Sri Lanka 2013


racconto di viaggio dal 5 al 23 febbraio di Carlo

srilankaQuesto febbraio si va in Sri Lanka! Dal 5 al 23. Ci vuole di fatto una giornata e una notte intera per arrivarci. Prendiamo un volo diretto Roma-Colombo con la Srilankan Airlines, per 600€, più dieci per ammennicoli vari (c’era pure a 578, ma non c’erano più posti…), e combiniamo per l’auto con una locale agenzietta viaggi a gestione famigliare per 675€ per diciannove giorni, tutto compreso (auto, prenotazioni, pernottamento con prima colazione e cena, in guest houses e alberghi da una o due stelle; e anche una SIM locale per il cell). Questa agenzia (greenwaytravel@sltnet.lk) tenuta da due fratelli Amal Herby e Kennedy, l’ho conosciuta tramite il figlio di una nostra amica, il quale lavora nelle org. di volontariato, solidarietà e cooperazione internazionale (grazie a cui dopo lo tsunami hanno avuto un aiuto da enti ferraresi).
Concordiamo per un giro cosiddetto “tailors made tour” cioè ritagliato e confezionato su misura. Decidiamo di andarci assieme ad una coppia di nostri amici, Marco e Lucia.
 E allora, sentita la cosa, anche la sorella di Marco, con tre sue amiche, combina per andare pure lei con Amal per un viaggio da fare subito in gennaio, e così loro ritorneranno quando noi partiremo. In questo modo aiutiamo un po’ anche noi questa agenzietta di Negombo: la “GREENWAYTRAVELSLANKA“.
Le contrattazioni e discussioni via mail con il nostro corrispondente, il cordiale Amal, sul percorso del giro e sulla scelta degli alberghetti, si fanno sempre più fitte fino all’ultimo momento dell’ultimo giorno… Insomma poi concluderemo tutti gli accordi una volta arrivati là di persona, guardando in internet assieme a lui a casa sua (che è la sede dell’agenzia) a Negombo, sul suo computer i vari siti tipo TripAdvisor eccetera, per trovare delle sistemazioni di nostro gradimento. 

In effetti in Sri Lanka il mese di Febbraio è una stagione molto prenotata, e si fa fatica a trovare quattro letti soprattutto nella costa sud, che è la più turistica (dove faremo il soggiorno finale per riposarci dopo il giro). Poi chiedendo info sul posto, constateremo che non poche guest houses e alberghi minori hanno la cattiva abitudine di praticare l’overbooking (cioè accettano più prenotazioni delle loro effettive disponibilità) per non rischiare di trovarsi con stanze vuote a causa di rinunce e cancellazioni senza preavviso (cattiva abitudine di molti turisti occidentali), per cui fanno pagare una tariffa più bassa alle prenotazioni fatte da Agenzie (che danno loro maggiori garanzie), rispetto alla cifra che chiedono allo straniero sconosciuto che individualmente telefona e ferma una camera all’ultimo momento.
Così per evitarci spiacevoli sorprese o doversi adattare a soluzioni di ripiego (del tipo: “la camera è momentaneamente occupata, ma le trovo io una soluzione altrove”…) e dovere magari stare separati dai nostri amici, questa volta preferiamo prenotare tutto il giro prima di partire.
Dato che la nuova edizione (luglio 2012) della LP, stampata a gennaio 2013 in italiano, non è ancora uscita (è attesa in libreria proprio in questi giorni…), prendo la Rough guide (però in inglese, ed.2009, perché c’è anche in it. nelle ediz.Vallardi, ma 2007), ma sia la Rough che anche la Routard sono un po’ vecchiotte, quindi compriamo la guida del simpatico scrittore britannico Royston Ellis, che da decenni vive a Colombo, scritta per le Bradt guides (trad. in it. da FBE edizioni), del 2010, anche se devo dire che è tradotta proprio malino. (E comunque mi vado a riguardare la mia vecchia guide bleu dell’India che comprendeva anche Ceylon, e anche l’enciclopedia Il Milione). Poi in loco prenderò anche una tourist guide locale.

Ecco che partiamo per Sri Lanka, a sud della punta meridionale dell’India, e la gireremo per diciannove giorni. E’ la famosa isola di Ceylon, paradiso tropicale dove si producono il thé e la cannella più buoni del mondo…
Era nota da noi sin dall’antichità con i favolosi nomi di Seilão, Simond, Zeylàn, Serendippo, e Taprobane… Secondo Plinio fu per certo identificata ai tempi di Alessandro, è poi presente nelle mappe di Tolomeo; Diodoro siculo dice che a Taprobane gli abitanti avevano una lingua biforcuta; e Isidoro di Siviglia nel 600 d.C. circa, scriveva che è piena di pietre preziose. Marco Polo accenna a Seilam come “la più bella isola di tali dimensioni che esista al mondo”, nel libro Il Milione scritto dall’amico Rustichello nel 1298. Porcacchi ne “Le Isole più famose del mondo” (1572) diceva che è piena di ricchezze, elefanti, e grandi tartarughe. Tommaso Moro collocò la repubblica di Utopia forse su un’isola dell’oceano indiano, vicino a Ceylòn, e Campanella fece dell’isola di Taprobane la sede della città del Sole…
Anche grandi viaggiatori orientali la descrissero, come l’arabo Ibn Battuta (che fu ospite del re di Jaffna) nel 1344 (cfr. A.Fucecchi e A. Nanni, L’altro Milione, EMI, 2000), e come il cinese  Zheng-He che vi approdò nel 1405, e che il suo socio Ma Huan illustrò nella relazione scritta del viaggio (cfr. su questo navigatore il libro di M. Yamashita, trad. it. edizioni White Star, Vercelli, 2006, con premessa di G. Guadalupi, pp. 304 e segg.).

E’ l’isola della serenità (e in effetti pare che la gente in questi ultimi decenni abbia sopportato stoicamente persino i disastri del conflitto che aveva spaccato in due il Paese -come in India ai tempi della spartizione-, e poi anche quelli causati dallo Tsunami del 2004).
Non per nulla è collegata al concetto di serendipity (vedi su questo Blog il post di luglio 2011:
http://viaggiareperculture.blogspot.it/2011/07/diario-di-viaggio-nellindia-del-sud.html – dove al §. 3 parlavo dell’ origine di quel nostro neologismo
), da Serendib l’antico nome persiano dell’isola, e dalla leggenda di un principe locale che assieme ad alcuni amici fece come per caso molte meravigliose scoperte.
Ed è perciò che  il romanziere John Barth a questo proposito scrive questa bellissima frase che qui  voglio riportare:
“Non si raggiunge il paese di Serendip tracciando un percorso. Si deve sempre partire con spirito aperto, rinunciare alle proprie certezze e abbandonarsi alla serendipity.”
(“The Last Voyage of Somebody the Sailor”, New York, 1991, il cui titolo è una parafrasi del libro sui viaggi del favoloso marinaio Simbad).
Dopo la Thailandia e il Nepal, (e anche in parte il nord dell’ India), e la Birmania, è questo il quinto popolo buddista che visiterò.

Ecco dunque il mio diario:

Martedì 5 febbraio
Si parte! Certo che è lunga la via…. Da casa andiamo a Ferrara alla stazione, e da lì a Bologna, dove prendiamo un treno per Roma, poi prenderemo il treno-shuttle da Termini a Fiumicino, per arrivare per tempo al gate dell’areoporto (abbiamo già fatto on-line i visti, e on-line facciamo il check in, in modo da evitare la lunghissima coda). Quindi si vola tutta la sera e la notte, ma direttamente fino a Colombo senza scali o cambi.
E così siamo di nuovo in viaggio, e già in aereo incominciamo a vedere singalesi e a respirare un’altra atmosfera, e ci si distacca dalla nostra italietta, specie in questo periodo folle di campagna elettorale (il che già di per sé non è niente male…!).

I passeggeri srilankan del nostro volo sono scuri di pelle, o marroni, o cacao, o neri, o “abbronzati”, ma comunque con visi tipo i nostri, voglio dire che a parte il colore, sono abbastanza simili di aspetto fisico ai volti di tipo europide, magari certi sono soltanto un po’ più piccolini e minuti degli occidentali. La lingua invece ha una sonorità simile a quella del sud dell’India, veloce e arrotolata.
Avremo una fantastica visione notturna di Dubai dall’alto con tutte le luci accese nel buio.

mercoledì 6: NEGOMBO
Arriviamo alle 5:50 del mattino. Amal (che è venuto col figlio 17enne) ci accoglie con fiori.
Prendiamo subito in aeroporto una phone card ricaricabile, della Dialog, che ci da pure un carnet di buoni sconto su varie cose (alberghi, ristoranti, bar, negozi, spa, ecc). Andiamo direttamente a Negombo (a nord della capitale), che è la città più vicina, a una ventina di minuti in auto,  dove ci sistemiamo in una pensione famigliare che si chiama “Suriya Arana rooms” che significa: “foglie di sole”, nel quartiere Etukala. Marito e moglie fanno gli affittacamere nella loro casa; ci sono  anche il figlio di dieci anni e un inserviente. La signora, Mrs Judith, è molto cordiale e sorridente, le camere, con bagno, belle, a posto, con un giardino dove si mangia ai tavolini, pieno di uccellini e scoiattolini, in una viuzza laterale (St.Joseph Rd, off Park Lane), parallela alla via costiera principale nord, con connessione wi-fi gratuita
(www.suriyaarana.com).
Appena poggiate le valige, subito andiamo a guardarci un po’ attorno e come avevamo già notato arrivando in auto, la città è più pulita e ordinata, in termini relativi, rispetto a certe città indiane. Andiamo sulla spiaggiona, dove ci sono anche dei grossi catamarani da pesca con un bilanciere laterale, che qui chiamano oruwa. Il nostro termine catamarano deriva proprio dal nome in tamil di questi barconi, cioè kitti, o ketti-maran.
Poi guardiamo un po’ di negozietti, dove ci rendiamo conto che alcuni sanno anche qualche parola in italiano (vari sono stati o hanno un parente a lavorare in Italia). C’è un sole fortissimo e la temperatura è sui trenta gradi o superiore. Va via l’elettricità dappertutto, pranziamo in un localino che ha un suo generatore autogeno (lo scegliamo per via del frigo), porzioni abbondanti, e buona qualità. E’ uno dei tanti che si susseguono lungo la Porutota Road. Torniamo alla pensione stanchi, accolti da mrs Judith. 

Dopo un riposino dovuto al caldo preso nella passeggiata, e al cambio di fuso orario, Amal ci porta in giro per Negombo, in centro. La città conta oggi 105 mila abitanti, ed è abitata in grande parte della minoranza cattolica. Il luogo all’arrivo degli europei era chiamato dagli abitanti Migamuwe (che significa “questo posto”), storpiato dagli inglesi in Negombo, che i locali pronunciano Nicambo, cioè best nest, “il miglior nido”. E’ una cittadina di case basse e c’è molto verde, alberi, e fiori. 
Così in centro possiamo cambiare i soldi nel retro di una gioielleria (171 rupie per un €uro), e Marco cerca le sigarette che però fa fatica a trovare perché sono pochissime le tabaccherie; Amal ci dice che in generale i singalesi non fumano molto e comunque non in pubblico, e che a Kandy addirittura è proibito fumare in strada, dato che è la città santa del buddismo singalese. E che secondo l’immaginario di molti, gli occidentali sarebbero invece gente che beve molto vino, birra e alcolici, e fuma molto tabacco (e altro)…  
Apprezziamo il fatto che andando in giro non si viene assediati da venditori, e sono quasi tutti puliti e rispettosi. 
E poi ci porta nella zona del porto vicino al fish market. 
E’ molto interessante, per tutto questo tratto di spiaggia si vedono le mogli dei pescatori che dispongono il pescato su dei teloni di sacco lunghissimi sulla sabbia, per lasciarlo essiccare; lo ripartiscono per tipologie, stando accucciate al sole. Sono quasi tutti del clan dei Karavas.
E’ uno spettacolo curioso e che non ci aspettavamo, con queste strisce con pesci di colori differenti… Le donne ci chiedono delle caramelle (!) che si mangiano subito, e scambiamo due parole avendo Amal come intermediario. Intanto ci sono in spiaggia, oltre a innumerevoli corvi e cornacchie, anche delle mucche coi vitellini, che mangiano gli avanzi tra il pattume.
Al mercato del pesce, tra Sea street e la spiaggia, parliamo un po’ di più con una donna il cui marito è andato a cercare fortuna in Italia, è andato a Napoli e là non trova lavoro, e ora non sa come fare… Commentiamo sui problemi degli emigranti che incontrano varie e grandi difficoltà, spesso dovute a ignoranza e a illusioni o aspettative sproporzionate (
si veda su questo il film italiano del 2011 “Into Paradiso”, di Paola Randi, con G. Imparato, in cui il singalese Gayan scopre amaramente di non trovarsi affatto nel sognato paradiso e l’illusione della ricchezza che lo aveva spinto a emigrare in Italia svanisce rapidamente), ma alla fine quelli che riescono a farcela, inviano a casa un aiuto in denaro (tanto che le rimesse dall’estero sono ora salite al primo posto tra le fonti di entrate del Paese…).
Le imbarcazioni dei pescatori sono in generale o del tipo “one-day boat”, con cui si esce a pesca e poi si rientra per la vendita, e sono barche piccole, oppure “multi-days boats” che sono pescherecci di una certa stazza che stanno via alcuni giorni, e prendono al largo grandi quantità di pesci. Ci sono centinaia e centinaia di barche e di pescherecci lungo le coste della foce del fiume.
Amal ci dice che qui lo tsunami non ha causato morti, ma resta nella memoria della gente perché l’impatto della forte onda ha rotto o lesionato praticamente tutta la flotta peschereccia mettendo in ginocchio la città. Sono poi arrivati fortunatamente molti aiuti dall’estero che hanno permesso di riprendersi in pochi anni (il volto positivo della mondializzazione: la solidarietà internazionale). Si è poi sviluppato anche il turismo, e il commercio. 

Poi passato il ponte andiamo a dare una occhiata all’asta dei grandi pesci, o di pezzi di grandi pesci, che si tiene in un mercatino apposito in Mankuliya Rd.
Al ritorno andiamo a casa di Amal, e ci riceve tutta la famiglia al completo! (con moglie, suocera, figlio maggiore e bambina di 11 anni, e la nipote grande che aiuta col computer a tenere la amministrazione dell’agenzia). Ci offrono pasticcini e thé. Non hanno la televisione perché il padre (cioè Amal) non la vuole, si trovano piuttosto con amici a chiacchierare. La casa è della suocera ed è abbastanza spaziosa.
A Negombo ci sono più che altro scuole maschili o femminili, ma poche scuole miste. A questo proposito dicono che la Signora Bandaranaike (la moglie del presidente ucciso nel 1959 da un fanatico monaco buddhista) è stata un grande modello di donna moderna (fu la prima donna nel mondo ad essere capo di governo, dal 1960 al 1977, e poi nel 1995).

