Ecuador 2008


diario di viaggio dall’11 aprile al 3 maggio di Marco S.

Itinerario: Quito, Quilotoa, Baños, Riobamba, Salinas, Cuenca, Saraguro, Vilcabamba, Loja, Quito

Ora sto più tranquillo, abbastanza riposato e un poco in confidenza con il nuovo ambiente. Ad essere sincero anche ieri, nonostante la molta stanchezza ed il fuso di 7 ore, non me la sono passata male, forse proprio a causa di quella leggerezza provocata dalla spossatezza. Il fatto è che a Madrid ho perso la coincidenza del diretto per Quito, per cui la brava impiegata dell’Air Europa mi ha messo su un volo KLM con scali ad Amsterdam, Antille olandesi, Guayaquil, sulla costa ecuadoriana, ed infine la capitale, con un giro di una trentina di ore; almeno ho avuto il pranzo gratis all’aeroporto.
Mi chiedo dove possa aver trovato le energie per scartare a priori un giro alle Galapagos causa costo eccessivo, per organizzare i contatti con la famiglia, per visitare il meraviglioso palazzo del Centro della Cultura nella pur bellissima Plaza Grande, per farmi barba e capelli dal carinissimo peluquero ultrasettantenne che c’ha il salone minuscolo nella suddetta piazza da cinquant’anni, con ritagli di giornali a testimoniare la sua avventura nella vita e nella professione. Forse questa cultura latina ed andina che sembra così familiare e calorosa, accessibile alla mia sensibilità italiana, mi ha stimolato sin da subito, e la stanchezza me la sono lasciate alle spalle.
Escucho la parlata comprensibile e posso capire un poco quello che fanno le persone per strada, le donne col copricapo tipico e le gonne larghe, le vecchiette davanti le chiese a chiedere l’elemosina o a vendere semplice mercanzia, religiosa e non, i bambini lustrascarpe che si aggirano per le piazze a guadagnarsi la giornata, i predicatori e gli artisti che richiamano la folla da redarguire o allietare, e il mio caro barbiere, che mi ha allisciato il pelo e il viso, raschiando con cura in ogni direzione, infiammandolo con un dopobarba economico, e rilassandolo con una crema scadente; fuori ha cominciato a piovere da matti, e i suoi clienti ed io ci sentivamo protetti ed al riparo dalla burrasca in quei pochi metri quadrati, con il diluvio che puliva la strada da ogni cosa.
Il mio albergo si trova all’angolo della piazzetta del Teatro, e lì mi sono rifugiato, ormai troppo vulnerabile; la doccia non è ancora calda, bisogna aspettare quello del turno di notte che dia un’occhiata alla caldaia, ed intanto faccio uno sforzo per trovarmi un posto dove cenare, ma non so manco a questo punto a quale pasto davvero corrisponde questo desinare, forse è invece una colazione, perché ormai ho perso il conto delle ore di veglia a cui mi sono costretto,  e quelle del fuso orario.
In questo secondo giorno, che è domenica, meno male che non ha piovuto, così mi sono potuto permettere un giro largo del centro storico, con le sue belle piazze e chiese, con il via vai domenicale ed allegro dei quiteños, aspettando l’indomani lavorativo. Il mio domani invece sarà di viaggio, dirigendomi verso la zona di Quilotoa, con la speranza di visitare minuscoli villaggi, con comunità indigene e lagune, vulcani e mercati, confidando in condizioni meteorologiche favorevoli.
Forse sarei dovuto restare qualche giorno in più a Quito, tuttavia mi sono ripromesso di fermarmici al ritorno del giro ecuadoriano, per vedere qualcos’altro, e per fare qualche acquisto. Bisogna mettere in gabbia l’ansia del viaggio. Infatti, mi ha intrigato l’escursione della Laguna Quilotoa, attorno a cui ci sono dei paesini d’etnia Chichua, specialmente quello che ci sta a ridosso, omonimo della laguna. Fra un’indecisione e l’altra, ci vado direttamente, saltando un paio di posti segnalati dalla Lonely; che ci posso fare, il tempo non è molto, e non si può visitare tutto in tre settimane.
