cui non faccio assolutamente niente. Direi ottimo.
Penso sia inutile nascondere che la goduria di questi giorni è strettamente connessa alla consapevolezza di quello che mi aspetta in patria. Rogne di tutti i generi per il momento lontane.
La cena prevede uno strano ma saporito pollo in salsa al peperone verde e un dessert al lime ma, devo ammettere, che il margarita d’accompagno è la cosa migliore.
Mi fumo mezzo Anvers 1845 per concludere con il più buono tra i quattro sigari provati e, prima di coricarmi, mi dondolo un po’ sull’amaca in veranda con l’accompagnamento del mio i-pod. Lo ho potuto ricaricare perché sono riusciti pure a procurarmi l’adattatore per la presa!

4 gennaio. Si fanno le valigie. David propone di accompagnarmi con altri ospiti a fare quello che qui chiamano Canopy. Si tratta di una sorta di gioco nella giungla, per cui ti imbracano e ti fanno passare da un albero ad un altro legato come un salame. Non mi va, anche se ho da far arrivare le 13.00, mi sembra un passatempo stile Disneyland che non si adatta al luogo. Magari mi farò una passeggiata.
Non è neanche una cattiva scelta visto che poco dopo mi viene chiesto di ritardare di un po’ la richiesta del conto finale perché Javier, il portiere tutto fare, è dovuto andare a recuperare David al quale si è rotta la macchina!
Io poltrisco un po’ sull’amaca, oggi non ci sono più quei tre turisti che ieri mi hanno a lungo allietato ritenendosi capaci di suonare la marimba che è posta in un angolo del gazebo.
Si tratta dello strumento tipico guatemalteco, una sorta di harmonium con note molto lunghe e con il quale suonano di tutto, dai motivi più classici a composizioni locali.
Alla fine non è neanche tanto male ma forse non sono obiettivo.
Mi faccio poi quattro passi dalla parte del cosiddetto paese. El Remate non sono che poche casette sparse lungo la strada che costeggia il lago. Molte sono alberghi o lodge, nessuno mi sembra all’altezza della casa di David.
Qualche minuto a contemplare il lago e la natura da un altro delizioso ponticello e torno per mangiare qualcosa. E’ divertente, ordino un certo tipo di birra ed un panino al tonno, la signora, con assoluta tranquillità, mi porta un altro tipo di birra ed un panino al prosciutto.
Però, mentre mangio, arriva David che con grande cortesia mi ringrazia per essermi trattenuto presso di loro e mi regala la maglietta ufficiale della struttura. Mi chiede, magari, di parlare di lui al mio ritorno, stia pur certo che lo farò.
In effetti per me si è trattato del posto ideale, volendo si possono facilmente raggiungere località archeologicamente imperdibili, ma stando fermi si può godere di grande pace vivendo in quella che, a tutti gli effetti è una riserva naturale.
Il ritorno ad Antigua è previsto per le 18.00 e domani alle 8.00 parto in pulmino per Atitlan. Mi aspetto ancora molto ma sento che, comunque, una parte perfetta del viaggio è terminata.
Comunque, raggiungere Antigua è già un’impresa. In particolare, l’uscita da Guatemala City, dove necessariamente è atterrato l’aereo, è funestata dall’orario di punta del traffico. In più l’autista del pulmino è di una lentezza incredibile e mi trovo d’accordo con una signora, probabilmente olandese, che viaggia con il marito al mio fianco. Stanno facendo un viaggio di 4 mesi, praticamente tutto il centro america più il Perù. Come si possa solo immaginare un viaggio di 4 mesi a fini turistici è qualcosa che veramente mi sfugge, chissà se è un mio limite.
Purtroppo, solo alle 20.00 sono davanti al negozio di sigari di Antigua che è irrimediabilmente chiuso.
Per consolarmi adeguatamente mi faccio due passi nel bellissimo Parque Union per poi, forse pigramente ma con assoluta consapevolezza, tornare alle Antorchas. Qui, effettivamente, esagero: fonduta pancetta e funghi, ancora salmone all’arancio, che è troppo buono, e profiterole. Accompagno con un Cabernet cileno Casillero del Diablo da mezzo litro che è talmente impegnativo e pastoso da non riuscire a finirlo.