Più tardi, una volta rientrato in Italia, leggerò che a Sri Lanka si segue anche un particolare diritto consuetudinario, legato alle antiche tradizioni, le cui clausole relative a matrimonio, e successione sono tutt’ora osservate. Una stabilisce da lungo tempo che è riconosciuto il divorzio, non solo per adulterio o per abbandono, ma anche per reciproco consenso. Inoltre vi sono due tipi di contratto matrimoniale, uno segue la tradizione diga, secondo cui la moglie entra nella casa e nella famiglia del marito e non ha più diritti sui beni dei propri genitori; l’altro è il matrimonio di tipo binna, secondo cui invece è il marito ad andare a far parte della famiglia dei genitori della moglie, e va a vivere nella loro casa. Questa mi pare dunque la tradizione osservata in casa della suocera di Amal … (anche se magari oggigiorno le motivazioni razionali che vengono addotte per spiegare la scelta fatta, possono essere differenti, per esempio di convenienza economica, resta tuttavia la forza dell’esempio di ciò che tradizionalmente è non solo accettabile e accettato, ma è stato possibile e contemplato).
Questa è proprio una buona (e bella) famiglia, il ragazzo è dolce, e la nipote è molto sveglia.
Amal ci dice che a Sri Lanka ci sono spesso tra la gente incomprensioni per il fatto che le due maggiori componenti etniche (singalesi, 73,8%, e tamil, 9,5% -distinti in locali e indiani-, e più alcuni altri: 7,2% mori, infine burghers e malesi) non conoscono l’una la lingua dell’altra … (74% parla in sinhala, 18% in lingua tamil, che comprende ad es. i musulmani; più altre lingue minori). Per il momento la capacità di parlare inglese è circa al 10% (in quanto è assai limitata al di fuori di Colombo e della striscia turistica costiera), ancora troppo poco perché possa fare da tramite popolare di comunicazione tra comunità diverse. Oltre al dato linguistico, la maggiore distinzione all’interno dalla popolazione dello Sri Lanka è data poi  dall’appartenenza religiosa (buddisti, 73,7%; hinduisti, 8%; musulmani, 8,5%; cristiani, 6,1%; più parsi e alcuni altri), per cui ognuno tende a vivere all’interno dei propri giri e contatti comunitari (per es. per i musulmani si fa differenza tra sunniti e sciiti; per i cristiani, tra cattolici e quelli di altre chiese).
Comunque ciò rappresenta già un passo avanti rispetto al passato quando prevaleva la complessa distinzione per caste (che oramai erano coincidenti con le professioni lavorative o con la condizione sociale di origine della famiglia). Ora quei vincoli non sono più così forti come un tempo (ad es. come quando la nonna era giovane) e quindi i matrimoni si contraggono tendenzialmente per scelta dei giovani ma guardando anche alle possibilità di miglioramento economico, mentre è assolutamente tassativo che rimangano all’interno della propria comunità religiosa.
Girando per la zona centrale dei negozi si capisce che molti sono commercianti, ma che non producono le loro mercanzie, perché non sono artigiani, il commercio in questo caso dunque non nasce da una base di artigianato. 
Alla sera facciamo una passeggiata lungo la spiaggia.
Poi, quando viene buio (il che accade verso le 6 e 20 pm) torniamo e ceniamo nella guest house, Judith è una buona cuoca. Il marito di Judith che abbiamo appena incrociato all’arrivo, è partito per accompagnare dei clienti in un giro di vari giorni, e quindi lei è abituata a tenere da sola la conduzione della pensione. Si mangia fuori in giardino, con i cinguettii degli uccellini e gli schiocchi dei gechi.


GIOVEDI’ 7:  LA  LAGUNA
Al mattino presto andiamo a fare un boat ride, un giro in barca sui canali interni e sulla foce del Maha Oya (=fiume maggiore). La città di Negombo si era sviluppata con il commercio della cannella, poi con un canale costruito nel periodo del colonialismo olandese, chiamato Hamilton canal, che l’ha collegata a Chilaw (già in portoghese Chilão) più a nord, e a Colombo che è pochi kilometri più a sud, si è sviluppato il commercio portuale, e la pesca nella grande laguna retrostante (Negombo Lagoon), e nell’oceano.

Il canale nella parte iniziale è un po’ sporco, per l’attività dei pescherecci, ma poi più avanti è pulito (pur essendovi fango), e infine dove l’acqua è ferma è anche limpido.
E’ una magnifica gita, calma e silenziosa, in un contesto tropicale STUPENDO, che per molti versi ci ricorda molto quella che facemmo nel sud dell’India nel 2006, in Kerala nelle backwaters con il barcone kitta-wallam, anche se è ovviamente differente per vari aspetti… ma le sensazioni e i pensieri che quella gita sull’acqua mi aveva stimolato allora, sono le stesse che ho provato anche in questa occasione, e dunque ora non li riprendo perché scriverei praticamente quasi le stesse cose. La nostra barca si chiama “Om dolphin“.
La vegetazione ai bordi del canale e poi nei passaggi in laguna, è veramente lussureggiante e strabordante, vediamo numerose specie di uccelli, e di altri animali, e possiamo osservare la vita dei contadini dei villaggi.
Vediamo subito un grosso iguana (o era un varano?), poi un martin-pescatore grande, quindi un airone grigio, un red-bottom lap-wing, un green bee-eater, un martin-pescatore black spotted, e degli ibis, …C’è veramente una grande quantità di uccelli king fishers e anche altri uccelli, che è quasi impossibile distinguere tra la vegetazione, e addirittura pretendere di fotografare. In quanto alle piante, ci sono molte mangrovie, e quella pianta che da il balsa fruit, e quella che da il cotone (con cui qui fanno dei cuscini), e l’albero cosiddetto “del pane”, varie palme da cocco, il regular coconut, da cui si fanno miriadi di cose, e il king coconut che serve solo per bere, eccetera eccetera.
Il barcaiolo e Amal vedono subito e da lontano presenze o movimenti ed individuano di che si tratta, mentre noi che abbiamo lo sguardo non addestrato a questo contesto, fatichiamo persino a vedere quando ci viene espressamente e chiaramente indicato e ci si avvicina… poveri “cecati”, guardiamo ma non vediamo, e loro di questo si stupiscono (forse penseranno anche che siamo un po’ imbambolati…).

Ora molte aziende stanno comperando terreni lungo il bordo per farvi nuovi hotels, in quanto si tratta di terreni in buona parte disabitati per il fatto che con lo tsunami sono state distrutte tutte le capanne e le casupole che c’erano, e la maggior parte della gente è andata a stare più all’interno. Quindi sono in vendita a buon prezzo. Speriamo che le nuove costruzioni non deturpino il paesaggio e non lo stravolgano… La necessità di soldi dei poveri proprietari, e lo sviluppo del turismo internazionale, se si incrociano possono portare anche a indesiderati effetti.
Passiamo una mattinata magica in un contesto da favola orientale, e con una gran calura (32° e molta umidità), a scrutare tra il fogliame per individuare uccelli e altro, e facendoci dire nomi di animali e piante (che poi purtroppo dimenticheremo…).
Vediamo uno che si arrampica su una palma toddy per raccogliere qualcosa dalla cima, e poco dopo facciamo sosta presso una casupola abitata proprio da un raccoglitore di succo di palma. E’ un uomo anziano, e bisognoso, ma ancora agile che si esibisce nel mostrarci come si fa a riempire una brocca di succo, per avere poi una mancia dai turisti che si avvicendano ad assistere a questa dimostrazione. Sale su dei pioli di noce di cocco, con sulle spalle una brocca e in mano un falcetto. La palma toddy non da frutti, e dunque giunto in cima intaglia il fiore, e fa colare il succo di palma nel contenitore; lassù ci sono api e vespe, attratte dal dolce. E poi camminando in bilico lungo quattro corde stese tra quattro palme, passa alla pianta successiva. Infine scende e ci offre da assaggiare un bicchierino di questo liquido denso, vischioso, e dolciastro, un po’ alcolico, che si vende nelle bancarelle. Sulle palme intanto corrono degli scoiattolini. E’ uno spettacolo impressionante per l’altezza, il fortissimo sole di questo orario, e la tranquilla calma e disinvoltura con cui l’uomo si muove.
Torniamo all’attracco nel canale interno, e andiamo a mangiare; pranziamo al moderno “café J.” di proprietà del nuovo hotel della catena Jetwing, lungo la strada principale costiera, dove ci sono stupende quiches e altrettanto invitanti brioches e frullati di frutta, e del bel pane, nonché dei rolls e delle insalatone. Portiamo delle cose in scatoline di cartone ad Annalisa che era rimasta in guesthouse (ci sono 35° gradi a quest’ora).
Poi nel pomeriggio andiamo in un centro di massaggi ayurvedici. Si tratta della “Jasmin Villa” nel quartiere di Kochchikade (Subasadaka Mawatha, Daluwakotuna). Qui io chiedo di farmi uno “head-neck-shoulder Back massage”, di durata di un’ora per poco più di 11 €uro. Mooolto rilassante… Quindi dopo aver finito aspetto gli altri nel bel giardino del cortile interno, mentre sorseggio un thé aromatico un po’ pizzicorino, e dal sapore intenso, dovuto ad una mistura di molti aromi, dosati in una sapiente proporzione. Gli altri hanno fatto oltre ad un massaggio completo, anche un bagno nei petali, e una doccia detergente. Le signore si fanno fare anche un trattamento rilassante syrodhara, cioè con gocce di olio tiepido che scorrono dall’alto sulla fronte.
I massaggi ayurvedici (una delle più antiche pratiche di medicina preventiva) si basano sulla tradizionale distinzione tra i cinque elementi base, che sono fuoco, aria, terra, acqua, ed étere (o spazio). Veda in sanscrito significa conoscenza, e ayur significa vita, per cui si tratta della conoscenza del vivente, dell’energia vitale. La salute è identificata con l’equilibrio tra i costituenti della struttura fisico-organica dell’essere, e della componente mentale-psicologica, con la aspirazione a raggiungere la pienezza, la sensazione appagante di un sereno ben-essere. Il corpo vivo si ritiene che sia caratterizzato dalla dominanza di tre principali combinazioni tra gli elementi di base, o tre forze vitali (doshas): cioè pitta (fuoco e acqua),  kapha (terra e acqua), e vata (aria ed etere). Pitta è l’energia termica, dovuta al calore, ed è una energia elettrochimica di conversione e trasformazione; kapha è l’energia di coesione e di lubrificazione, ed è presente in tutti i componenti solidi e liquidi; mentre vata è il movimento, l’energia dinamica che fa sì che il corpo vibri nello spazio, essendo questa energia condotta attraverso l’aria e i componenti gassosi. Vata è ovunque nei corpi e aiuta a separare ciò che nutre da ciò che va scartato, pitta si trova negli organi che producono succhi e acidi, e kapha è presente soprattutto nella saliva, nel naso, nei polmoni, in tutto ciò che lubrifica, e anche nelle ossa (in quanto elementi solidi, minerali, di terra). A partire da questi assunti base, si sviluppa una concezione complessa e una serie di terapie derivate da prodotti naturali in varie combinazioni.

Qui vendono anche oli, tisane, creme, pomate, ecc. di loro produzione artigianale. Sri Lanka è uno dei pochi paesi in cui c’è una università di medicina ayurvedica.
Alla sera facciamo una riposante passeggiata lungo lo spiaggione, tra catamarani e reti, fino a vedere il magnifico tramonto sull’oceano indiano. 

Poi quando veniamo via c’è nel quartierino delle casupole una festa o celebrazione, con nastrini, musica, scoppio di petardini, e infine una funzione religiosa che si svolge nella locale chiesa che è senza pareti e senza panche, dove si riuniscono tutte le famiglie stando in piedi, oppure seduti giù sul pavimento, in orazione.
Fine della seconda intensa giornata. Ceniamo in giardino mangiando quel che ci ha preparato Judith. Ci facciamo l’ennesima doccia tiepida. Sul letto oltre al lenzuolo di sotto e ai cuscini, c’è a disposizione una telina leggera, piegata, da stendere eventualmente per proteggere il corpo.  Si dorme in canottiera, o senza. Ci si addormenta con la zanzariera sul letto (qui a Negombo ce ne sono molte di zanzare divoratrici, forse a causa dei canali e della foce del fiume), il condizionatore puntato su 28°, e all’inizio almeno, un ventilatore lento diretto parallelamente al letto in modo da smuovere un po’ l’aria e farla circolare. Il bagno, come poi sarà sempre nei prossimi posti, deve stare con la porta chiusa perché ha una finestrella sempre aperta sull’esterno per far uscire gli odori, ma che fa entrare zanzare, quindi se si va in bagno durante la notte, si percepisce uno sbalzo termico, perché là si sente la temperatura reale (e l’umidità) dell’esterno.
Le nottate sono riempite dai suoni degli uccelli e degli altri animali notturni.