Il viaggio per arrivarci è variegato, prima con autobus, cambiando a Latacunga, capitale del distretto di Cotopaxi, poi a Zumbahua; di qui l’autista, rimangiandosi quello che m’aveva detto al terminal di Latacunga, mi dice che l’autobus non avrebbe proseguito, e che sarebbe occorso continuare in camionetta: solite puttanate per turisti. In piedi sul vano carico del camioncino, mi fanno buona compagnia anziane e giovani Quichua, di ritorno da qualche affare sbrigato nei centri più grandi; l’autista non sembra molto per la quale, e oltre a sbandare al limite del cappottamento per evitare buche, prende in pieno un dosso che gli fora il serbatoio della benzina: altra sola, a sette km dalla destinazione. Si comincia a camminare, anziché aspettare il prossimo mezzo, e chiacchierando fra noi appiedati, ci si conforta anche. Comunque, alla fine siamo raccattati, e riusciamo ad arrivare alla benedetta Quilotoa. E’ quasi sera, fa freddo e pioviggina, ma nonostante la voglia di riparo rinuncio alla prima offerta del solito facente le veci di un addetto alla ricezione turistica locale, che mi porta a casa di una donna, priva però del fattore convincente per me animale occidentale: la doccia calda. Ripiego su un hostal più grande e di tipo semi professionistico che sta all’ingresso del paese, con doccia e tutto, anzi quasi tutto; infatti, stiamo a 4000 Mt e il freddo incalza, e nella stanza ad un certo punto mi sembra di stare in una cella frigorifera, che al paragone casa mia senza riscaldamenti a febbraio mi pare calda. La dueña mi assicura che avrebbe acceso la stufetta a legna presente, affianco a letto e che no, non sarei morto a seguito d’esalazioni di monossido di carbonio. Titubante, mi organizzo per un giro nei meandri dell’abitato, con un’unica strada semi asfaltata, e il resto in terra battuta; incontro bambini che giocano coi maialini oppure con la palla, donne che danno da mangiare agli animali, ed alcuni uomini che si danno da fare per tirare su una costruzione di mattoni. Camminando, una donna col bambino sulle spalle mi accalappia per tentare una vendita di tessuti in lana: solite cose, berretti, maglioni con i disegni di lama, guanti; non ho niente da fare, e perciò la seguo dove ha la mercanzia, in una casupola di legno, ma faccio il freddo perché non ho voglia di mettermi già il terzo giorno a comprare roba. Lei va in ansia, e mi conduce in uno spiazzo dove si direbbe ci sia un piccolo mercato per turisti, occasionalmente chiuso per temporada baja, e comincia a mostrarmi atre cose. Il tarlo comincia ad insinuarsi in me, e quasi quasi comincio la contrattazione, solo che con la donna indigena col bambino sulle spalle, che comincia pure a piangere, per noia o per fame, non ce la faccio a tirare fuori la dose di cazzimma necessaria a non essere fatto fesso, e gli chiedo addirittura se è possibile far intervenire un maschio, che so un marito, un fratello, un padre, un cugino, ma niente, mi dice che lei è l’addetta alla vendita, per cui metto da parte i residui scrupoli e comincio la contrattazione seria. Il bambino nel frattempo disturba il mercanteggiare, cosi lei si scopre una tetta e gliela dà per zittirlo un poco. Dopo un po’, non prima di essersi fatta tre o quattro conti a bassa voce per rendersi conto se effettivamente ci stava guadagnando, ci accordiamo sul prezzo; il bambino ricomincia a piangere, sentendosi trascurato nella fase del pagamento, cosi lei raccatta da terra un involucro di un ex snack dolciario, e glielo dà, facendolo fesso, ed infatti lui se lo comincia a mettere in bocca, credendo vanamente di trovarci dentro una cosa buona.
Me ne vado con la busta dello shopping appena concluso, visto che si appresta l’ora di cena, consumata di lì a poco a temperature prossime allo zero, rannicchiato su me stesso, quasi con la testa nel piatto. La dueña dell’hostal ce la serve, dato che i dieci dollari pagati comprendono anche la mezza pensione; la sbobba è costituita da una zuppetta non meglio identificata e un pezzo di carne dura condita da un po’ di riso e ketchup. Demoralizzato, vado a prendere un poco d’aria, al termine della strada che attraversa il paese, e m’insinuo in una stanza semibuia di un rivenditore di semplici mercanzie, quelle occorrenti alla vita altrettanto semplice della comunità; dentro ci sono dei vecchi che ci danno dentro con un’agua ardiente torci budella: la provo e quasi do di stomaco, allora compro una bottiglia d’acqua e dei wafer ecuadoriani, per rifarmi il palato, e riempire lo spazio dello stomaco lasciato vuoto da quella cena morigerata. Un vecchio ubriaco mi parla in un misto quichua e spagnolo, e non ci capisco una mazza, mentre altri tentano di tenerlo a bada. Me ne vado infastidito, dopo qualche frase di circostanza.
La dueña, dietro mia insistenza, mi fa fesso e contento, e va nella stanza ad accendere la stufetta, che dovrebbe alzare di qualche grado la temperatura estrema con la quale occorrerà convivere questa lunga notte che mi si para davanti; che te lo dico a fare, la fiamma non attecchisce, e morto di freddo mi butto sotto una doccia che, quella si, è bollente. Ci sto mezz’ora trasformando il bagno in una sauna norvegese, alla faccia della paracula, tentando di immagazzinare nel corpo quanto più calore possibile, per affrontare il gelo della stanza. Sono le otto e mezzo, non c’è assolutamente niente da fare, e se provo a leggere, siccome la lampadina mi sta davanti anziché dietro, mi devo sporgere dal letto esponendomi al rischio raffreddamento, così mollo pure questa possibilità di svago, e mi rassegno alla lunga notte.
Comunque, sotto le pesanti coperte, alla fine non è andata male, e così la mattina mi sveglio in forma, e dopo una colazione peggiore della cena, mi dirigo verso la laguna, in fondo al cratere del vulcano, qualche centinaio di metri più in basso. Vaffanculo al soroche:  non sapendo neppure che stavo a 4000 Mt, il ritorno dal livello dell’acqua della laguna su per le pendici interne del vulcano mi ha massacrato, e ogni 10 metri mi sono dovuto fermare per prendere un poco di quel poco ossigeno presente; mi è venuto un mal di testa della madonna, che solo qui a Latacunga, molto più in basso, mi è passato.