Il mio ultimo cohiba, cubano ma portato dall’Italia, ed una passeggiata mi aiutano nell’ardua opera digestiva.

5 gennaio. Devo dire che l’attesa della nuova meta un po’ mi inquieta. In fin dei conti è quella decisa per ultimo. Le giornate trascorse fin qui sono state fantastiche e c’è un po’ di paura di non riuscire a fare altrettanto. Il posto è, poi, ovviamente sconosciuto e, insomma, c’è anche la preoccupazione per i necessari tempi di ambientazione.
Inoltre, tutto ciò, si traduce anche in una sorta di senso di colpa per un viaggio troppo lungo in considerazione di tutte le cose che ho da fare a Roma.
Per farla breve, stanotte ho pure sognato l’Università e non in maniera tranquillante.
Ore 12.30. Beh, anche se non tutti i pensieri negativi sono scomparsi, direi che c’è stato un netto miglioramento. Qui, in riva al lago Atitlan, con il magnifico spettacolo dei vulcani di fronte a me e mentre mi asciugo da un freddo e piacevolissimo bagno, l’anima è predisposta in maniera diversa.
Ci sono volute quasi tre ore da Antigua e, una volta preso possesso della simpatica stanza rialzata dello Utz Jay (sta per Casa Buena), ho mosso i primi passi per le strade di Panajachel. Località indubbiamente turistica ma direi necessaria per una prima visita.
Negozietti, alberghi e ristoranti non riescono comunque a cancellare l’incanto ed il silenzio del luogo e, direi saggiamente, prima di impegnarmi nell’organizzazione delle prossime ore mi trastullo un po’ in spiaggia.
Ma dove sono? Dove sono? Seguendo un itinerario alternativo, suggerito dalla mia guida, decido di visitare la riserva naturale di Atitlan. La raggiungo con una breve passeggiata appena fuori da Panajachel. Il custode, che forse dormiva perché appare dopo ripetuti richiami ed appare rincretinito, mi spiega che conviene andare prima alla riserva delle farfalle e poi affrontare il percorso nella selva posto dall’altra parte.
Tanto per cambiare sono solo e così entro in una sorta di enorme voliera che custodisce l’habitat dove le farfalle dovrebbero vivere tranquille.
Però, se uno si aspetta di andare per farfalle gli prende un accidente quando, appollaiato sulla ringhiera di una piccola terrazza utile come punto di osservazione, si trova, appunto, ad essere osservato da un grosso rapace dal petto bianco e che ha proprio l’aria di chiedere che cosa si stia facendo a casa sua!
E va bene che dopo, il tizio del biglietto ti spiega che si tratta di un galiban (?) ferito ad un’ala che tengono temporaneamente in convalescenza, ma se me lo diceva prima!
La riserva è comunque molto bella e credo di essere riuscito a riprendere alcuni esemplari molto grandi e colorati.
Prima di affrontare la seconda parte della passeggiata naturalistica, faccio in tempo a vedere l’ecomostro. Due enormi ed assurdi grattacieli, costruiti proprio in riva al lago anche se palesemente non terminati. Spero che siano in fase di smantellamento ma il custode mi informa che, al contrario, anche se molto lentamente si vanno terminando grazie ad una non meglio precisata corruzione delle autorità.
Nella boscaglia posta dietro l’ingresso mi trovo ad affrontare una serie di ponti sospesi che permettono di inerpicarsi per un sentiero sopra il letto di un fiume. Ora è in secca, perché pare che il periodo giusto sia luglio-settembre, tuttavia riesco a vedere le evoluzioni di una scimmia ed alcune splendide immagini dei vulcani e del lago che spuntano tra le chiome degli alberi.
Mi godo il tramonto da un tavolo del Sunset bar ed anche se le nuvole ingoiano il sole ben prima che scompaia dietro l’orizzonte, è proprio un grande spettacolo.
E’ tempo di riposare un po’.
Stamane mi sono fatto fare un ottimo sandwich di pollo dal bar del hotel Dos Mundos. Si tratta di un posto gestito da italiani, per di più romanisti visto il poster della magica che troneggia su una parete. Ad esso è annesso il ristorante italiano La Lanterna che, dopo una decina di sere a base di cibo più vario, non mi sento provinciale a decidere di provare.