venerdì 8 febbraio 2013: inizia il giro in strada verso l’interno (su per colline e montagne)
Si parte al mattino presto. A quell’ora ci si risveglia man mano che i vari uccelli hanno ripreso a fare i loro cinguettii, e si sentono i  richiami e i suoni dei venditori ambulanti, in particolare il carrettino del panettiere, che ha una sua caratteristica musichetta.
Dopo abbondante breakfast a base di frutta fresca tropicale (maturata sugli alberi al sole, ha tutt’un’altro sapore rispetto a quella che viene raccolta acerba e maturata nei contenitori durante il suo viaggio verso i nostri paesi…), ananas, papaia, mango, e fette tostate con marmellata locale di guaiava, e ottimo yogurt, salutiamo Judith con un arrivederci, quindi arrivano Amal, che pure ci saluta (e a cui a questo punto lasciamo in deposito gli incredibili, pesanti, assurdi e ingombranti vestiti che avevamo fino all’altroieri mattina appena arrivati: scarpe, calze, maglietta da sotto, camicia a maniche lunghe, golf di lana!…), col suo fratello minore, il simpatico Kennedy, che guiderà tutte le prossime due settimane, e poi ci lascerà a riposare al mare per l’ultima settimana.
Passiamo accanto alla nuova autostrada per Colombo in fase di ultimazione, l’impegno è di inaugurarla il giorno del compleanno del Presidente.
K. ci fa notare che in tutti i piccoli centri che attraversiamo c’è una torre con orologio in una rotonda, che furono messe anni fa per abituare chi va al lavoro a regolarsi sull’orario esatto e evitare di arrivare in ritardo; prima, quando pochissimi avevano un orologio, ci si regolava sulla luce solare, ma era molto approssimativo come riferimento, mentre in un contesto di modernizzazione, i tempi devono essere scanditi in modo uniforme e regolare.
Le cittadine e i borghi sono un misto tra contesto campagnolo e urbanizzato, tutti hanno un giardino con un orto o delle piante, per cui c’è comunque molto verde ovunque, e le abitazioni sono casette di legno e argilla con solo il piano terra, o al più un piano rialzato. Il numero di negozi è pareggiato o superato dal numero di bancarelle. Molto diffusa è la coltura del riso, di varie qualità, anche se ora è in diminuzione. Sia le canne di bamboo che le palme da cocco sono utilizzate anche come legno da costruzione, e  sulla costa per le barche, le grandi foglie  servono soprattutto per i tetti, e per dar da mangiare agli elefanti, e inoltre delle noci di cocco si utilizza tutto, anche quella parte pelosa, o “paglia”, per riempire i materassi, e i cuscini, è molto diffuso pressarle per farne dei “mattoni” in fibra, ottimi per le fondamenta delle casette di legno, perché assorbono bene l’umidità.
E poi si utilizzano i gusci negli orti, o per fare da vasetti o tazze, o da riparo alle piantine, o per gli innesti, o per attizzare il fuoco nel focolare e fare brace per cucinare il pesce o la carne o le verdure.
Le piantine piccole di bamboo si possono mangiare a fettine, e se bollite molto, sono tenere.
Vediamo che lungo la strada ci sono attività di artigianato, e piccole fabbrichette per la trasformazione dei prodotti alimentari e agricoli, ci sono anche alcune rare macchine per la raccolta del riso. Kennedy ci dice che c’è un modello recente di queste per raccogliere e mondare il riso, dalla forma simile ad una trebbiatrice, che hanno denominato “Tsunami”…
Ad una fermata dei pullman vedo una scritta: “stiks no bills”, cioè preparate “monete non banconote”, evidentemente rivolta a chi sta aspettando la corriera.
Vediamo vari boschi o proprio foreste di tek, noto per la sua durezza, da cui si fanno mobili e pavimenti, e alberi di mogano con la parte interna centrale tendente ad un giallo intenso, con cui pure si fanno bei mobili.
Ci sono pure molti alberi jack tree,  detto anche albero del pane, il cui grosso frutto è ricco di vitamine; diffusissimo è poi il rain tree, l’albero dorato della pioggia, le cui foglie e fiori vengono mangiate dai bovini, detto anche albero della vita, e come tale assunto a simbolo.
Si passano anche diversi tempietti e dàgoba (cioè stupa di varie dimensioni), che sono ad anelli o cordoli concentrici, per simboleggiare la vita del Buddha fino al risveglio e alla illuminazione (la punta verso l’alto).
I monaci con la toga gialla e arancione stanno nei templi e lavorano, insegnano, ecc., mentre quelli con la toga marrone sono dèditi alla meditazione introspettiva, vivono chiedendo l’elemosina, e dormono in luoghi appartati e isolati nei boschi, o in una capanna di terracotta e paglia, e durante il periodo intenso dei monsoni prendono rifugio nei monasteri. Stanno ore in silenzio ad occhi chiusi, e non è facile vederli se non quando girano per l’elemosina.
Più che altro ne vediamo con la toga rossa o bordeaux.
Nel corso della sua storia lo Sri Lanka ha avuto cinque o sei capitali, stasera arriveremo alla più famosa che è l’antica Anuràdhapùra. Anche ai nostri giorni la nuova sede del governo, del parlamento, e delle istituzioni centrali dello stato, la cui denominazione ufficiale è Repubblica Socialista Democratica di Sri Lanka, è stata trasferita dal centro di Colombo, dove c’erano gli uffici amministrativi della colonia britannica, ad una zona esterna del suo hinterland, Sri Jayewardanapura, vicino a Kotte (120 mila ab.), che fu una delle capitali del regno singalese nel passato, quella conosciuta anche dai geografi greci come Taprobane. (Anche in Birmania avevo notato che nella sua storia, ad ogni cambiamento di dinastia regnante era stata costruita una nuova capitale.) Attualmente il Presidente Rajapaksa è al suo secondo e ultimo mandato, ed è molto impegnato, da quel che si vede, nel settore delle infrastrutture.
Dalla fine della guerra civile l’esercito è utilizzato in opere pubbliche, per cui i soldati contribuiscono a costruire ad esempio strade, ponti, case, dighe, riparano i danni di guerra e dello tsunami, e contribuiscono così in modo sostanziale all’attuale forte sviluppo dell’economia.
Ad esempio la coltivazione nelle risaie era quasi scomparsa al nord durante la guerra, dato che la gente che era rimasta nel territorio si era rifugiata in luoghi riparati, nei boschi o nelle zone montagnose, o era emigrata a sud. Per cui dopo la pluridecennale guerra interna, nella fascia prossima alla linea del fronte oramai la giungla aveva ricoperto strade, e case abbandonate e anche terreni coltivati e risaie, facendo ritornare il territorio ad una condizione selvaggia. E’ stato complesso e duro il lavoro di recupero e rivitalizzazione della zona e ripristino delle strutture e infrastrutture. Ma ora si sta riprendendo anche la produzione agro alimentare nelle zone a maggioranza tamil.
Vediamo che le donne hanno dei bei capelli lunghi e folti, che sono noti per essere grossi, forti e resistenti; li raccolgono dietro la schiena, a volte in treccia. Se fanno un voto allora se li tagliano e i monasteri li rivendono per la fabbricazione di parrucche e tupé per l’esportazione. Per le parrucche sono richiesti anche i capelli bianchi (quindi anche le donne anziane possono vendere i propri) per poi colorarli più facilmente.
Dopo un tratto sulla A1, prendiamo la A6 (quella che finisce a Trincomalee sull’altra costa), e facciamo un sosta a Kurunegala, presso la sede nel villaggio di Wanduragala, della “Selyn Exporters”. E’ una sosta interessante (oltre che per sgranchirsi le gambe), perché è una delle prime iniziative artigianali di commercio internazionale e interno su basi di reciprocità, è una fair-trade company, cioè una azienda che pratica gli scopi del commercio equo. Si tratta di handloom weavers, cioè di produttrici artigianali che fanno tessuti (woven) a mano con telai tradizionali di legno. Sono un migliaio di membri (quasi tutte donne) che lavorano il cotone locale, garantendo che sia 100% pure cotton. Fondata nel 1991 la Selyn si propone di rivitalizzare lo sri lankan heritage, le tradizioni locali, per farne beneficiare i lavoratori rurali e dei villaggi. Ma intende promuovere così uno sviluppo sostenibile, cioè che mantenga lo stile di vita cui queste persone sono abituate, senza stravolgerlo come accade con l’industria moderna.
Un manifesto ritrae un lavoratore, un certo Wedahenalage Karunadasa, che sta studiando per migliorare la sua professionalità, con sotto la scritta: “the skill of his hand lights up your home…” (le sue abilità manuali illuminano la vostra casa). Visitiamo l’atelier di produzione in cui vediamo delle donne intente nella loro opera, ma senza evidenti gran pressioni nei ritmi di lavoro.
A parte tutto hanno dei prodotti bellissimi, con meravigliosi accostamenti di colori vivaci. Ora che l’iniziativa sta andando bene (ci sono showrooms, negozi, a Colombo e a Kandy), hanno aperto vari laboratori per insegnare a perseguire questo modello anche nelle province nordoccidentali e orientali del Paese (workshops in villages in the rural outskirts), condotte da persone che per età o altre ragioni non riescono più a continuare a lavorare con orari lunghi, che possono addestrare, e insegnare ad altri, e questo in particolare nel settore della risicoltura. Una “paddy cultivation” è una parcella di terreno inondato, di terra arabile usata per crescere il riso e gli altri raccolti semiacquatici, con modalità che sono una caratteristica tipica dell’ agricoltura tradizionale dello Sri Lanka. Con ciò si vorrebbe sostituire al modello “headquarter-based” tipico dello sviluppo industriale moderno, cioè basato su un centro produttivo staccato dalla vita dei villaggi, in un modello “rural entrepreneurial” che renda in grado gli agricoltori e gli artigiani rurali di divenire autosufficienti. Per cui questi esperti anziani stimolano e guidano la formazione di capacità imprenditoriali in questo senso, perché diano vita a microimprese. Sono già più di una decina questo tipo di laboratori in attività.
“From where we are looking the sky is the limit”, cioè “Dal nostro punto di vista è il cielo il nostro solo limite”.
Comperiamo varie cose (da una bella camicia, a borse, a quaderni di carta riciclata copertinati in stoffa, … per un totale di 17 €uro).
Lasciamo questo opificio in mezzo alla campagna, e continuiamo per la A10 sino a Padeniya, poi giriamo a destra sulla A28 che è nuovissima, terminata nel 2012. Ci fermiamo a pranzo lungo la strada ad un buffet con una bella vista sul lago Rajangana, “The Cadjan restaurant” dove mangiamo benissimo (4 lunch e bibite, tot. 5500 Rs =32 € cioè 8€ a testa).