Domani me ne vado a Baños, a fare un poco il turista scemo.
Baños è una cittadina ai piedi di un vulcano, con stabilimenti termali, da cui il nome, dove pare che la spada di Damocle di un’eruzione distruttiva penda sugli abitanti, ed, infatti, in passato sono già stati interessati ad evacuazioni forzate. Normalmente, però, è una destinazione turistica niente male, del genere di cui vanno pazzi i turisti indipendenti, che sono in ogni caso una bella fetta del business, in competizione con quello organizzato. Neanche arrivo all’hostal prescelto, che già da innumerevoli agenzie turistiche, che offrono escursioni del genere Indiana Jones, mi fanno cenno di avvicinarmi per mostrarmi le loro specialità. E che cazzo, almeno fatemi posare la valigia. Per quelli che hanno bisogno di sentire l’adrenalina che schizza fuori dai pori della pelle, ci sono da fare biking, rafting, bridge jumping, canyoning, riding, ed in più ci sono a disposizione centinaia di mezzi a motore, come moto da cross, squad e una sorta di go kart enduro; la puta que li pariò: immagino que le stradine tranquille di Baños, in momenti di alta stagione, si trasformino in arterie super trafficate tipo la zona del Museo nell’ora di punta a Napoli.
Vabbe’, siccome sono un tranquillo, decido per la mountain bike, con cui scendere lungo la strada Baños – Puyo, chiamata anche la strada delle cascate, un 60km per lo più in discesa, che porta dalla cordigliera fino alla pianura della zona ecuadoriana chiamata Oriente. In effetti, lungo la strada, che costeggia il fiume Pastena, che scorre giù in basso nel canyon, si passano innumerevoli cascate, alcune molto belle, raggiungibili attraverso scarpinetti per i fianchi del canyon, in mezzo alla foresta. In alcuni posti panoramici ci sono anche delle funivie che collegano le due sponde del canyon, a ridosso di qualche cascata, a circa 100 Mt d’altezza. Ovviamente non ci salgo, perché non ho voglia di stare appeso nel nulla su una sorta di paniere metallico e cagarmi sotto così, volontariamente, e a pagamento. Invidioso guardo gruppetti di turisti che se la spassano un mondo ad approfittare di queste diversioni, come pure l’ultra sessantenne che si è lanciato nel vuoto appeso ad una corda legata al parapetto di un ponte. Mannaggia le vertigini, e quante figure di merda devo sopportare ogni volta che si tratta di andare su un posto alto, cosa a cui devo puntualmente rinunciare. A Quito, i primi giorni, un paio di ragazzini mi conduceva verso la cima dei campanili di due chiese, e quando si trattava di affrontare il tratto più scoperto, ho dovuto lasciar perdere, sotto lo sguardo benevolo e comprensivo dei giovani, che per rispetto al turista, pure vecchietto e cagasotto, non facevano pesare la cosa.
Arrivato alle cascate più belle, quelle alla cui base è possibile bagnarsi, cosa che ovviamente non faccio visto che sono pure freddoloso, decido che è il momento di fare marcia indietro, così aspetto un bus di passaggio, ci carico la bici e me stesso, e me ne torno. Forse un bel bagno a 48 gradi presso lo stabilimento termale de La Virgen mi ricompenserebbe di queste mancanze volontarie.
L’indomani mi sveglio di buonora, visto che in ogni caso si va a letto presto, qui, e mi reco al mercato locale, dove nella zona del comedor si può fare colazione con jugos di frutta locale e empanadas de queso, dei piccoli calzoni fritti con un po’ di formaggio all’interno. Una vecchietta li stava preparando già verso le 7; le sue manine deformate dall’artrosi cucinavano sapientemente quelle cosette gustose, e lo facevano ogni mattina da 45 anni, come mi ha detto. Quando ho pagato si è fatta il segno della croce per ringraziare il buon inizio di giornata. Io, che cristiano non sono, vorrei invece che qualcuno li benedisse, questi comedores, che si trovano nei mercati cittadini, dove si possono mangiare delle cose buonissime a prezzi stracciati; quando ci sono ritornato a medio dia, dopo una passeggiata nei dintorni di Baños, ho mangiato una encebollada della madonna, una zuppa di pesce con dosi massicce di cipolla e qualche pezzetto di cavolfiore e pomodoro.
La giornata è scorsa via con un’altra passeggiata nei dintorni, avendo rifiutato le offerte dagli innumerevoli operetor per un’emozionante discesa in gommone di classe IV sul fiume Pastena. Che vadano a cagare. Ho incontrato invece, sul sentiero che porta al mirador della Vergine, in alto su una delle montagne che sovrastano Baños, dei bambini che, finita la lezione in città, se ne stavano tornando alle loro casette nel bosco. Pioveva, e loro solo con le tenute scolastiche, tutte uguali, camicetta bianca e gilè azzurro, sopra un pantalone o gonnina pure azzurri, allegri e scherzosi fra loro, affrontavano la salita fangosa con l’acqua che scorreva sui loro visi belli e sorridenti. Mi hanno un po’ preso per il culo, come un gruppo di bambini può fare con un vecchio, tuttavia mantenendo il rispetto di fondo per una persona mayor.