La sala è molto accogliente e, sopra un’amplissima cantinetta di bianchi e rossi nostrani (molti umbri e toscani), continua lo show di sciarpe e foto giallorosse.
Nonostante mi abbiano servito un bicchiere di vino che sapeva di tappo potrei tornare.
Le banali bruschette, al pomodoro e senza, erano molto buone ed offerte con grande attenzione alla presentazione del piatto.
I ravioli alla salsiccia e funghi, anche se un po’ troppo teneri, erano più che dignitosi. Il tutto, poi, servito con i tempi giusti, senza quell’ansia non professionale che i camerieri nell’Antorchas di Antigua chiaramente dimostravano.

6 gennaio, ore 10.30. Ora, seduto sotto il portico di Santiago de Atitlan, mi godo la vista di un vulcano e vengo circondato da un nugolo di bambini che sono già edotti al viaggiatore tipo. Insistono, infatti, per farsi fotografare e poi chiedono subito una mancia per la loro prestazione. Sono molto stupiti del fatto che io stia scrivendo e una piccolina si diverte a specchiarsi nei miei occhiali. Santiago è un paesetto abbastanza ordinato posto sul lato del lago raggiungibile solo tramite imbarcazioni o strade pressoché impossibili.  Moltissimi sono i negozietti di cianfrusaglie e le bancarelle. Pur tuttavia il grande cortile esterno alla cattedrale è decisamente gradevole e la piazza con il mercato e la fermata dei super colorati autobus guatemaltechi assolutamente tipica. Prima abbiamo visitato San Pedro la Laguna che è decisamente più povero e incasinato ma, curiosamente, pieno di chiese evangeliche o di altre religioni para-cristiane.
La navigazione sul lago, immoto, è forse la parte più bella della giornata. Ogni tanto spuntano fuori delle micro spiagge dove qualcuno prende il sole o fa il bagno e, non vedendosi barche, non riesco proprio a capire  come sia arrivato fin là.
Stiamo per muoverci per S. Antonio, comunque l’impressione che si tratti di accampamenti acchiappaturisti e poco più è forte. Forse, come dice la guida, quando nel tardo pomeriggio termina il via vai delle barche dei giornalieri la situazione migliora, ma sono contento di stare di base a Panajachel che, senz’altro, è più scoperto da questo punto di vista.
A bordo lago si vede anche una bella sfilata di ville un po’ nascoste tra alberi e giardini, qui la seconda casa deve essere proprio un bel lusso.
A S. Antonio, invece, regna la tranquillità. Arriviamo che le campane della chiesetta arroccata sulla collina stanno richiamando i fedeli alla messa.
Praticamente nessuno mi importuna per vendere, c’è un negozietto di ceramiche curioso e carino, il posto è proprio rilassato e piacevole.
Ore 17.00, il tramonto sta forse per iniziare, me lo godo dalla splendida piccola terrazza del Sunset, un delizioso pezzo classico e barocco è trasmesso dall’impianto.
Attendo il mio mojito e i miei nachos al non so che e il mondo non potrebbe andare meglio.
Un baffuto compagno di barca mi ha attaccato bottone sulla via del ritorno, vive da 24 anni in California ma è guatemalteco e fiero di esserlo. Ha voluto sapere tutto del mio viaggio e mi ha salutato calorosamente ringraziandomi di essere venuto nel suo paese.
Più tardi voglio provare la piscina termale del Regis, l’albergo dove sarei voluto andare se la guida non avesse riportato un telefono errato.
Per domani avevo l’alternativa, o raggiungere con la barca il paesino di San Marcos, pure suggeritomi dalla Francesca incontrata a Yaxha, dove fare due passi e cercare una spiaggetta tranquilla, oppure affittare un piccolo enduro e andare alla ricerca di un’altra spiaggetta isolata che la guida mi segnala tra S. Caterina e S. Antonio. Penso proprio che opterò per questa seconda soluzione, mi diverte troppo l’idea della moto.
Oh i mojito è ottimo e sono appena arrivati i nachos.  Il tramonto è anche più bello di ieri perché nessuna nuvola ostacola la vista del sole.