ANURADHAPURA
Giunti finalmente ad Anuràdha-pura, ci fermiamo nell’antico centro del buddismo singalese, il luogo sacro tra il lago Tissa Wewa e il bacino Basawak kulam, in cui c’è lo Sri Maha Bòdhiya, cioè dove è stato trapiantato nel terzo secolo a.C., dal re Tissa, il primo sovrano buddhista di Ceylon, un pollone germogliato dall’ashvattha, o albero Bo, o Bodhi, ficus religiosa, sito vicino al villaggio indiano di Bodhgayà sotto la cui protezione Siddhartha Gautama meditò immobile per sette settimane e raggiunse la illuminazione, ovvero il paranirvana, lo stato di Buddha realizzato nel 528 a.C.
La talea fu portata qui da una monaca buddhista, che era la figlia del grande imperatore dell’India, Ashoka. Attorno ad esso fu poi eretto nel 1700 un muro di protezione, e quindi non si può avvicinarsi abbastanza per toccare il grande albero più che bimillenario che ne è derivato, e che è in parte sostenuto da supporti. Anche chi non sia né ammiratore del Buddha, né senta la spiritualità del luogo, sarà comunque incantato nell’ammirare un albero che è là da tempi così antichi.
Poco dopo il nostro arrivo, entra una processione di donne vestite di bianco, con due tamburini d’accompagnamento, e una bandiera della pace lunghissima che srotolano compiendo il giro attorno al sacro albero. Ma anche varia altra gente intanto sopraggiunge con offerte di petali di loto, e di water lily, il giglio d’acqua dolce. Certe persone intanto sono intente in meditazione e orazione, e anche restano a lungo in genuflessione.
Non mancano scimmie che smangiucchiano i fiori.
Intanto siamo sotto ad un attacco di ultravioletti per cui, anche se non c’è il sole, o va e viene dietro alle nuvole (per cui non ho messo la crema solare = errore!), vedo che sto diventando sempre più rosso… e ustionato.
E’ sempre imbarazzante per me osservare con rispetto, cercando di non disturbare con la sola presenza,  la devozione di altri verso qualcosa che stentiamo a comprendere, e sempre cerco di sforzarmi ad immedesimarmi nei loro sentimenti ma mi riesce difficile, tanto più quando si tratta di una concezione popolare della religiosità e dei valori delle ritualità e delle cerimonie (è un problema mio), e allora penso che cosa sarei diventato io stesso se fossi cresciuto immerso in questo clima culturale, storico e sociale, in queste tradizioni, in questa mentalità, con queste credenze… e questo mi aiuta nella comprensione…
Per quanto, proprio l’idea che mi sono formato attraverso certe letture, di grande ammirazione verso il del messaggio di Buddha, paradossalmente mi rinforza invece nei miei pregiudizi nei confronti di queste forme di adorazione…
All’ingresso-uscita dai templi c’è sempre una cosiddetta “pietra di luna”, che non ha nulla a che vedere con la gemma pure tipica dell’isola, ma è un elemento architettonico specifico dell’arte singalese. Lo ritroveremo anche in altre tappe del nostro giro dell’isola. Si tratta di una decorazione in pietra posta in terra dinnanzi agli ingressi o all’inizio di scale, che è a forma di semicerchio, o mezzaluna, cesellata a cerchi concentrici, e simboleggia il percorso del vivente, dalla condizione selvaggia (le fiamme dell’anello esterno) sino alla illuminazione spirituale (il fior-di-loto al centro). Sono presenti varie figure di animali, e tutto ha un significato simbolico. L’elefante per rappresentare la nascita, il cavallo per il dolore, il leone per il deperimento, il toro per la morte. Tutto ciò per affermare che la vita va affrontata senza paura. Gli steli senza fiori, rappresentano la condizione umana lontana dalla liberazione spirituale, mentre le oche col fiordiloto in bocca, simboleggiano chi raggiunge l’illuminazione.
Poi ci spostiamo per vedere la Dakkhina dagoba, per un sentiero a destra, dove c’era il luogo di riunione del sangha, della prima comunità buddhista, ma che ora è molto diroccato e consunto. Poi ci rechiamo all’affascinante tempio rupestre, Isurumuni gala Vihara, intagliato nella roccia ai tempi di re Tissa nel terzo sec. av.C., che è probabilmente il tempio, o santuario più antico della zona cosiddetta del triangolo culturale singalese, dove ci sono stupendi bassorilievi, raffiguranti elefanti, un cavaliere a riposo con dietro il suo destriero (the man and the horse), dei nani (gana), la mithuna, ovvero una coppia di amanti (Isurumuniya Lovers). Nel tempio c’è una statua del Buddha ben conservata, e affreschi meno antichi che raffigurano scene dei primissimi tempi del buddhismo singalese 23 secoli fa. (ingresso 200 Rs a testa). Nella vicina grande fessura nella roccia ci sono centinaia di pipistrelli. Ci arrampichiamo sul terrazzino in cima. Il luogo esercita indubbiamente un grande fascino.
Passeggiamo nell’antico parco reale, lungo un sentiero verso il lago, e qui ci sono grotte (usate come celle dei monaci) e anfratti riparati, in cui anche in giornate di pioggia monsonica i monaci potevano soffermarsi in meditazione, poi ci sono le vasche o bacini in pietra in cui il re e la corte si intrattenevano al fresco, il luogo è ameno, e oltre a noi quattro, non c’è nessuno (!).
L’area del parco è piena di animali, uccellini, pappagallini, ibis, uccelli grandi, mucche, cani, farfalle, libellule, scimmie, eccetera.
Andiamo sull’argine del lago, sulla superficie dell’acqua ci sono molte ninfee con le foglie impermeabili, su cui le gocce sembrano come perle al sole, e da qui guardiamo altri templi e stupa da lontano, e poi il tramonto e qualche pescatore.
Alla sera andiamo in albergo, un alloggio vecchiotto (che perciò mi piace) di medio livello, diciamo tipo 3 stelle,
(http://www.hotelrandiya.com/gallery.html), dove ceniamo, e ci soffermiamo a chiacchierare e a parlare via skype con i ragazzi a casa.9 febbraio
Ripartiamo. Passiamo a fianco dell’aeroporto militare, che ora sta ristrutturandosi per convertirsi in aeroporto per i voli interni nazionali. K ci dice che durante la lunga guerra civile fu in diverse occasioni distrutto, bruciato e bombardato. Anni fa un drappello del gruppo separatista estremista “tigri tamil” (LTTE) fece una sortita improvvisa dalla foresta, circondò un autobus, uccise l’autista e sequestrò i passeggeri. Era la festa della luna piena d’estate, i guerriglieri entrarono nell’area dell’ aeroporto dove c’erano 15 gruppi di ragazzi giovani, e spararono all’impazzata, uccisero 170 persone, vari bambini riuscirono a scappare. Poi alla fine si trovò che tutti passeggeri del bus che dovevano essere usati per un riscatto, erano stati uccisi. In un’altra occasione l’aeroporto venne bombardato dalla foresta e dalla strada, con lo scopo di terrorizzare il turismo e le attività commerciali. Sino ad un certo punto ci furono solo attacchi a obiettivi militari o strategici, ma invece 16 anni fa un ribelle separatista era riuscito ad entrare con una bomba nel più sacro simbolo del buddismo singalese, il tempio del dente a Kandy. L’obiettivo era sempre quello di far accettare la spaccatura del paese e la scissione delle province di lingua tamil dallo stato del SriLanka, per dare vita ad uno stato etnico tamil chiamato Eelam (di fatto satellite del Tamil Nadu). La rottura nella comunicazione tra le parti si aggravò nel 1993 quando fu assassinato il presidente della repubblica di SriLanka, Ranasinghe Premadasa.
Dopo l’uccisione del capo supremo dei separatisti, nel 2004 con l’elezione del nuovo presidente iniziò un periodo di pace e ricostruzione. Ma ancora adesso continuano accuse reciproche tra tamil indiani e governo singalese, e sussistono molti gravi rancori. Ad esempio in questi giorni il presidente è andato a Bodhgayà (un borgo di 30 mila ab. nell’estremo nord dell’India, dove nel 530 av.C. il Buddha ebbe l’illuminazione sotto un albero di Bo, o Bodhi), il massimo luogo di pellegrinaggio mondiale dei buddisti, per portare e donare una cancellata dorata a protezione dell’albero, e un ministro dello stato indiano del Tamil Nadu protesta con il governo federale dell’India chiedendo che quella donazione sia tolta, e di boicottare ogni scambio e attività di collaborazione con lo SriLanka fino a che i tamil in SL sono perseguitati e sottoposti al governo “nazionalista singalese”, portando interviste come prove che i tamil sono trattati da inferiori e discriminati in SL. Il che secondo K. non è vero, persino durante la guerra molti tamil emigrarono nel sud e trovarono lavoro e accoglienza, e poi da quando c’è la pace molti che al nord-est non trovano lavoro vengono nelle altre province ed esercitano attività commerciali che con l’attuale forte sviluppo economico stanno fiorendo.
In questi ultimi anni molte strade del nord-est sono state ricostruite, e attività produttive stanno ricominciando.
La stessa bandiera dello SriLanka è onnicomprensiva di tutte le componenti della popolazione dell’isola. Vi è il leone che anticamente stava all’entrata del palazzo di Sigiriya, ed è simbolo della indipendenza del regno di Kandy prima della conquista britannica, con agli angoli 4 foglie di Bodhy per rappresentare i buddisti, e a lato una fascia arancione per gli hinduisti, e una verde per i musulmani.
Certi invece cercano di riattizzare vecchie ostilità tra hinduismo e buddhismo (considerato come eresia anti-hindu), che non hanno più senso. Purtroppo ci sono certi monaci buddisti molto ligi e fondamentalisti che sono conservatori di estrema destra, il loro partito Jhu vorrebbe che lo Stato divenisse integralista ed espressione della identità sinhala, tollerando minoranze alloglotte e di altre religioni, ma proclamando il buddismo come religione di Stato. Certo questa lotta sembra non esser altro che il seguito, l’ennesimo capitolo, di uno scontro millenario che dai tempi in cui la dinastia hindu dei Chola del sud dell’India invase e conquistò l’isola, continua periodicamente a riemergere…
Invece per K. è giusta la linea che si è seguita, per cui lo stato è espressione di tutti gli abitanti, e riconosce l’assoluta eguaglianza dei cittadini indipendentemente dalla religione e dalle opinioni politiche, e dalla lingua, per cui sia sinhala (il singalese), che tamil, e l’inglese sono proclamate lingue ufficiali nazionali. Pertanto non si ammette nessuna regione autonoma, ma solo province su un piano di parità, con totale libertà di residenza in qualsiasi parte dell’isola, ed è appunto proprio per questo che anche durante la guerra con le “tigri tamil”, molti tamil che non concordavano con gli scissionisti  poterono spostarsi nel sud-ovest del paese.
Questo secondo quanto K. pensa e ci dice, ma è certo che la questione resta ancora molto complicata e ingarbugliata. La guerra è stata più che ventennale ed è finita da meno di un decennio e molti sono i ricordi vivi di quel lungo periodo di conflitto e le lacerazioni e risentimenti causati da atrocità o da esagerazioni commesse nella azione militare di entrambe le parti verso chi era considerato come il nemico.
Sto leggendo un racconto della importante scrittrice A. Senaratna che tratta dello spaesamento e della crisi di un uomo che fece il militare, anzi fece la guerra, dai 20 ai 36 anni d’età, e ora che è stato smobilitato è perso, e incapace di trovare un ruolo nella società normale, ha perso la sua identità, e gli manca persino un senso da dare alla sua vita. E’ descritto bene quel dramma psicologico dei reduci, che rischia di condurlo ad una depressione profonda (cfr. “Aftermath”, in: The Mango Tree, stories and sketches, 2008). Commentava la giornalista Sita Kulatunga all’uscita di questo libro, che il paese oggi, dopo la grave crisi che ha attraversato, ha bisogno di buoni contastorie che sappiano catturare e trattenere l’ascolto, e possano fare da pungolo per stimolare nelle persone una visione più ampia e più profonda della vita e dell’essere umano.RIPRENDIAMO IL VIAGGIO
Dunque al mattino al breakfast, mangiamo del curd, che è lo yogurt di bufala (quasi panna) e si mangia versandovi sopra del “miele di cocco” (kittul honey), cioè dello sciroppo di palma dolce e dei dolcetti chiamati puhul dosi, fatti con la zucca barucca (ovvero quella mantovana, o per intenderci, quella di Biancaneve…), e non con le più comuni zucche singalesi che sono come delle bocce.
Poi ripartiamo, proseguiamo verso Mihintale, e poi giù verso sud-est con l’ottima A9. Anche questa strada dunque è buona e risistemata di recente. Chi verrà in SL l’anno prossimo troverà autostrade e tante buone strade statali, riasfaltate, e col piano stradale alzato perché non restino sommerse nella stagione dei monsoni, e anche alberate per garantire un po’ d’ombra. Ora per fortuna le grandi piogge di gennaio sono finite, ma K. ci racconta che trenta-quaranta gg fa era tutto tutto allagato, sommerso…
Osservo un ragazzino che gioca con un bastone e una lattina vuota, non ha altro per giocare poverino, e si industria così. Qui molti giovani giocano a cricket (eredità britannica).
Ci sono molti Nuga trees, ficus benghalensis, anche questi sono alberi con liane che poi attecchiscono a terra.
Vediamo un elefante per conto suo che sembra girare libero, K. ci dice che è un maschio e in singalese si dice aliya, mentre l’elefante con zanne lunghe si dice atha, ed è quello che si utilizza nelle processioni religiose, nei templi, e a Kandy. Un aliya di Ceylon (di nome Annone), fu regalato dal re del Portogallo al papa Leone X nel 1514, e ritratto da Raffaello.
A Kandy c’è una importantissima processione per il giorno di luna piena di mezz’estate, anzi per le dieci notti che la precedono, poi nella grande cerimonia dell’ultimo giorno si organizza un corteo di 80 grandi elefanti atha. In certe favole locali l’elefante è descritto come un animale celestiale (vedi p.es. la favola “Il contadino che volle salire in cielo” nella raccolta di Parker citata nella bibliografia a fine diario).
Oggi gli elefanti non sono quasi più utilizzati per i lavori pesanti e i trasporti di legname, essendo stati sostituiti dalle macchine, perciò oramai non si vede quasi più nessun elefante in giro, restano solo quelli nei parchi nazionali che si vedono nei safari fotografici. Questi ultimi hanno da tempo sostituito i vecchi safari di caccia, essendo ora moltissime specie protette, e in particolare è bandito il commercio di zanne di elefante, anche se c’è ancora un po’ di bracconaggio per la vendita dell’avorio.
Vediamo intanto anche vari altri animali: delle manguste, che sono utilissime perché danno la caccia ai serpenti pericolosi, aquile, bufale, mucche, un camaleonte, farfalle e libellule, e come già abbiamo notato praticamente ovunque, moltissimi cani randagi. E di un serpente vediamo per fortuna solo la grande lunga pelle in un prato.
Nelle strade di campagna ogni tanto si vedono lungo il bordo delle semplici scuolette, meno attrezzate di quelle di città, l’aula consiste semplicemente in un’area pavimentata con sopra una tettoia, senza pareti. In campagna le case sono di fango e sterco di mucca, col pavimento di terracotta e le pareti a volte sono intonacate, ed il tetto fatto con foglie di palma, o lastre ondulate di latta, raramente con tegole. Kennedy ci racconta di quando era piccolo e viveva in una di queste casupole contadine, e dice che erano più fresche di quelle in muratura o in cemento di oggi.
Se si pensa che circa l’82-85% della popolazione vive nelle campagne, il fenomeno dell’inurbamento e della urbanizzazione è molto recente, ed è stato in parte dovuto alla guerra, ma quella di SriLanka rimane una popolazione legata alla terra e all’agricoltura. Diamo dei pupazzetti come regalini a scolarette e bambini che rimangono meravigliati.
Ad Aukana ci fermiamo per andare ad ammirare da vicino una colossale statua di Buddha alta 12 metri intagliata da un blocco di granito durante il regno del re Dhatusena (460-477 d.C.). E’ veramente un’opera artistica di grande fascino. Nel santuario attorno c’è anche un albero di bodhi.
Questa statua è divenuta anche un simbolo del buddhismo Theravada di Sri Lanka, e ce ne sono copie moderne a Colombo e in varie altre parti del paese. L’ingresso alla visita del Raja Maha Viharaya è di 750 Rs a testa (4€).
Do in regalo a un bimbo un giochino, e poi all’uscita vedo la sorellina e le dico di seguirci che in auto abbiamo una bambolina per lei.
Fiancheggiamo il bel lago di Kalawewa, che è una riserva idrica costruita nel quinto secolo. Abbiamo visto in questa regione tanti laghi e bacini artificiali, per esempio qui ora ce ne sono vicini quattro, collegati tra loro. Certi bacini sono creati da dighe che trattengono le acque delle piogge monsoniche, altri sono dovuti a fiumi, alcune dighe sono antiche e fatte costruire da re del passato, mentre alcuni sono laghi naturali, e c’è poi tutto un sistema di canali, per cui sono comunicanti tra loro, e ci sono tutte delle reti di chiuse, che regolamentano i flussi, per cui qui non manca di certo l’acqua per l’irrigazione e per usi domestici.
Si racconta che quando era stato ultimato il bacino di Kalawewa, e il re Dhatusena stava bagnandosi in quella acque, il figlio Kashyapa che lo accompagnava gli chiese: “Sire, che ricchezze erediterò?”, e il vecchio re uscì dall’acqua tenendone una manciata tra le mani, gliela porse dicendogli: “questa è tutta la ricchezza che ho creato e tutto ciò che ho da lasciarti. Questa figlio mio è la tua eredità più preziosa”. Le grandi dighe, il sistema di canalizzazioni e di chiuse, che rendono possibile irrigare sempre anche le aree secche più bruciate dal sole, sono in effetti ancor oggi la eredità migliore per il Paese. I benefici dell’acqua sono indicibili, l’acqua è datrice di vita, è vita che sostiene la vita, l’acqua è ciò che rinnova la vita, è tra tutti il bene più prezioso, senza prezzo, e indispensabile. (da un articolo di Manu Gunasena nella rivista “Serendib”, n. di gennaio 2013, pp. 72-77).
Poco più avanti c’erano degli elefanti che venivano lavati in un ruscello; gli elefanti vanno lavati tre volte al giorno, soprattutto nelle ore e nelle giornate molto calde.
Siamo ora nella località di Habarana, che è diventata ultimamente molto turistica, perché sta geograficamente al centro del cosiddetto triangolo culturale, e quindi è conveniente alloggiare in un hotel qui, in modo che le gite che si possono fare da varie parti, sono più facilmente raggiungibili.
Mangiamo in un bel posto che si chiama “Acme Restaurant”, dove vengono i gruppi, o a fare pranzi di matrimonio, o eventi del genere. E’ tutto a buffet (e come succede in questi casi ci si abbuffet): c’è molta scelta e varietà, e mangiamo abbondantemente assaggiando vari piatti, ed è tutto molto buono, in un bel posto, e spendiamo 6 €uro a testa.
Poi andiamo in un posto proprio lì vicinissimo dove si può noleggiare un elefante per fare un breve gita turistica nella giungla circostante di un’oretta. Il nostro elefante si chiama Mutu e ha 25 anni. Saliamo sopra tutti e quattro, e lentamente questo pachiderma ci porta sul dorso lungo un sentiero che passa vicino ai cortili di case, e poi attraverso un bosco, e infine entra in una zona paludosa camminando nell’acqua bassa (per lui). E’ divertente, si viene molto sballonzolati, e intanto si ammira il paesaggio e guardando davanti si vedono quei buffi capellini dritti che Mutu ha in testa. Poi compriamo due sacchetti di banane, e Mutu porterà più volte la sua proboscide all’indietro per chiederne una, che si prende e si mette in bocca con anche la buccia. Ogni tanto fa qualche suo bisognino, non tanto “-ino”..
Deviamo sulla A6 verso sud. Arriviamo al piccolo villaggio di Kekirawa, vicino ad un bacino idrico creato da un antico sovrano, chiamato Auw Gana (che significa lago reale) ma anche detto Kala Wewa, cioè “lago artigianale”,  o noi diremmo, lago artificiale.
Qui in questo paesino che avrei detto “sperduto” (ben difficilmente si può trovare in una carta dello Sri Lanka, anche la più dettagliata, come quella che ho io, che è 1:500mila), sta arrivando per l’inaugurazione di un’opera pubblica (forse un ufficio postale) il ministro del Lavoro in persona, con un codazzo di decine e decine di auto al seguito, in questa stradina sterrata di campagna… è uno spettacolo allucinante, c’è traffico…. qui…!LA GITA SUL CARRO E NELLA PALUDE
Quindi arriviamo a Hirrywaduna, che è il nome di questa laguna palustre. Qui nel villaggio deve essere morto qualcuno, perché c’è la festa di ricevimento delle persone che hanno partecipato al funerale, e c’è un certo assembramento di gente. Per sei notti ora non dormiranno, e dunque i famigliari del defunto li aiutano assicurando loro del cibo e da bere. Le persone presenti non sono poche perché in questi villaggi c’è molto senso di solidarietà reciproca.
Da qui faremo dunque un’altra bella escursione di più d’un paio d’ore nella marcita, per cui ci aspettano due tizi campagnoli che ci invitano a salire su un carro trainato da due buoi che lentissimamente procede a fatica in un viottolo molto fangoso attraverso la campagna, in cui a volte si affonda un po’ e a causa delle buche si è molto più sballonzolati che sull’elefante. C’è molto silenzio attorno. I buoi sono dei wassa haraka, cioè dei maschi con grandi corna e gobba (tipo quelli degli affreschi etruschi). Sono degli animali miti ma un po’ stupidi, vanno pilotati continuamente, se no sbagliano. Ad un certo punto ci si ferma perché si era allentato il giogo alla gobba, e il tizio l’ha legato di nuovo con corde di fibre di cocco. Vediamo un grosso termitaio. Passiamo accanto a case, attività dei campi, risaie, e anche a un monastero isolato nella foresta dove i monaci vengono a ritirarsi.
Vediamo un grande scoiattolone molto grosso su un ramo.
Quindi arriviamo ad uno spiazzo con il sedere un po’ provato, ci dice che le corde del giogo non tengono, e di proseguire a piedi fino alla riva del lago, dato che siamo quasi arrivati.
Effettivamente lì poi saliamo su una barchetta a bilanciere, con due barcaioli che ci aspettavano. L’attraversamento della zona lagunare e paludosa è stato straordinariamente bello e interessante!
La laguna è piena di ninfee, water lily, di fiori di loto, e di uccelli come il king fisher (martin pescatore), lo horn torrent (o tevent?), turn bird, jacana, grey airon (l’airone grigio), il cow airon, il tucano, il cormorano, lo ibis, il gruccione, e purtroppo oramai la pianta detta japan jaberre, una infiorescenza acquatica giapponese, color lillà chiara, si è chissà come insediata ed ha prosperato a tal punto da impedire quasi la navigazione delle barche a remi nella laguna, e questo è un problema inaspettato e che si sta aggravando.
Sbarchiamo sull’altra riva, e proseguiamo camminando per un sentiero nel grande caldo umido avvolgente. Passiamo varie casupole e capanne, e torrette di guardia alle coltivazioni, sparse tra i campi.
Ci divertiamo a salire sulle torrette, poi ammiriamo le coltivazioni. Sinché arriviamo ad una capanna di paglia e fango, dove ci attende una contadina amica dei barcaioli, che vive qui da sola dato che il marito è fuori al lavoro, poi al suo ritorno lei va a dormire nel villaggio vicino e il marito resta là perché ci sono tutte le loro coltivazioni a cui deve fare la guardia, altrimenti arrivano elefanti, scimmie o altri animali selvatici e devastano e rompono tutto (come è detto anche nella favola sull’agricoltore ricco di coltivazioni di riso, che ogni notte però vengono calpestate e rovinate). Ci riceve sotto la tettoia di foglie di palma intrecciate, e ci cucina con il fuoco di legna scaldando una piastra di metallo, dei buonissimi roti (piadine) spessi e rustici, fatti di farina di cocco, cui poi si aggiunge a mano un pizzico di un grattugiato piccantino. Offre anche dei dolcetti di miele solido, chiamati hakuru, detto anche jaggery pudding, che è uno zucchero grezzo marrone scuro, ricavato tramite evaporazione della linfa di vari tipi di palme. Il grattugiato è il sambol (bol o pol vuol dire piccante leggero) ed è un misto con cipolle dolci, peperoncini poco forti, sale, cocco appunto grattugiato, e qualche goccia di succo di lime spremuto.
Nel suo angolo-cottura tutto è ordinato e pulito. Tiene pronti dei “piatti” di foglie, usa le posate di legno di palma fatte da loro, e in un attimo attizza il fuoco. Ci offre anche da bere “acqua di cocco” fresca.
Torniamo sulla barca e riattraversiamo la laguna da un’altra parte, vediamo tanti fiori e tanti uccelli, i barcaioli ci fanno dei cappellini per proteggerci dal sole ancora forte, con quelle foglione come quelle su cui abbiamo mangiato, che sono impermeabili, con cui i pescatori avvolgono il pesce che vendono.
Sulla riva ci sono donne che lavano i vestiti, giovani che fanno il bagno, e ragazzini che giocano. Lungo il sentiero di terra torniamo alla macchina, e andiamo a Dambulla, dove ci sono tantissimi three wheelers taxi (cioè i tuktuk), una nuova stazione degli autobus, e un nuovo grandissimo mercato all’ingrosso. Andiamo fuori città, in campagna, in un agriturismo, che si chiama “MPS village”, dalle iniziali del proprietario. Anzi la tenuta era di suo nonno, e poi suo padre la trasformò in albergo con i bungalows, e ora lui è a Colombo, perché è in politica, ed è passato dal partito progressista a quello liberista che ha vinto le elezioni. L’agriturismo è molto bello, in un parco in riva a un grande stagno. Facciamo il bagno nella piscina. Poi ceniamo a buffet. E’ pieno di giovani di vari paesi che sono qui per fare volontariato per aiutare a costruire abitazioni nuove per contadini.
La sera ci godiamo il tramonto.
E’ proprio vero che quest’isola è un paradiso tropicale, un Eden in Terra, e in effetti si dice che sia di origine divina. Vayu è l’antico dio del vento e dell’aria. Nei “Veda” era associato a Indra, il dio della pioggia datrice di vita, il Dio supremo. Mentre Vayu stava spingendo altrove gli dèi minori della tempesta e dei monsoni, i Marut, ha per questo uno screzio con Indra, e a causa di questo loro diverbio, accadde che si staccò un pezzo del sacro monte Meru, che cadde nell’oceano più in là, e così nacque l’isola di Sri Lanka.10 febbraio
Colazione a buffet all’agriturismo, ci sono gli steamed hoppers, o string hoppers, tipici della prima colazione singalese, e il curd di bufala con miele. Gli hoppers al vapore sono degli spaghettini di riso tipo capelli d’angelo, che rimangono molto appiccicati, forse per l’amido, e dunque risulta come una polpettina coesa di spaghettini, sui quali i singalesi usano mettere il sambol (polpa di cocco grattuggiata con peperoncino e lime, di cui dicevo ieri), o qualsiasi altro curry (che a SriLanka significa semplicemente: condimento), e poi volendo si può anche arrotolare e mangiarlo tenendolo in mano come un cannellone ripieno.
In effetti Kennedy mangia sempre con le mani, che si lava accuratamente sia prima che dopo, sia a colazione che a pranzo e a cena.
Poi partiamo verso Sigirìya. La strada è nuova e bella. Sui cartelloni  e sui muri ci sono dei poster con la pubblicità di un nuovo film intitolato “Sri Siddhartha Gautama”, sulla vita del Buddha, è di dicembre, ed è uscito nei cinema di Sri Lanka da un paio di settimane.
Kennedy ci racconta che suo padre era buddista ma si era innamorato di una cattolica, e per sposarla si è  fatto cattolico, quindi lui e i suoi fratelli e la sorella sono nati cattolici. E poi ci racconta di sua figlia Seweetha di otto anni, che da piccolissima è diventata cieca, prima a sinistra per un tumore,  poi poco più tardi anche all’occhio destro. Poi è nata la seconda bambina che ora ha 4 anni.