Sono in partenza per Riobamba, dove andrò per mercati.
A Riobamba in questi giorni si celebra la festa per la fondazione della città, con una serie d’eventi religiosi, civili e militari. Ci sono delle belle piazze e lunghe strade rettilinee, con mercatini alimentari e artigianali; a parte questo, però, non c’è molto altro, motivo per cui approfitto della giornata di domenica per andare a visitare il vicino mercato settimanale di Cajabamba, paesino poco più a sud. La domenica la comunità quichua locale ci si riversa per vendere ed acquistare mercanzie, e c’è un casotto nelle stradine laterali alla statale Panamericana, su uno spiazzo sotto la montagna, pullulante di gente, con ognuno che bada alla sua roba, e a fare affari. Non c’è quasi possibilità di camminare, fra bancarelle di verdura, modesti articoli per la casa, pesci e polli. N’approfitto per fare foto, facendola franca causa la distrazione dei singoli che stanno lì per fare soldi e  buoni affari, ignorando il turista con la camera in mano. Più in là c’è una coppia tipo il gatto e la volpe che circuisce la gente della montagna cercando di rifilargli un antidoto contro ogni possibile malessere fisico e spirituale. Una vecchia quichua, che sembra avere passato i cento, con la faccia solcata di rughe e bruciata dal sole degli altipiani, si sta facendo lavorare da uno dei due, chiedendo informazioni su un prodotto; alla fine si apparta un poco, solleva uno degli strati che la coprono, ed estrae il suo prezioso dollaro e mezzo per comprare la medicina a cui affidare la propria aspirazione al benessere.
Cazzeggio ancora per un po’, aspettando che si faccia medio dia per mangiare qualcosa; a proposito, non ho ancora dato un’occhiata al comedor del posto, così mi ci infilo, e scorro lentamente i diversi stand per vedere un poco che si almuerza oggi; ho poco da fare il presuntuoso, stavolta non trovo il coraggio per mangiarci, in questo comedor. C’è troppa commistione, troppa gente affollata intorno a banchetti di legno sudici, troppe teste di porco all’aria, e troppe zuppe e brodi dai colori tenebrosi. Ripiego su un ristorante che sta li vicino, che per un dollaro mi serve la solita zuppetta non identificata, con a seguire un piatto di riso scondito, accompagnato da un pezzetto di pollo e due foglie di lattuga.
Lo so che non dovevo farlo, però ho comprato il biglietto della corrida, che si tiene per la festa di Riobamba; sulla Lonely c’è scritto che qui normalmente il toro sopravvive, invece fa la stessa brutta fine che in Spagna, ammazzato lentamente dal matador e i suoi aiutanti. Inizia lo spettacolo, quando entra un tipo che presenta con un cartello il nome del torero e il toro, con il suo peso, e il pubblico comincia già a scaldarsi, poi il toro mezzo incazzato per essere costretto lì, in quel posto assurdo invece che stare a pascolare beatamente la sua erbetta; poi entrano i surrogati del matador protagonista, che cominciano a sfottere la bestia sventolandogli davanti drappi rosa, e fuggendo dietro paratie non appena le corna si avvicinano troppo. Dopo un poco, un paio di grassoni su cavalli bendati e protetti entra fra i fischi del pubblico; sono quelli che devono infilzare il dorso del toro per una decina di centimetri con lunghe lance, per fargli perdere sangue ed indebolirlo. Al pubblico non gli sta bene che i due indeboliscono eccessivamente l’animale, insistendo a bucarlo sul dorso, e cominciano a fischiare, e a buttare di tutto dagli spalti. Prendono di mira i cavalieri (ma che siano gordos apposta, per essere ancora meno simpatici?) con bottiglie di cola, con confezioni di succhi di frutta, con rifiuti vari, e quando i due malcapitati devono rientrare attraverso un varco della plaza, gli rovesciano addosso di tutto. Ora è il momento di quello che deve infilzare il toro con le banderillas, quattro in due momenti successivi, prova di coraggio e occasione di grossa tensione, durante il quale il matador si avvicina alle corna dell’animale: ora l’animale comincia a non capire più una mazza, perché sta soffrendo e perché sta facendo quella fine ingloriosa. Il matador viene con il drappo rosso e la spada nascosta dietro; deve far stancare ulteriormente il toro che sta perdendo sangue dalle ferite sul dorso, e il pubblico scandisce con gli olè gli assalti vacui dell’animale, a cui il torero si sottrae con eleganza e maestria. Il toro non ce la fa più, quasi non si muove, sta morendo: è il momento di infilzarlo fra le scapole, così il matador prende la mira, e con uno slancio di cosce gli si appressa e lo finisce, con la spada per intero nel corpo del bestione. Il pubblico gioisce, sventola un fazzoletto bianco, e all’unisono urla OREJA! OREJA! Gliela devono dare, perché se la merita, e così una specie di patron della corrida, vestito d’autorità’, prende l’orecchio del toro e lo taglia, consegnandolo all’eroe del giorno; il matador ringrazia facendo il giro della plaza coi suoi aiutanti,e con l’orecchio in mano, e la gente gli lancia i cappelli, le rose, e altra roba che non riesco ad identificare.