Appena scomparso io sono già per la via del Regis. Un attendente, inizialmente perplesso, mi conduce poi ad una vasca ottagonale e maiolicata all’aperto ma con un piccolo gazebo che la sovrasta e, tramite una lampada, la illumina.
La fonte termale naturale è caldissima e me la godo, dapprima leggendo un po’ di Marai e poi semplicemente ad occhi chiusi immerso sino al collo.
Ogni tanto mi faccio una doccia gelida per interrompere la sudorazione e vado via poco prima che sia buio del tutto.
Una pausa con internet per i risultati sportivi e qualche mail agli amici e di nuovo alla Lanterna. Insalata di mare e filetto di pesce al vino bianco, tutto ottimo ed anche dignitoso il bicchiere di grechetto con cui li accompagno.
Sto per accendermi la metà rimasta del La Corona, davanti a me un bicchierino di Sambuca.
Non so come ho fatto, ma ho superato il viaggio precedente.
Lunedì sarò stravolto per il ritorno ma penso che potrò affrontare in assoluta pacatezza qualsiasi emergenza lavorativa.

7 gennaio. L’ultimo all’altezza degli altri.
Anche se il Sunset è chiuso per colazione direi che lo sostituisco benino con il Bistrot, il mio albergo non è gran che sul punto. Si cambiano i soldi, si compra l’acqua ed eccomi a pagare per 4 ore di una piccola enduro 200 tutta arancione. La piccola indagine di mercato condotta ieri mi ha permesso di individuare l’officina più conveniente.
Si parte verso la costa sinistra del lago, l’unica asfaltata in modo accettabile. Arrivo fino a S. Antonio, tra panorami incantati e fiori che crescono sulle recinzioni delle ville dei ricchi. Ho però netta l’impressione che non ci sia alcun accesso all’acqua che non sia proprietà privata.
A S. Antonio prometto qualche quetzales ad un bambino se mi porta dove si può fare il bagno ma lui equivoca e pensa di condurmi ai bagni pubblici!
Vabè, mi riavvio per le folli salite di questa stradina, ben deciso a conquistare il mio ultimo bagno.
E’ presto fatto, mi infilo nell’ingresso dell’Ecolodge S. Tomase e, informatomi sulla presenza di una spiaggia, contratto un ingresso.
La spiaggia c’è, a quasi un km da li ed è pure molto bella con i due vulcani di fronte.
Però è occupata da una famiglia che parla spagnolo e, purtroppo, da due grossi cani.
Hanno il collare e uno dei bagnanti si affretta a specificare che sono buoni ma non sono loro.
Comunque riesco a godermi il sole ed un bel bagno anche se mi infastidisco non poco quando i cani seguono diligentemente i tizi che se ne vanno.
Sono solo ma se mi faccio un altro bagno non riuscirò ad asciugare il costume prima di quando me ne devo andare. Non voglio discutere con quello della moto visto che mi ha fatto firmare un foglio per cui, trattenere la moto oltre l’orario sarà considerata appropriazione indebita !
Però, siccome un altro bagno voglio farlo, via il costume e giù nell’acqua come mamma m’ha fatto.
Sulla via del ritorno godo ancora della non necessità del casco, sarà pericoloso ma andare in moto ha un altro senso. Spero che la foto fattami con la moto alla riconsegna renda un po’ dello stato d’animo di questa mattinata.
Il giro prosegue. Cerco di assaporare tutti i minuti del tramonto così come, prima, la fermata a Los Chinitas anche se per un panino non memorabile.
Questo posto mi ha profondamente colpito e terminare un libro particolare come La donna giusta durante il mio ultimo tramonto qui prima di chissà quando è un’altra cosa che ricorderò di questi giorni.
La mia fedeltà alla Lanterna è premiata dalla conoscenza del sig. Maurizio, spoletino e romanista, da 24 anni da queste parti.  Gagliardo e simpatico mi traccia un quadro documentato di questa parte di centro america e mi augura buon viaggio.  Lo spero ed alcuni minuti trascorsi a guardare le stelle tra le ombre dei vulcani mi aiutano a salutare questa terra.

gfve@inwind.it


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