Sigirìya (rocca del leone)
Eccoci alla grandiosa collina di roccia, un monolite che emerge in verticale dalla piatta pianura e sovrasta da lontano il villaggio, e che si vede da ogni parte dei dintorni. E’ un luogo fantastico! Non per nulla dichiarato patrimonio dell’umanità (world heritage site) dall’Unesco nell’82.
Davanti alla rocca il re Kasyapa che regnò dal 477 al 495 d.C., aveva fatto costruire il suo palazzo, si attraversano i resti dei giardini e dei bacini d’acqua, pleasure gardens and fountains, dopo di che si incomincia la salita in mezzo a grandi massi. Immaginate la suggestione di un palazzo e di piscine con alle spalle questa parte di roccia che sovrasta tutto il panorama. Ad un certo punto c’è la sala delle udienze con il trono in pietra, detto asana, che significa posizione, forse perché lì il sovrano stava seduto in posizione di potere. Lì vicino c’è la cobra-hood cave, che è una roccia dalla forma immaginaria di un immenso cobra di pietra che sovrasta la nicchia con il luogo di meditazione dei monaci buddisti che occuparono quel luogo sino al XIII secolo. Tutta questa area palaziale fu costruita da migliaia di operai, da ingegneri idraulici, e dai migliori architetti di allora.
Poi una scalinata porta sempre più in alto e vicino alla parete scoscesa della rocca. Quindi grazie a delle scale a chiocciola di metallo di più di 50anni fa, attaccate alla roccia, si riesce sudando a raggiungere il livello in cui nella roccia si aprono delle grandi fessure a formare delle grotte in cui sono stati realizzati dei preziosi affreschi sulle pareti (painted caves). Si tratta di opere d’arte molto raffinate, e tra le pochissime rimaste sino ai nostri giorni che attestino la pittura di quel periodo storico dell’inizio della civiltà buddista singalese. Queste in particolare però raffigurano scene di corte, e rappresentano principesse o dame di un corteo che rendono omaggio al sovrano e portano doni, e forse celebrano la schiera delle belle dell’harem reale. Ne restano solo diciannove delle cinquecento figure che c’erano in origine (molte sono state distrutte da un vandalo nel 1967), e sono state chiamate the Sigiriya Damsels, o the heavenly Maidens, dette anche “le damigelle delle nuvole”, dato che a quell’altezza nuvole di nebbia e umidità dovute all’evaporazione del terreno in un clima così caldo, sono spesso presenti (come pure ora). O anche le “principesse delle scale”. Così le hanno denominate i primi archeologi che le hanno scoperte, pieni di meraviglia. Gli affreschi li ha salvati uno studioso italiano che si accorse che i pittori di allora davano tre mani di colori, e in un caso tra l’una e l’altra cambiarono idea sulla posizione delle dita (mudra).
Sul muro, detto mirror wall, che è una parte della parete del monolito, levigata e lucidata con smalto trasparente, si sono conservati dei graffiti con commenti, frasi (e anche bei componimenti poetici), scritti dai visitatori a partire dal VII secolo. Che impressione pensare che c’era quella brutta abitudine già allora, solo che adesso queste sono diventate scritte di interesse storico!
Già solo il salire sulla chiocciola e vedere un sempre più vasto panorama della pianura sottostante, ci fa impressione, figuratevi che cos’era l’ascensione a quei tempi antichi con scalette di corde di rafia o fibra di palma da cocco. A metà c’è appunto il meritato riposo con questa visione celestiale degli affreschi. La mèta in effetti è un’altra: è raggiungere l’altipiano in cima alla collina rocciosa, di un ettaro di superficie, dove il re aveva fatto costruire (ma come fecero a portare là il materiale e gli operai?) il palazzo con le sue camere private (pleasure-dome. Un vero nido d’aquila. E’ proprio il favoloso Oriente…
Noi non ce la facciamo più a salire fino in cima, e contenti di quel che abbiamo potuto vedere, dopo aver comunque fatto quasi mille gradini, ritorniamo in basso, causa: afa…
Nella ascensione sarebbe raccomandato un rispettoso silenzio, anche per non infastidire i calabroni.
Queste pitture di giovani dal seno rigoglioso ci permettono di conoscere quali fossero le forme ideali così come vennero indicate nel sacro testo “Samudrika Lakshanas”: i seni ideali sono pieni e pesanti come brocche piene d’acqua, sodi come i frutti della palma, ma delicati e lisci come i frutti del mango. Altri testi dell’epoca dicono che i seni di una donna ideale dovrebbero essere simmetrici, pesanti e sensuali, toccarsi tra loro in modo che lo stelo di un fior di loto non vi possa passare in mezzo. I capezzoli dovrebbero essere eretti e ben puntati in avanti come il becco di un pappagallo. (cfr. il seno nell’arte, cap.1, in: http://www.guidecampania.com/seno/cap1.htm)
Ecco che Marco, avendo adocchiato l’incantatore di serpenti che c’è giù, va dritto da lui e si fa mettere un serpente (non un cobra per fortuna, ma un pitone) attorno al collo.
Proseguiamo, andiamo sulla A11, dentro la foresta, e vediamo un bell’uccello, un iguana e un normalissimo bel gallo chiamato walìcukula (simbolo nazionale del regno singalese), un bel peacok, pavone, anch’esso simbolo reale. Lungo la statale (che è quella che va a Batticaloa nella provincia est) c’è la polizia, K. dice che quello della stradale ti da la multa solo dopo che gli hai consegnato la patente, e te la restituirà solo quando gli porterai la ricevuta che prova che hai pagato. E’ pazzesco! è così che nasce la corruzione nelle istituzioni pubbliche, e si sviluppa anche tra la gente comune.
Sul nostro percorso vediamo una “fabbrica di riso”, dove lo lavorano: prima lo fanno bollire in un pentolone, poi lo mettono per terra ad asciugare, quindi lo mettono in una macchina da mondare, per pulirlo e tirare via la pellicola esterna, poi lo confezionano in un sacchetto di juta plasticata.
Il lago di Giritale lo hanno reso più profondo, perché se no quando c’è poca acqua e poca pioggia, allora si prosciuga facilmente e troppo rapidamente.
Ci fermiamo appunto a Giritale sul lago Minneriya, in un ristorante in campagna, che è di una famiglia, ora lui è morto e lo gestisce la vedova con gli zii, quindi K. preferisce fermarsi qui per aiutarli. Si chiama “The Village” (ha anche delle camere), e pranziamo bene ed abbondante, sempre a buffet, per un totale di 3400 Rs con le bibite (= quindi 5 € a testa).
In questo buffet al banco self-service hanno avuto la simpatica idea di appendere dei cartelli con le indicazioni delle proprietà alimentari dei cibi qui presenti. Per cui leggiamo che la zucca contiene carotene, le Ladies fingers, dei vegetali chiamati anche okra, dalla forma simile a piccoli zucchini o anche tegolini (calcio, vitamine e carboidrati), il bread fruit, il frutto dell’albero del pane (proteine, carboidrati, sale zuccheri, il banana bloater, il fiore del banano (carboidrati e vitamina C), il dhal, che è una crema di lenticchie indiane color zafferano (proteine), il jack fruit e il baby jack (carboidrati e ferro), l’ananas (vitamina C), il mango (vitamine B e C, e fibre), lo sparagus (vitamine A e B, ferro e fibre), le melanzane (carboidrati), il bitter gourd, una zucca o cucurbita amara (contiene ferro), e la manioca (contiene carboidrati).
Tra le altre cose prendiamo delle verdure cotte con chutney. Ma che cos’è il chutney? è una salsina, una composta agro-dolce, che si usa come contorno per accompagnare piatti sia di carne che di pesce o di verdure.