A Riobamba un altro giorno, domani c’è la Feria Macaji, con mezza cittadinanza che ci passeggia fra esposizione e vendita di cavalli, tori e mucche, negozi di artigianato e non, stand dove mangiare i piatti tipici del posto, e uno spalto su cui si alternano gruppi musicali, dal pop al rap latino. Ci vado, per passare il pomeriggio, ma già sono in procinto per andare a Salinas, sulle montagne, da dove sto scrivendo.
Salinas è un villaggio che sta in culo al mondo, però ci sta benissimo. Per arrivarci occorre percorrere una strada che è una mulattiera, saltando sui sedili del vecchio bus che da Guaranda conduce scolaretti ed insegnanti da e per il pueblito. Appena arrivati mi rendo conto quasi subito, mettendo piede nell’Hostal Refugio che si tratta di un posto dove regna un’atmosfera speciale, d’industriosa attività che mal si adatta al contesto tranquillo e disincantato del resto dell’Ecuador.
All’ufficio del turismo un ragazzo comincia subito a raccontarmi la storia degli ultimi trent’anni di questo posto, all’inizio dei quali un padre salesiano di nome Antonio Polo, venendoci, si trovò in un villaggio di capanne dove metà circa delle donne o dei bambini morivano di parto. Si è messo le gambe in spalla e ha cominciato a fare di questa comunità un esempio virtuoso per tutta la zona circostante, capace di mettere su attività estranee alla situazione, come produzione di formaggi, di prosciutti e salami, di cioccolato, di prodotti di lana di pecora ed alpaca, di funghi secchi ed altro. Per lo scopo sono venuti lì come volontari maestri svizzeri e italiani di varie attività, ed anche un tecnico canadese, dalla cui nazione sono state importate le macchine per la lavorazione della lana. Poi quello si è sposato con una del posto, e così garantisce l’assistenza tecnica e l’avviamento al lavoro per i futuri tecnici locali. Le cose sono andate proprio bene, ed ora la comunità eccelle in quei settori produttivi, esportando ad esempio in Italia, precisamente alla Ferrero, il 50% del cioccolato amaro prodotto; nel resto dell’Ecuador il formaggio, alle catene di commercio equo e solidale prodotti della lana come maglioni, borse, cappelli, guanti e calzini. Ho comprato dei funghi secchi per cucinarci il risotto con lo zafferano, e li ho trovati sia con la busta in spagnolo per lo smercio nazionale, sia con quella in italiano con tanto di logo Fairtrade, che trovo nei negozi in Italia di commercio equo e solidale. Cazzarola, finalmente ho risalito la corrente e mi sono trovato in un posto dove realmente producono la roba che a volte acquisto per farci dei regali, tentando di mettermi la coscienza a posto, con la convinzione che una parte dei soldi spesi sarebbe andata realmente e giustamente a quelli che producono tali prodotti.
Il rovescio della medaglia, per la seconda volta, è che ho avuto serie difficoltà a trattare sul prezzo con le donne che mi hanno aggiustato un maglione acquistato, dalle maniche troppo corte; e che cazzo, vengo a fare il bastardo proprio qui, alla fonte dei prodotti del commercio equo e solidale, dimenticando i buoni propositi che mi serbo in patria. A parte un timido tentativo di contrattazione, ho pagato quello che mi hanno chiesto, sentendomi ancora di più un verme, quando sono stato informato che occorrono 40 ore di lavoro a mano per quel maglione che stavo acquistando. Siccome il maglione lo prenderò domani, causa l’aggiusto sartoriale, vado in giro a visitare il resto della comunità: al caseificio, alla fabbrica di cioccolato, al salumificio, in giro per le stradine umide dove tutti salutano tutti, e sembrano vivere in una sorta di società parallela, rispetto a quell’usuale dove ci si fa i fatti propri e si pensa alla pagnotta propria, non dell’altro.
L’indomani mattina un ragazzo mi porta per altri stabilimenti dove non sono stato il giorno precedente: quello dei funghi secchi, della lavorazione della lana, della produzione di palloni di cuoio (niente bambini con le mani nella colla, ma una sorridente tizia che lavora con altre coetanee); infine, siccome vuole aprire una pizzeria, mi chiede le ricette per pizze e piatti di pasta, e un consiglio sul nome del ristorante: forse lo chiamerà Pizzeria Napoli, dopo che gli ho detto che la pizza è un alimento creato nella mia città. Lo porto quindi in giro per il mercato indicandogli le verdure da acquistare e come cucinarle, per utilizzarle sulla pasta o sulla pizza. Ormai è quasi ora di andare a ritirare il maglione, ma provo a fare visita al padre Antonio, che proviene da Venezia, e forse con Napoli ha un buon feeling; resto deluso, perché sta sulla costa per commissioni, però c’è un suo collaboratore, Alejandro, che mi parla ancora della comunità, del fatto che qui vengono tanti volontari, specialmente italiani, mandati sia con progetti statali di volontariato, come ora Peppe, un siciliano, che pure incontro, ed un altro paio che lavorano con i bambini, sia presentandosi semplicemente al padre, e che hanno voglia di aiutare, come un ragazzo svizzero venuto ieri, che faceva il negoziante di ferramenta, ed ora vuole stare qui per anno o più. Sono le 12 quasi, e ho appuntamento con le donne del laboratorio per il maglione, e quindi ci vado, siccome ho pure il bus che fra non molto devo prendere. Una delle lavoratrici, che il giorno prima mi aveva preso le misure, non ha ancora finito, e quando arrivo la trovo sferragliare a cento l’ora la manica sinistra, che è quasi pronta. Nel frattempo la responsabile del centro sta ricevendo una delegazione da Latacunga, che pure produce prodotti simili, ma non ha lo stesso esito delle colleghe di Salinas; stanno avendo una riunione, e mi intrometto per ascoltare, sentendo cose bellissime e forse utopistiche, altrove: “…qui a Salinas noi lavoriamo con il cuore, non solo per la sopravvivenza, e non per uno o due famiglie, ma per tutte…quello che si guadagna lo si divide fra tutti…il nostro esito è dipeso dal fatto che tutti, dalla madre sola alla studentessa, ha impiegato il suo tempo residuo per lavorare e portare avanti questo progetto…padre Paolo quando è venuto ci ha stimolato ad usare le nostre risorse per produrre beni di qualità, le nostre pecore per la lana dei nostri prodotti…noi non imitiamo gli altri, ma cerchiamo di innovare la nostra produzione per ricavare uno spazio nel mercato…”. Quasi mi venivano le lacrime a sentire una donna di tale statura morale e di tale dignità, che qualsiasi mio problema al confronto coi discorsi che sto sentendo mi pare una tale puttanata. Gli ospiti di Latacunga, capeggiati anch’essi da una donna, prendevano appunti e facevano domande, e alla fine si congedavano con modestia e con uno scambio di auguri per le rispettive attività.
Nel frattempo il mio maglione è pronto, me lo metto, vado a mangiare all’Hostal Refugio un filetto di trota in salsa di alloro, prezzemolo e pepe, accompagnato da riso abbrustolito con pezzetti di carote e peperoncini, e preceduto da squisita zuppa di verdure, innaffiato il tutto da jugo di frutta locale, e faccio giusto in tempo per il bus per Guaranda, poi Riobamba, poi Alausì.
Dopo Salinas mi ero affrettato per recarmi ad Alausì, paesotto alquanto al sud, dove passa il treno che porta alla famosa Nariz del diablo, tratta costruita agli inizi del secolo che sfida le montagne, e le oltrepassa con una serie di tornanti e saliscendi mozzafiato; tuttavia in questo periodo il treno non c’è, sostituito da un iper turistico vagone unico, diesel, stile autobus, dove i curiosi della ferrovia si siedono sopra e dentro per farci il giro dalla città al passo menzionato e ritorno, il tutto della durata di un’ora e mezza. Forse me lo potevo risparmiare.
Me ne vado quindi a Cuenca, percorrendo la Panamericana che scende verso sud, attraversando la cordigliera delle Ande ecuadoriane. Siccome è tempo di pioggia, quasi sempre si viaggia in mezzo a nuvole, intersecandole, in un paesaggio fosco e che mette timore. Il bus avanza sulla strada per lunghi tratti dissestata, cercando di evitare grosse buche, sbandando vistosamente, mentre oltre il bordo della strada non si scorge niente, solo una muraglia biancastra, e non si sa se dopo c’è il precipizio o una distesa di campi verdi. Ogni tanto una casupola o una campesina, che si aggira per la sua terra, dai contorni avvolti dalla nebbia.
A Cuenca mi ospita un tipo del Servas, che a differenza di altri qui e a Quito, ha risposta alla mia e-mail. E’ gentile, giovane, ha un negozio molto fornito di biciclette e attrezzature da montagna; in passato ha fatto l’istruttore di bici da competizione su fuoristrada, poi ha preso coraggio e ha aperto il negozio. Ora, assieme all’attività commerciale, ne conduce parallelamente una sportiva, partecipando a gare nel suo paese, e in quelli limitrofi. Manco a farlo apposta, assomiglia a Pantani. Galo, così si chiama, è sposato con una ragazza più giovane, che studia all’università, figlia di una famiglia della borghesia alta, proprietaria di una radio che prima era una televisione, ai tempi del nonno. Famiglia dalla cultura e dai caratteri fisici europei, che non ha niente a che fare con i compatrioti dai tratti indigeni e misti, che conducono uno stile di vita più sobrio e tradizionale. Ho proposto di preparare una cena italiana, per ricambiare la bella ospitalità che mi stanno offrendo, a casa dei genitori di lei, che sembra abbiano apprezzato. Beviamo vino rosso argentino, e vediamo qualche foto di un loro giro alle Galapagos, e cosi la cena finisce, fra chiacchiere e scambio di conoscenze.
Cuenca è veramente bella, città coloniale amata dai suoi abitanti. Le strade sono pulite, le piazze ariose con belle chiese che sovrastano, c’è la tradizione di cappelli di paglia fatti a mano, i famosi Panama, con i vecchietti che ad ottant’anni ancora si premurano di vendere a prezzi niente male, forse devono lasciare i soldi ai figli o ai nipoti; però, una volta girato per la città, chiacchierato col vecchietto dei cappelli, visitato una fabbrica degli stessi, rilassato nelle piazze, non c’è molto altro da fare. Ad essere sincero si organizzano delle manifestazioni culturali niente male, ma non nei giorni in cui ci sono stato io, infatti, mi sono perso la settimana scorsa una rassegna Jazz che si è svolta nelle varie piazze cittadine.