Ecco una delle tante possibili ricette per un mango chutney (che è il più comune):
1 mango di circa 600 gr, 1 cipolla, 1 cucchiaino di grani di mostarda gialla, 3 bacche di cardamomo, 4/5 chiodi di garofano, un cucchiaino di zenzero grattugiato, 1 cucchiaino di peperoncino piccante, 2 cucchiaini di garam masala, 30 gr di uvetta passa, 60 gr di zucchero, 80 ml di aceto di mele, Sale, Olio di girasole.
Lavate il mango e tagliatelo in piccoli pezzi.
Pulite la cipolla e tritatela, fate lo stesso con l’uva passa e tenete da parte.
Far bollire lo zucchero nell’aceto fino a quando si è sciolto.
In una padella dal fondo spesso versate un filo d’olio, appena caldo fatevi saltare i grani di mostarda ed il cardamomo. Aggiungete quindi la cipolla, il peperoncino e lo zenzero. Quando le cipolle sono dorate incorporatevi le altre spezie e continuate la cottura finché le spezie non hanno sprigionato i loro profumi.
Unitevi quindi uvetta (ed eventualmente delle mandorle) e lasciate cuocere per circa un’ora, rigirando il composto di tanto in tanto per evitare che si attacchi.
Cuocete con coperchio per la prima mezz’ora e poi aggiungete un bicchiere di acqua calda (se necessario) e continuate a cuocere scoperto per il restante tempo facendolo addensare.
(ricetta tratta da Gio di salerno, con qualche ritocco) http://symposionfoodies.blogspot.it/2011/05/chutney-di-mango.html

Una deviazione dalla strada permette di raggiungere la statua di Avukana, un altro capolavoro dell’arte singalese. Alta 14m., fu scolpita in un solo blocco di roccia per volontà del re Datusena, il padre di Kassyapa di Sigiriya, nel 460 d. C. Mostra il Buddha in piedi che, in modo inconsueto, indica la tunica, ciò pare che voglia significare che una volta raggiunto il nirvana non occorre più nulla per riparare l’uomo dai bisogni terreni.
Torniamo sulla A11, a Jayanthipura, e dopo pranzo andiamo all’altra città storica, la medievale Polonnàruwa.
Qui, come a Sigiriya, c’è molto turismo, sono numerosi i turisti indiani, giapponesi, e altri europei, ma anche quelli locali, essendo domenica, e quindi gli ambulanti qui sono molto insistenti e rompiballe (comunque nonostante ciò sono un po’ meno pressanti che in India. Compero da uno una buona carta stradale grande (1:500mila, della ABC Publications, di Kelaniya), ad un prezzo accettabile, ma contrattando a lungo tempo. E poi prendo due strips di postcards (cosa che non faccio mai, anche perché noi non mandiamo mai cartoline a nessuno), da un poveretto su sedia a rotelle. Poi K. che lo conosce, mi conferma che ho fatto bene ad aiutarlo, sa che è rimasto senza gambe perché in treno si era seduto sull’entrata del vagone (come fanno molti) con le gambe penzoloni, e nell’attraversamento di un ponte stretto, gli si sono tranciate le ossa ed è caduto in avanti sul greto del fiume. Ha famiglia e figli e non trova lavoro.
Dunque si entra nella zona archeologica entrando nel museo (di una dozzina d’anni fa). All’inizio c’è un interessante bassorilievo di uno che sta seduto a gambe incrociate che si faceva kara-kiri, del XII secolo… mi pare un po’ il simbolo di questa lotta tra tamil e singalesi.
Con Polonnàruwa si visita la seconda capitale dell’isola, già nel VII sec. ci fu la penetrazione commerciale, economica e di popolazione, da parte dei Pallava, la dinastia regnate nel sud dell’India, poi, dopo aver invaso il nord dell’isola, e distrutto Anuradhapura, la dinastia tamil dei Chola alla fine del X sec. fondò qui la sua capitale, Pulatthinagara, e ne fecero anche la città santa del brahmanesimo shivaita a Ceylon. Quindi la città era consacrata a Nataraja, cioè a Shiva in quanto “Signore della danza” cosmica, il distruttore-trasformatore. Ora i pezzi più belli sono al museo di Colombo, e qui è pieno di foto e di copie. Poi con la restaurazione del regno singalese da parte del re Vijayabahu, si è sviluppata una architettura originale che in certi casi fonde l’estetica dell’arte shivaita tamil con l’arte buddista singalese.
C’è un bellissimo Buddha scolpito sdraiato, nel momento in cui sta per abbandonare il corpo (all’ingresso del santuario-monastero Gal Vihara, il tempio della roccia, del 1153-1186), che veramente incanta per la sensazione di serenità che sa comunicare, e uno seduto, molto preso e concentrato in una meditazione profonda, questa statua è detta Lankatilaka, cioè gloria dello Sri Lanka.
Un altro seduto, poi uno in piedi in una postura inusuale e con le braccia conserte. Il tutto è protetto da tettoie e da uno sbarramento che impedisce di avvicinarsi troppo. C’è anche un interessante tempio circolare (circular relic shrine), Vatadage, che per un certo periodo custodì la reliquia del dente di Buddha.  Poi la piscina della regina Lilavathi, in granito a forma di loto, i resti del palazzo, un grande stupa, una bella statua di un re con la spada curva, Parakramabahu, e vari altri resti di templi hindu e buddisti. Alcuni inusuali, come appunto quello circolare e quello a piramide. Tutto si fonde mirabilmente con la natura circostante.
In definitiva si arriva a comprendere che da almeno un millennio in quest’isola si sono sviluppate non una ma due civiltà (l’una di origine sanscrita, e l’altra dravidica), corrispondenti non solo a due diverse lingue, ma a due diverse culture e religioni. Polonnaruwa è uno dei luoghi in cui convergono sia singalesi che tamil, sia hinduisti che buddisti, e qui perlomeno si “incontrano”.
Ci soffermiamo all’ombra degli alberoni, a guardare i giochi delle scimmie tra loro. Tutta la zona di questo grandissimo demanio è comprensiva di una fitta giungla.
Visitiamo anche il grande Parco lungo il canale, in parte in auto, è anche questo di vari ettari. Incontriamo un giovane elefante maschio da solo e libero, che attraversa la strada per andare al lago a bere. Ce ne sono altri che abitano qui, ma fanno la loro comparsa solo di sera. Bei luoghi.
Al ritorno ci fermiamo a prendere una aranciata in un paesino, perché fa veramente molto caldo. Ci sono delle panetterie proprio ben messe e con un sacco di roba bella e buona (ma non solo qua, in generale).
Arriviamo al nostro agriturismo MPS Village (http://www.mpsdambulla.com/sightseeing.html) per la seconda notte, e facciamo il bagno nella piscina sul bordo del laghetto, oramai all’imbrunire e tra i gridi degli uccelli. Sul fondo della piccola piscina ci sono delle lucette che cambiano colore… carino…
Vediamo un bellissimo stormo di 9 tucani che volano via.
Al buffet per cena ci sono tutti quei ragazzi che fanno volontariato, sono della organizzazione internazionale “Habitat for Humanities”; questi sono circa 25 ragazzi/e tra i 16 e i 18 anni, con quattro adulti (canadesi) che li accompagnano. Sono tutti figli di persone di vari paesi del mondo, che lavorano in Arabia Saudita.
Ci riposiamo dopo una giornata calda e impegnativa, ma abbiamo visto tante cose interessanti e belle.

11 febbraio
Al mattino andiamo a Dambulla a vedere il Rock Temple. Piove a dirotto, anzi peggio… si aprono le cataratte… ci infiliamo i nostri impermeabilini e affrontiamo la salita di innumerevoli gradini per giungere alle grotte del Cave Temple, tra i più antichi templi buddisti, del primo secolo A.C. opera del lavoro che nei secoli impegnò molti monaci.
Al momento non avremmo molta voglia di vedere altri templi, tanto più che piove e che bisogna salire moltissimi scalini, ma poi, quando arriviamo, ci togliamo le scarpe, e ci si presentano cinque grotte dal soffitto basso, e buie, che fanno molta impressione a chi vi entra.
L’atmosfera è molto particolare, e si parla tutti spontaneamente a bassa voce. Siamo oramai proprio inzuppati tutti tutti. La vista di queste grotte completamente affrescate e con le loro statue colorate allineate lungo il bordo, vale la scalinata e la fatica di salire nell’afa, e anzi vale tutto il viaggio dall’aeroporto fino a Dambulla. La seconda in particolare, che è molto grande e antica, per me è stata la più spettacolare, veramente fantastica.
In tutto ci sono più di 150 statue, e la grande Tavola in cui è scritta tutta la storia della vita del Buddha Gautama, e innumerevoli sono le scene dipinte sulle pareti affrescate.
Fino ad alcuni anni fa non si potevano fare fotografie all’interno delle grotte, da quando nel 2003 una stupida turista si fece fare una foto seduta nuda su una statua di Buddha, che in tal modo risultò profanata e dissacrata, con immenso sconcerto di tutti i buddisti (e non solo) del mondo.
Di fianco all’ingresso delle grotte c’è un tempietto hindu, quindi la gente che si fa tutte le scale e viene quassù potrebbe in parte essere composta anche da hinduisti.
Abbiamo trascurato il Tempio della Roccia che c’è giù in basso all’entrata, col Buddone severo dorato e kitsch, avrei voluto anche curiosare nel locale museo e nella Libreria, ma piove troppo troppo troppo.
Ripartiamo sulla ottima A9 per Matale.
Mi ricopio la scritta: “he who lives by the Dhamma is protected by the Dhamma“, ovvero colui che vive secondo i valori spirituali, è da loro protetto. I buddisti chiamano Dharma o Dhamma a seconda delle pronunce, la Via, l’insieme dei detti e delle indicazioni del Buddha, il complesso dei suoi insegnamenti. Per significare di aderire a quegli insegnamenti nella propria vita applicandoli nel quotidiano e facendoli propri nel profondo di sé stessi, si dice: prendere rifugio nel Dharma.
Traffico intenso. A Matale ci fermiamo per una sosta. Visitiamo una grande gioielleria per guardare alcune belle pietre preziose. E’ una delle principali fonti di ricchezza di Sri lanka. Proiettano un filmato in cui spiegano che ci sono due modi per ricercare le pietre preziose: o inoltrandosi con tunnel sotterranei o nelle pareti montagnose per seguire un filone, insomma costruendo una miniera, o scavando un bucone di 20 metri e poi setacciando tutti i vari livelli del carotaggio.
Nei sacri testi dei Purana (che significa “antico”), si racconta che il dio-Sole, Suriya si prese furtivamente il sangue del potente demone Baya, e fuggì in cielo. Il sovrano di Sri Lanka, re Ravana, provò a fermarlo, e il Sole in fuga temette di venire raggiunto, e lasciò cadere parte di quel sangue che finì in un grande fiume. Col passare del tempo le rive si ricoprirono di gemme rosse (i rubini).
In SriLanka si trovano gli occhi di gatto (biancastro su fondo grigio-verde), le pietre di luna (la pietra più tipica dello SriLanka), alessandriti (tra cui il crisolito detto “di Ceylon”), altri quarzi (come l’occhio-di-tigre, giallo-oro su fondo bruno), spinelli (come la rara verità nero-verdastra detta ceylanite), tormaline, granati, rubini, topazi gialli, zaffiri, come il famoso zaffiro blu di Ceylon dell’anello regalato dal principe Carlo a Lady Diana (e ora dato da William a Kate), ma non i diamanti, e non i topazi verdi, che sono di importazione.
Il posto comunque è troppo caro, sono prezzi di livello occidentale. Forse era la “Isini gems”, che è collegata alla catena “Oak-Ray”. Ricordo un vecchio film, “Tempesta su Ceylon” di G.Roccardi incentrato su una preziosa gemma.
Riprendiamo il viaggio e ci fermiamo in campagna in un’area della hill country, dove ci sono nel bosco ad ogni metro uno dopo l’altro centri di coltivazione e produzione di spezie, altra grande fonte di ricchezza di SriLanka. Queste straordinarie ricchezze naturali fecero lo splendore dell’isola (Sri significa splendente), e anzi la stessa isola è paragonata proprio ad uno smeraldo splendente nelle acque dell’oceano. Ma nel contempo purtroppo furono ciò che attrasse i vari invasori del paese: tamil, malesi, arabi, portoghesi, olandesi, inglesi … e ora le multinazionali globali. Sono dunque “croce e delizia al cor…” (da La traviata di Verdi).
Cannella, la migliore, la cannella regina o cannella di Ceylon, cinnamomum zeylanicum, e in generale ogni tipo di cardamomo, citronella, areca (noce di betel), pepe, noce moscata, ginger (zenzero), cloves (chiodi di garofano), curcuma, saffron (zafferano), foglie di curry, curiander (coriandolo), comino, anice, eccetera e i loro derivati, balsami, oli, unguenti, pomate, preparati per infusi, e tutto ciò che dall’erbario locale è stato sviluppato dalla farmacopea ayurvedica.
L’esploratore inglese di nome Robert Knox, nella sua opera “An Historical Relation of the Island of Ceylon”  del 1681 (ora ristampato dal King’s College, London, march 2004), commentava le abitudini locali nell’utilizzo delle erbe equatoriali affermando: «Le foreste sono le botteghe dei loro farmacisti; con le erbe, le foglie e le cortecce che trovano, producono le proprie medicine e impacchi con le quali praticano nobili cure».
Piove, anzi siamo proprio dentro ad una grandissima nuvola.
Ci fermiamo allo spices garden “Luck grove” di Matale, piantagione ovvero boschetto fortunato, nel senso di florido. E’ un luogo meraviglioso, un locus amenus, lussureggiante, da favola.
Ci offrono una tazza di infuso speziato caldo. Ci mostrano le varie coltivazioni e ci illustrano l’impiego di varie spezie, poi ci fanno uno stupendo massaggio con la canfora (estratta dal cinnamono Laurus camphora) che penetra nella pelle, fino alle ossa, e lascia un aroma forte, e una sensazione rinfrescante. Massaggio migliore di quello che facemmo il secondo giorno. Intanto ci parlano della massoterapia e dei vari unguenti indicati per i differenti massaggi. Io preferisco il massaggio che chiedo di solito, e lui, oltre a clavicole, spalle e collo, mi friziona anche la testa, ovvero il cuoio capelluto: estremamente rilassante e ristoratore, in attesa che spiova (il che non succede). Ci trasferiamo nella casetta-negozio, dove compriamo piccole boccette di oli da massaggio, e confezioni di curry brown, curry green, cloves, saffron, vegetable masala, mustured combi, sandlewood, e chili.
Tra le ricette ayurvediche è qui illustrata quella per il curry singalese (sia di carne che di pesce, che di verdure):
Affettare cipolla, peperoncino, foglie di curry, cannella e cardamomo; mischiare il tutto e friggere sinché le cipolle non divengono dorate. Aggiungere fettine di aglio, poi mischiare la carne (o il pesce, o le verdure) con la polvere di curry leggero, un po’ di zafferano, una tazza d’acqua, un cucchiaino da thé di mandorla e aceto. Mescolare tutto e far bollire per 20 minuti. Alla fine aggiungere del burro a piacere.
Ingredienti: mezzo chilo di carne o pesce o verdure, 1 cucchiaino di curry in polvere, 4 spicchi d’aglio, 1 cucchiaino di tamarindo o di mandorla, 6 cipolline piccole, 1 cucchiaino di peperoncino in polvere, una presa di zafferano, un pezzetto di cannella, 5 cardamomo, 1 cucchiaio di aceto, 1 tazza d’acqua, un po’ d’olio di semi per friggere.