Dopo averci passato un paio di giorni, me ne vado più a sud, verso il mercato domenicale di Saraguro.
Arrivo a Saraguro in mezzo alla nebbia, pioviggina e c’è solo desolazione, almeno apparente. E’ uno di quei casi, quando ad una persona verrebbe voglia di rimettersi in un bus e fuggire lontano da questa tristezza; la tentazione mi è venuta, invece chiedo in giro, agli affascinanti rappresentanti della comunità locale, dove cazzarola sta il Residencial Saraguro. E’ chiuso, perciò mi dirigo all’albergo “lussuoso” della città, che offre stanze a dieci dollari la notte. L’indomani c’è la feria domenicale, motivo principale perciò ho deciso di fermarmi; approfitto delle poche ore di luce che restano per fare un giro e prendere confidenza col posto. Un cartello invita a contattare il gruppo degli alcolisti anonimi, per un futuro migliore, ma la sera, nell’unico ristorante della plaza aperto, degli adolescenti ci danno dentro con le birre, per ammazzare la noia, o la disillusione per una vita modesta e senza aspettative.
La gente qui è vestita tutta in maniera simile, con una specie di uniforme che la contraddistingue dagli altri gruppi etnici del paese; gli uomini indossano un pantalone nero, corto a metà polpaccio, con a volte una specie di grembiule bianco sul davanti, mentre le donne una gonna, pure nera, fatta a pieghe, con uno scialle addosso le spalle, chiuso davanti da una pesante spilla d’argento, assicurata al collo da una catenina lavorata, il tutto sopra una bella camicia bianca, e poi un cappellone bianco maculato sulla testa. Questo ben di dio, però, mi sembra che lo indossino più nei giorni festivi che abitualmente.
Sono stato fortunato, perché sabato sera ho assistito ad una festa di piazza, dal carattere religioso, dinanzi la chiesa principale. Prima di andare a cena mi sono trovato in mezzo ad un gruppo di persone che ballavano una musichetta a tamburi, trombe e tromboni con accompagnamento di fisarmonica, tutti con addosso una maschera dai caratteri mostruosi, o sinistri, come teschi, mostri, facce deformi. Ho chiesto ad un vecchio che cazzarola era ‘sta roba, e quello mi ha risposto che era per la Festa de la Virgen. All’uscita del ristorante, dove c’erano i ragazzi sulla via dell’etilismo, più qualche coppia che mangiava, insieme a me, la solita zuppa e per secondo il riso e pollo, nella piazza hanno cominciato ad armeggiare una struttura fatta di canne, su cui era assicurata una serie di fuochi artificiali, con girandole e altro, sormontata dalla figura della Madonna. Man mano, per ergere questa figura dall’altezza della facciata della chiesa, si aggiungevano sotto altri pezzi, fra ipotesi di crollo e gli AAAHH della folla che presiedeva al processo. Mi sono allontanato un poco per precauzione, visto che non ci tenevo a fare il “turista italiano morto durante una festa religiosa nel sud dell’Ecuador”, dalle pagine dei nostri quotidiani. Alla fine dell’opera, un paio d’ubriachi ha cominciato a ballare con la musichetta di cui prima, e con due pupazzi di cartapesta addosso, raffiguranti una coppia, pure questi forniti di una filiera di fuochi; se n’andavano in giro per la piazza ed in mezzo la gente, con i fuochi che lanciavano tracchi e razzi, incuranti del pericolo, sotto una pioggia ardente di bengala, e la gente che scappava, compreso io. Alla fine hanno acceso la Madonna, e pure da quella dei razzi prendevano traiettorie inaspettate, qualcuno in mezzo alla gente, che si muoveva ed ondeggiava in base alla situazione di pericolo.
La mattina seguente me ne sono andato in giro per il mercato e per la feria domenicale, scattando qualche foto e cazzeggiando come potevo, nell’attesa dell’almuerzo e del bus delle 13 per Loja, dove cambiando sarei arrivato a Vilcabamba.
A Vilcabamba i vecchi campano cento anni o più, dicono, per via della dieta con pochi grassi, dell’acqua buona, e del lavoro manuale; perfino i pacchetti di sigarette reclamizzano questa opportunità, a dispetto del cancro ai polmoni. Mi chiedo un vecchio che cosa faccia nei cento e passa anni passati fra queste quattro stradine con una piazza ed una chiesa al centro. Forse la vita bucolica a cui noi cittadini tanto aneliamo.
Anch’io per due giorni faccio la vita bucolica, camminando dalla piazza all’hostal, dall’hostal al ristorante per l’almuerzo, dal ristorante alla piazza. Certo, c’è qualche bar o pensione gestita dai soliti occidentali che hanno voluto cambiare vita, o venire qui a svecchiare, tuttavia l’ambiente non mi sembra dei più gradevoli, e per poco non ho mandato a cagare un ubriaco a gin che si ostinava a parlarmi in inglese sotto gli sguardi imbarazzati dei dueños biondi europei. Però Vilcabamba è reclamizzata dalla Lonely come posto dove rilassarsi, farsi massaggiare, andarsene per passeggiate su montagne e parchi, e quindi così sia: organizzo per l’indomani una cavalcata fino ad una cascata, nel parco Podocarpus, e al rientro il massaggio stendimuscolicontrattidalcavallo.