Mentre la ricetta per l’infuso speziato è: prendere un cucchiaino da thé con una mistura di polvere di thé, cardamomo, cannella, zenzero e coriandolo, una o due gocce di essenza di vaniglia, e un cardamomo. Mischiare il tutto con acqua bollente e dopo tre minuti filtrare e aggiungere la vaniglina. Quindi battere il cardamomo e aggiungerlo. Alla fine chi vuole potrebbe aggiungere un pizzico di zucchero o del miele preferito. E’ una bibita saporita e un po’ pizzicorina, ottimo diuretico, che è usata appunto come benvenuto nell’accoglienza di un ospite, ma è anche utile per mal di gola, raffreddore e mal di stomaco.

KANDY
Arriviamo attraverso paesaggi di vegetazione esuberante e paesini di campagna, alla capitale religiosa dell’isola, Kandy, il cui nome fa appunto riferimento alla hill country, Kanda-uda-rata, cioè country on hills, la regione collinare, o up-country, regione alta.
Ci fermiamo a pranzare in un grandissimo salone dove c’è un buffet. Si tratta di un grande buffet self-service di una catena di alberghi e ristoranti, “Oak-Ray Restaurant”. Ottima qualità, e come al solito, a buon prezzo.
Intanto la pioggia aumenta di volume e intensità. Entriamo in città con un gran traffico, ma non così  terribilmente caotico come in certe città indiane, e senza troppi strombazzamenti di clacson, andiamo al nostro albergo, il “Serene Garden”, solo per lasciare giù le valige, sul finestrone della nostra camera (che ha la “vista” che da sulla tromba delle scale interne…!), c’è scritto “Beware of monkeys. Keep all the doors & windows locked”, cioè attenti alle scimmie, tenete tutte le porte e le finestre sempre chiuse col lucchetto.
Subito usciamo per fare un giro in città. Scendiamo sul grazioso lungo-lago.
Osserviamo che certe donne hanno abiti “tradizionali” vistosamente colorati, e soprattutto che molte portano il sari tipico singalese, detto ossery, con la cintura di stoffa, una sciarpa stretta e lunga, e il bordino è rimborsato alla vita ed è fuori dalla cintura, poi hanno una blause shirt, cioè una blusa, e certe invece del rimborsato hanno sopra una sorta di gonnellina short skirt, ma la maggior parte sono vestite in modo “moderno” e “semplice”.
Per le 5 e mezza abbiamo prenotato al teatro “Avan Hala” per andare a vedere uno spettacolo di danze folkloriche dette “Cultural Show”, organizzate dalla Kandyan Art Associations, prezzo del biglietto a testa 500 Rupie (cioè quasi tre euro). Per un totale di dieci esibizioni. C’è il disegno di una ballerina accompagnata da un tamburino, anche sulle banconote da 100 Rs, che sono le più comuni in circolazione.
Impossibile avvicinarsi in auto, anche a causa del diluvio in corso, proseguiamo a piedi, e troviamo il teatro strapieno. Ci sono più che altro tantissimi turisti di tutto il mondo. Le danze sono interessanti, carine, ma nulla di che, e i danzatori non è che si muovano proprio in sincronia, sembra tutto un pochino approssimativo; c’è anche una ballerina un po’ cicciotta, una diciamo un po’ avanti negli anni, e va bene, è più simpatico e spontaneo così. Gli uomini nelle danze successive non mi sembrano molto bravi. Alla fine due di loro fanno uno spettacolo di mangiafuoco, e per ultimo uno si esibisce nel fare il fachiro e camminare su una striscia, o letto, di carboni e braci ardenti.
All’uscita c’è il caos e casino massimo tra intasamento auto e pioggia torrenziale.
Vediamo molti anziani fare vari lavori, è perché non hanno la pensione, solo i dipendenti pubblici (civil servants) avevano da tempo un servizio pensionistico organizzato. Dunque di fatto i figli adulti sono l’aiuto e sostegno dei genitori anziani, per cui più ne hai e meglio starai. Si constata così il dato di fatto (che da noi magari sembra apparentemente ovvio e scontato), e cioè: a seconda dei servizi sociali che la società in cui vivi ha previsto, varia il tipo di vita che conduci e il progetto di vita che puoi delineare…
Rientriamo non troppo tardi, per chiacchierare con i figli nostri a casa, via skype.

12 febbraio: Peradeniya e Pinnawala
Al mattino presto vediamo delle bimbe e ragazze che fanno ginnastica all’aperto, e poi altre che si preparano a entrare in una piscina scoperta, e più giù dei ragazzi che fanno vari sport, e altri che sono impegnati a fare footing e altri corsa.
La prima colazione con degli hoppers, ma questi -diversamente da quelli descritti l’altro giorno- fatti come delle crèpes con dentro un uovo fritto, e il pittu, che è una mistura di farina e cocco, cotta al vapore in uno stampino di bamboo, per darle una forma cilindrica, poi bagnata nel latte di cocco o condita con del curry, o con del chutney.

PERADENIYA
Andiamo lungo il “grande fiume di sabbia”, Maha weli Ganga, così chiamato per il fatto che dalle sue rive e dal suo letto si preleva molta sabbia per le costruzioni, ed è il fiume maggiore dell’isola che poi sbocca a Trincomalee. E ci rechiamo a Peradeniya, dove ci sono i famosi giardini botanici. Risalgono ad una iniziativa del governo coloniale britannico che nei primi anni dell’Ottocento decise di utilizzare così il parco reale del sovrano di Kandy detronizzato, ed è oggi uno dei più mirabili del mondo. E’ praticamente un conservatorio delle piante tropicali e equatoriali di ogni continente. E’ immenso, si estende su 147 acri (=59 ettari) e ha una dependance, che è un vicino giardino di piante medicinali, di altri 23 ettari. Ci sono più di quattromila specie diverse, tra cui molte anche assai rare. Il biglietto di ingresso ai Royal Botanical Gardens costa 1100 rupie a testa (poco più di sei euro).
Essendo con Marco, il quale, laureato in agraria, è sempre stato un grande appassionato di bamboo, andiamo subito, orientandoci con una apposita cartina, verso l’area dove c’è una grande collezione di vari tipi di bamboo. Il parco è pieno, oltre che di turisti, di coppiette di innamorati. Poi giriamo attorno al laghetto con la fontana, e diamo una occhiata anche alle altre collezioni.
Purtroppo riprende a piovere e va crescendo di intensità, per cui la nostra visita resta disturbata. Comunque ci vorrebbe una intera giornata per vedere un po’ tutto il parco, e non basta la sola mattinata.
Al parcheggio c’è una signora che vende zerbini e tappetini di gomma, che si porta sulla testa, K. ne ha comprato uno, perché sa che è una vedova con figlie, e ha voluto aiutarla.
Prendiamo la strada A1 (quella tra Kandy e Colombo) che passa vicino ad un’altro orto botanico, ed è tutta una zona di bella vegetazione e di coltivazioni di spezie, lungo il Maha Oya, un altro grande fiume che sfocia a Negombo.
Arriviamo a PINNAWALA dove ci sono negozi di articoli in pelle, tipo borse di ogni genere, botteghe di intarsi su legno, e di statuette di legno, e di artigianato di produzione cartacea, e soprattutto andiamo direttamente all’Elephants Orphanage, dove vengono raccolti gli elefantini rimasti orfani (a causa dei bracconieri), ma anche degli adulti, ad esempio c’è un maschio che era restato ferito ad una gamba da una bomba dei separatisti tamil, e uno che è sopravvissuto ad uno scontro con un treno, e un altro che combinava disastri nei villaggi, e lo hanno fatto portare qui, e uno che è rimasto mezzo accecato, sempre dai bracconieri che tentavano di togliergli le zanne. Inoltre ci sono varie elefantesse che si prendono cura degli orfani. Arriviamo in tempo per l’ora di pranzo, e assistiamo all’intervento dei guardiani forestali che danno loro dei grandi biberons di latte d’elefantessa. E’ molto tenera la scena.
Poi gironzoliamo tra gli elefanti e li osserviamo nelle loro interazioni e attività. Il biglietto di ingresso costa 2000 rupie, cioè 11 €uro.
Il Parco fa venire 250 kili di foglie al giorno per il nutrimento di ogni ospite, e “in compenso” poi degli inservienti raccolgono tutta la cacca con la quale si può tramite particolari procedimenti fare della carta e del cartone. Perciò qui nei dintorni ci sono molte paper mills, cartiere artigianali, che poi vendono fogli, quaderni, block-notes, eccetera. Dung paper, o poo-poo paper .
Quindi pranziamo all’Elephants Park, in un ristorante con terrazza proprio sulla riva del fiume in cui porteranno gli animali a lavare, e a rinfrescarsi.
Mangiamo bene e al solito prezzo di circa 6 euro a testa. Dopo un po’ arrivano 45 elefanti che occupano per intero tutta la stradina dei negozietti tra l’orfanotrofio e il fiume, facendo una gran vibrazione del terreno; è un vero spettacolo, emozionante, non avevo mai visto da vicino un numero così grande di elefanti tutti assieme, è realmente un terremoto, fa impressione.
Poi dalla terrazza stiamo a guardare la scena di loro che si rilassano, si divertono, si rinfrescano. Uno se la dorme stando sdraiato su un fianco, sotto il pelo dell’acqua, tenendo fuori solo la fine della proboscide per respirare, o se no anche facendo le bolle, e dormendo.
Un altro sta isolato e è nervoso, e pendola sulle zampe. Altri vanno in giro sul greto del fiume, i giovani giocano.
Dopo l’orario di svago rientrano, prima i tre maschi, tra cui uno è molto socievole, e si sofferma a salutare tutti quelli dei negozi che lui conosce. Poi rientrano tutti gli altri.
Usciti da Pinnawala, vediamo che ci sono anche altre fondazioni contro il bracconaggio e a difesa degli elefanti, con piccoli parchi, e anche varie fabbrichette di carta.
Vediamo ad un certo punto una parte molto fitta di foresta in cui pendono dagli alberi centinaia e centinaia di grossi pipistrelli.
C’è un intenso e denso traffico stradale nel ritorno a Kandy.
Kennedy guidando canticchia una canzone, e gli chiedo informazioni. Dice che è una canzone popolare che parla di Sura Saradiel, che fu il Robin Hood singalese a metà dell’Ottocento, sulle cui vicende sono sorti racconti leggendari, che vengono trasmessi in forma cantata. Ma anche se le leggende aggiungono molto di fantasia, c’è pur stato veramente uno così che viveva in una misera capanna in montagna nella foresta, e rubava agli inglesi e ai loro sostenitori, ma mai ai singalesi e tanto meno ai contadini o ai poveri, anzi è rimasto povero perché proprio quel che prendeva lo dava per aiutare chi aveva bisogno, per cui non si riusciva ad arrestarlo non solo perché si nascondeva nella foresta, ma anche perché tutti lo proteggevano, ma alla fine fu catturato e mandato a morte. Per K. questi racconti sono stati importanti quando era un ragazzino di campagna, e per lui Saradiel era un eroe e non un bandito fuorilegge.
Arrivati in città, ci fermiamo al negozio della “Oak-Ray Silk Gallery”, dove andiamo a vedere le famose T-shirts e camice delle grandi marche europee e occidentali, che vengono prodotte qui, e che vendono a prezzi di fabbrica, e inoltre ci sono pure imitazioni (ma queste le si trovano soprattutto nelle bancarelle di strada). Le T-shirts “normali” sono a 300 rupie (= 1€ e 70), mentre quelle delle grandi marche, tipo Lacoste, Polo, Tommy Hillfinger, Ralf Laurent, o altre le vendono a 1500 Rs. (cioé 8€ e mezzo). Ne comperiamo diverse.
Poi visitiamo anche la show-room della “Oak-Ray Woodcarving”, che è lì vicino. Un lavorante ci mostra come si colorano le maschere tradizionali in legno. Si prende un barattolo con acqua calda, gli si versa dentro della limatura fine di legno rodiato, poi si immerge del ferro precedentemente bagnato con succo di lime, e il liquido diviene miracolosamente nero; poi si aggiunge abbondante succo di limone, e diviene giallo; quindi si aggiunge del gesso caolino, e di nuovo come per miracolo il liquido diviene color viola scuro. Dopo questa dimostrazione, ci dice che i colori naturali restano per sempre sulle maschere, se sono fatte con il pathangi, un legno che c’è solo in SriLanka e in Giappone (in inglese infatti si dice Japan wood tree), con cui tradizionalmente si facevano le maschere per le cerimonie, se invece si adoperano dei colori chimici, questi dopo due anni cominciano a sbiadirsi. Non solo la foggia delle maschere è significativa di ciò che vogliono rappresentare, ma anche i colori che ci sono su, hanno un loro significato simbolico. Per cui ci mostra varie maschere tradizionali, e quella che raffigura simbolicamente un cobra, significa protezione, quella che rappresenta l’uccello mitico Garuda (o in singalese Gurulu), simboleggia la prosperità, il potere, quella che rappresenta il fuoco, rinvia a energia, armonia e amicizia, quella del pavone, sta per pace, amore, bene, fortuna, felicità, quella di Gara, per distogliere lo spirito maligno, e quella che rappresenta l’uomo di medicina, significa buona salute e lunga vita.
Poi visitiamo la parte dei mobili di artigianato locale, e ci sono dei pezzi davvero molto belli.
Ci chiedevamo il valore di certi prezzi che abbiamo sentito, e domandiamo a K. qual’è per loro il costo della vita, o di dirci quali sono mediamente i salari e gli stipendi, e ci dice che è molto diverso il tenore di vita in città e in campagna, comunque in città gli stipendi mensili medi sono per chi lavora in un negozio di 140/200 €uro, in una banca, tra i 300 e i 400 €uro, comprare una casa piccola costa 15/20 mila €uro, un’auto della indiana Tata, 12mila€, un tuktuk 3mila €uro.
Torniamo in albergo per la cena e per la seconda notte.