Il ragazzo del centro equestre, Dany, così si chiama, forse non ha capito che c’ho quasi 39 anni e che l’ultima volta che ho montato a cavallo risale a molti anni fa, per cui si lascia trasportare dalla sua routine cavallerizza e sprona gli equini al galoppo. Il sole cuoce il cranio, è medio dia, e finirò per ustionarmi collo e capo. Meno male che dopo aver guadato un ruscello lasciamo la carrettera principale per insinuarci attraverso i boschi, su per la montagna. Il cavallo sopporta a stento i miei 97 kg, e respira come me, quando sostengo gli esami d’Aikido, cioè sta per schiattare, con un infarto che potrebbe stroncarlo da un momento all’altro. Dany, gli dico, il cavallo è stanco, forse dovrebbe riposare. Lui dice che no, va bene così, è solo che e’ un poco gordo. Sarà, però sono preoccupato lo stesso.
Salendo, il fiumiciattolo si fa sempre più in basso, mentre si scorgono ora le vallate del parco nazionale. Lasciamo i tratti in salita per dei sentierini che costeggiano strapiombi, che manco alla mia altezza normale li avrei percorsi, figuriamoci da quella della sella; è la punizione per i cagasotto come me, che si lasciano impressionare dalle altezze, qualcosa che non possono controllare. Il torace del cavallo pare un motore a stantuffo, si espande spasmodicamente per mandare ossigeno ai muscoli stremati; che vita di merda, starà pensando, a portare sulla groppa annoiati turisti per le montagne. Ti comprendo, cavallino mio, la vita è dura e triste, però non scegliere oggi per suicidarti, aspetta fino a domani…
Arriviamo finalmente al punto in cui sostiamo, perché lì sotto c’è la cascata oggetto dell’escursione, perciò mentre i cavalli meritatamente prendono il loro riposo, mangiando un po’ d’erba, Dany ed io scendiamo giù per il monte, per vedere l’acqua della cascata precipitare verso di noi. Dopo le solite foto di rito, risaliamo su, mentre il cielo si fa minacciosamente scuro. Comincia, infatti, un diluvio della madonna, e dopo aver aspettato un po’ al riparo di una capanna, lì nei paraggi, decidiamo di andare lo stesso, perché non ci sono previsioni di schiarite. E che cazzo, lo sapevo che avrei dovuto portarmi la giacca antipioggia, a dispetto del sole di mezzogiorno, e invece me la sto beccando tutta, la pioggia che scende a catinelle, come sotto una doccia vestito. E’ una delle sensazioni che più mi da fastidio, avere finanche le mutande inzuppate, con l‘acqua che scorre giù per la crapa pelata fino ai calzini, e un vento che gela le ossa. Dany, come John Ford, ha il cappello di cuoio, che l’ha riparato prima dal sole, poi dall’acqua, mentre io solo gli occhiali scuri…Assume pose da autentico cowboy, galoppando con le redini solo nella mano destra, l’altra libera a bilanciare il corpo, incurante della pioggia. Io m’accontento di qualche bestemmia di tanto in tanto, sognando il momento in cui mi butterò sotto la doccia calda.
Finalmente ritorniamo, e quando scendo da cavallo mi pare di avere le cosce tipo monoblocco, che quasi mi fa strano a camminare. Però dopo la doccia e il cambio dei vestiti spugnati ed infangati, mi aspetta anche un bel massaggio rilassante, oltre al colpo di culo di un ristorante casereccio che accetta di preparar un ceviche de camarones. Stasera riesco ad evitare il riso scondito con pollo.
Stamattina, dopo il desayuno presso lo stesso ristorante di ieri sera, a cui sono stato grato per la cena precedente, ho preso un bus per Loja.
A Loja visito il bel centro, con le solite piazze e chiese, ma con una popolazione allegra che mette di buon umore, un’ottima pasticceria, e un ristorante uruguayo dove sbafare un filetto alla brace come dio comanda. Non è tempo di risparmi, ora si pensa alla panza. Attendo il volo interno della compagnia Icaro, che mi riporterà verso l’inizio del viaggio, a Quito. Ho ancora da visitare Otavalo, per compensare le mie precedenti frustrazioni da shopping nel famoso mercato artigianale; posso finalmente dare sfogo ai miei istinti più bassi mercanteggiando fino all’ultimo cent, come in una disciplina sportiva, gli acquisti da portare a casa.
Quito è bella, e il pomeriggio che sta per diventare sera alimenta la mia malinconia da fine viaggio, quando si sta per lasciare un posto che sai di non rivedere per moltissimo tempo, o forse mai più. Cammino sotto le nubi scure, pesanti di pioggia, cercando di imprimermi le ultime istantanee di questo viaggio e questo paese, nell’attesa del consueto momento di organizzare l’addio a questa terra, e il ritorno a quell’altra.


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