mercoledì 13 febbraio: Kandy e poi le piantagioni
Dalla terrazza della sala-colazioni vediamo giù nella nella vallata degli scolari che entrano in piscina, tizi che corrono, altri che giocano a cricket o a calcio.
Usciamo per andare a visitare il Tempio della reliquia del dente di Buddha, sri Dalada Maligawa, dato che fra poco si svolgerà la cerimonia di apertura del tabernacolo. Nel periodo dei dieci giorni della luna piena di agosto la cerimonia dev’essere -da quanto raccontano- particolarmente grandiosa e sontuosa, con una processione che si chiama Esala perahera, con in testa un grande elefante con le zanne, e altri elefanti tutti bardati, tamburi, musica e danze, acrobati, e si svolge di notte con le torce.
La reliquia fu portata nell’isola da una principessa dell’Orissa nel IV secolo. A sinistra del tempio si trova un santuario hindu, per cui la gente che entra nel recinto potrebbe essere sia buddista che hindu.
Vediamo subito che ci sono mamme e nonne e zie che convergono per portare il neonato o comunque dei bimbi piccoli per questa occasione. Dentro il tempio è strazeppo di gente che è arrivata da ogni dove, con offerte di fiori e petali di fiori, di ogni bellezza e grandezza.
Ci sono suonatori vicino alla chamber of sacred tooth relic, (reliquia che nessuno ha mai potuto vedere, essendo dentro a sette scrigni), con tamburi, con pifferi, campanelle ecc. Ci sono pure dei blandi controlli all’ingresso a causa di un assurdo attentato nel 1998 che coinvolse anche dei turisti, da parte di un separatista tamil. In questo tempio ci sono delle opere artistiche di una raffinatezza e di un livello estetico straordinarie.
Tutti sono molto molto presi dai vari momenti di questa cerimonia. Vista da fuori, quindi senza la partecipazione emotiva dei fedeli, questa come ogni cerimonia, appare semplicemente come una convenzione, un insieme di gestualità e di atti rituali secondo una prescrizione ritualistica consolidatasi con l’uso e col tempo, e si vede come questa impalcatura esteriore necessiti di addetti e officianti. Comunque come tradizione e come folklore la trovo interessante e per certi versi anche bella, pur non riuscendo a togliermi di mente non solo che ha un valore e una funzione formativa per favorire la integrazione in una cultura, ma che il magnifico Siddhartha Gautama forse non aveva previsto che  rendessero tutti questi omaggi formali ad un suo dente, e che la gente guardasse ai simulacri del suo aspetto corporeo come ad un Dio in terra, e tantomeno che il mostrare -alle statue kitch che lo ritraggono- il proprio bimbo 2600 anni dopo che lui è oramai morto (e forse nemmeno mai più rinato), possa avere un qualche effetto reale per la vita futura di quei piccoli bimbi.
Insomma resto molto scettico verso le forme della religiosità popolare, (anche se in me c’è commisto un sentimento compassionevole di affettuosa vicinanza), pur comprendendo che il bisogno di spiritualità dell’essere umano si esprime nelle varie forme date dalla cultura e dalla civiltà di riferimento, comunque conservo una mia convinzione un po’ da filosofo su ciò che vale e che può conservare validità anche in tempi storici lunghi, e anche su ciò che la nostra mente può cogliere con vaga intuizione su cosa si potrebbe intendere per il divino e per la sua presenza immanente nella realtà materiale in cui ci troviamo a vivere… Ma tuttavia constato che moltissime volte la spiritualità viene incanalata in vere e proprie ideologie religiose. Infine anch’io in questi momenti di riflessione, che sono stimolati dalla mia presenza in mezzo a tanta devozione, coltivo un sogno, che le religioni del mondo possano comunque ritrovare e valorizzare quel che le accomuna e renderlo motivo forte per non venire strumentalizzate a fini di divisione e di conflitto tra gli uomini di fedi differenti. Dato che siamo in un contesto di progressiva e rapida mondializzazione questo obiettivo mi pare che stia diventando molto da prendere sul serio e urgente.
Comunque sia, resta il fatto che per conoscere Sri Lanka e il popolo buddista singalese, bisognava venire in questo tempio e durante lo svolgimento di una cerimonia. Già la città in sé stessa ha un valore di simbolo importante per i singalesi dato che è stata la sede dell’ultima monarchia indipendente, e il tempio della reliquia è il luogo più sacro per i buddisti dell’isola.
Ora mi viene in mente che a casa ho un piccolo opuscoletto in carta riciclata, sulla meditazione buddista Vipàssana (Beginning insight meditation di Dorothy Figen), del 1980, che è stampato proprio qui a Kandy, della collana “Bodhi Leaves”, quelle foglioline che stanno ai quattro angoli della bandiera, me lo andrò a rileggere quando torno.
Poi ripartiamo, lasciamo Kandy diretti verso le montagne. Passiamo accanto al grande e bel campus della Università, che sta a Peradeniya, dove ci sono le sedi di tutte le Facoltà, i laboratori, l’orto botanico, i campi sportivi, le mense e i dormitori studenteschi, insomma un’area di vari ettari di edifici moderni in mezzo al verde. C’è pure un bellissimo grande ficus benjaminus, un grande rain tree, albero di pioggia, (che bellezze naturali che ci sono!), e tanti studenti che in certi casi si riconoscono come appartenenti a religioni diverse, studenti laici e monaci, studenti moderni, e anche stranieri.
Poi ci inoltriamo definitivamente nella florida campagna, e vediamo piantagioni di cacao, di vaniglia, di thé, cardamomo, manioca e tapioca, e risaie. La terra è rossa.
Saliamo e saliamo nella nuvola con pioggerella sottile e insistente, e tantissima umidità pur nel caldo. Vediamo un bel camaleonte, che si dice katussa.
Kennedy intanto ci racconta che a sua mamma non piaceva la sua ragazza (che poi l’ultimo giorno conosceremo, una giovane ben cicciotta dal bel viso, che ci è parsa molto dolce), perché sua madre era emigrata all’estero a lavorare, ma non accennava a una data del suo ritorno. Dopo anni loro due si sono sposati comunque, e pian piano la mamma di K. si è calmata e abituata. Ad un certo giorno la suocera è venuta brevemente in SriLanka, ma solo una volta, ora sono già da anni che non torna più. Forse lei ha oramai là un’altra vita.
Non ricordo dove K. ha detto che sta, forse alle isole Bahrein vicino all’Arabia Saudita. Ci dice che certe coppie vanno in giro per il mondo e quando hanno compreso che non riusciranno mai più a tornare a vivere sull’isola, vengono per un unico e ultimo viaggio, vanno in un posto detto horn place, dove c’è un grande burrone e si suicidano. Quanta sofferenza poverini!
Ma fino a poco fa c’erano tanti problemi, mancanza di lavoro e di soldi, guerra, tsunami, differenze che dividevano la gente, tradizioni a volte oppressive, mentalità ristrette, ma ora ad esempio le caste non sono più un ostacolo, e si guarda più che altro alla posizione economica e lavorativa, e si bada che il partner sia di buoni costumi, eccetera, ma poi se due giovani si innamorano, non c’è nulla da fare, non li ferma più nulla e nessuno…. così dice il nostro buon Kennedy.
Nel romanzo di Marya Mohanraj, Il sapore del curry, si racconta che in questo Paese in cui fino a poco fa vigevano regole millenarie sui matrimoni (e ancora oggi non sono scomparse), c’era una certa Shanthi, la più studiosa della famiglia, segnava di andarsene lontano. Ed è così che un giorno infrange le tradizioni e parte da sola, va oltre oceano, in Inghilterra, per continuare gli studi di fisica a Oxford. Lì scopre un modo di vivere che le sembra del tutto libero, e si innamora di Aravindan, che ha conosciuto nella biblioteca universitaria. Si sono promessi e infine anche sposati, pur contro il parere di entrambe le famiglie, che sono di caste diverse. Ogni tanto ritornano per nostalgia a Sri Lanka. Poi emigreranno in America per allontanarsi ancor più dall’ingerenza dell’ambiente tradizionalista, e là poi accadrà che una delle sei figlie, Kili, sposerà uno straniero, un americano, mentre un’altra, Leilani, farà coppia con una amica. Ma tutte loro hanno nel cuore il profumo del curry, il ricordo delle buganvillee, e del sole equatoriale…
Poi ad un certo punto della strada K. ci racconta che una volta partendo proprio da lì si era avventurato da ragazzo con amici addentrandosi per 30 kilometri nella giungla e gli era capitato di vedere una maestosa e stupenda tigre, rimanendo in assoluto silenzio, controvento, immobili e respirando appena pian piano. Ora anche qui la tigre è in via di estinzione.
In questa zona coltivano gli avogado. K. si ferma a un baracchino di frutta e verdura lungo il bordo della strada e ci compra delle banane rosse da farci assaggiare.
Tutto questo territorio è detto little England, piccola Inghilterra, per il fatto che gli inglesi stravedevano per queste campagne ondulate e collinari, e ancor oggi l’architettura, i clubs, il golf e il cricket, le abitudini sono piuttosto british. E’ tutta una zona molto mista hindu e musulmani, con pochi buddisti.
Passando vediamo la cascata a Pussallawa, poi le Ramboda Falls, e varie altre, tutte belle.
Nei pressi di Little Adam’s Peak vediamo delle gente che K. dice che sono turisti zingari ricchi, che tanti anni fa raccoglievano la marijuana e hanno fatto i soldi.
Purtroppo qui, dove ad ogni curva si fermano le auto e i pullman per guardare le varie cascate e fare foto, si piazzano dei vecchietti e vecchiette che chiedono con grande insistenza soldi. K. ci indica un vecchietto la cui foto era comparsa su una rivista inglese, è diventato famoso!, e lui è sempre lì che chiede ai turisti di dargli dei soldi.
Vediamo donne che raccolgono a mano accucciate le foglioline del thé, tekola.
K. ci va a prendere una piantina per farcela vedere.
Poi salendo più in alto, ci sono tanti terrazzamenti per la coltivazione di porri, bietole, carote, cavolfiori, zucche; è una zona rinomata per la buona verdura che produce. E anche per le foreste di legno pregiato.
Questa è l’altitudine e la zona montana, nei pressi del picco di Adamo e delle foreste di Haputale, dove ci sono le più vecchie piantagioni di thé, i turisti in genere si fermano a quella di Thomas Lipton, che poi diede vita anche a una sua marca famosa nel mondo (e che vende blended teas, miscele). Noi facciamo sosta, dopo il bivio per Ella, presso Bandarawela, alla MacWoods Plantations, i cui prodotti vengono venduti all’ingrosso alle marche che producono le varie miscele che si trovano sul mercato del consumo. Dunque la piantagione del capitano di vascello William Macwoods, che data dal 1841, poi divenuta della locale famiglia Mendis, e dal 1956 della famiglia dei Nonis, si basa sui thé di un solo singolo latifondo (il Labookellie Estate) di 27 mila acri, che produce 17 tipi di thé. Veniamo accolti sulla terrazza da cui si gode una splendida vista sulla piantagione, e ci viene offerto un thé di benvenuto. Poi una signora in saree, che parlerebbe in italiano, ci accompagna flemmatica in un giro di visita alla manifattura dove si procede alla lavorazione dei raccolti. In realtà non conosce l’italiano, ma solo sa a memoria tutte le parole che compongono quel suo discorso in italiano, e infatti non è in grado di rispondere a nessuna domanda, curiosità, richiesta di spiegazioni, semplicemente perché non può capire le domande.
Ci sono 650 raccoglitrici/ori, e circa mille lavoratori/trici nella manifattura, che staccano a mano l’ultimo quarto di foglia e lo mettono in sacchi che hanno dietro la schiena, e ce ne vogliono 5 kg per un kilo di thé utilizzabile. Le piantine vivono 5 anni, e dopo tre mesi di vita cominciano a produrre 4 volte al mese le foglie maggiori, e i germogli per il thé leggero. Ci mostra i grandi tunnel meccanici in cui entrano 1800 kg di foglie per 12 ore in modo da seccarsi. Poi da questo insieme si traggono 900 kg di prodotto, e lo si mette in macchine che separano i gambi dalle foglioline, infine si procede alla fermentazione per il thé nero (per il thé verde non occorre). Poi ci sono altre macchine che procedono a tagliare il tutto in piccoli pezzettini, di misure diverse, poi segue un processo di ossidazione con aria compressa; infine va nel tostatore per 21 minuti e il prodotto va ad un tasso di umidità del 3% soltanto.
Dunque il processo di lavorazione contempla queste fasi: plucking, withering, rolling, fermentation, drying, sorting, tasting.
La 1a qualità è quella che utilizza solo i germogli ed è thé leggero buono da miscelare, la 2a è con le foglie piccole, e poi c’è quella con le foglie medie, che vanno bene per thé in cui si aggiunga il latte. Insomma una lavorazione complessa. Poi questi thé sono classificati in Orange Pekoe (OP), in Broken Orange Pekoe (BOP), e altre quattro tipologie, queste sono le definizioni (ma che non hanno nulla a che vedere con i frutti dell’arancio), poi le varie marche che li comprano fanno le loro misture nelle bustine o nei pacchetti di thé sfuso, praticamente tutto il thé che noi beviamo è blended, cioè è frutto di sapienti miscelature (come accade in sostanza anche per il vino). Cfr. http://www.mackwoodstea.com/
Mi pare dall’occhiata generale che abbiamo dato che i lavoratori manuali siano più che altro tamil, mentre gli impiegati vari siano in genere di etnia sinhala. La raccolta del thé in Sri Lanka non è stagionale (in altri paesi si fa tre volte l’anno) ma è praticamente quasi continuativa, cioè si svolge durante tutto l’anno.
Nel negozio compriamo dei pacchetti per noi e per regalarli (una confezione da due etti costa 1€uro e 80), e io compro due libri di racconti (che non c’entrano nulla con il thé), ci sono anche magliette, camice, calzoncini, Tshirts, cappelli, felpe, cartoline, eccetera.
Il thé nero denominato fanning è composto da puro black tea in foglia, questa miscela ricca di caffeina e tannini viene apprezzata con una nuvola di latte in puro stile inglese; e l’infuso di questo particolare the contribuisce a disintossicare l’organismo e aiuta la digestione.
Oppure, ecco una ricetta per una fresca limonata al thé nero, come compare su un dépliant dello Sri Lanka Tea Board :
3 cucchiai di “thé nero di Ceylon”;
mezzo lime (oppure limone);
un litro d’acqua minerale naturale;
un cucchiaio di zucchero;
In una caraffa, versate un litro di acqua. Aggiungete le foglie di thé nero di Ceylon.
Spremete mezzo limone e unite al thé in infusione.
In un bicchiere a parte, sciogliete lo zucchero in circa 150 ml di acqua. Aggiungete il tutto nella caraffa e lasciate la cosiddetta lemonade in frigo per una notte.
Passato il tempo necessario, filtrate e servite la vostra lemonade con qualche cubetto di ghiaccio.

Riprendiamo il viaggio (siamo sui duemila metri) e scendiamo verso Nuwara Eliya, città Elìa, che è a 1893 metri sul livello del mare. Andiamo a depositare i bagagli al “Glenfall Reach”, in fondo a uno stradello laterale, carino, pulito, con tanto legno e un bell’arredamento (da montagna…), e subito usciamo a pranzo. Andiamo vicino al lago, dove ci sono diversi cavalli liberi e non, e andiamo in una sorta di pizzeria con forno e griglie e piastre per cucinare alla brace. Un posto simpatico. Prendo una pizza con l’ananas, e gli altri delle pizze vegetariane, che non sono poi neanche così malaccio… come potevamo aspettarci.
Poi uscendo vediamo che c’è un ippodromo, ci sono campi da golf, cottages in stile inglese, e appunto cavalli, ponies, ville all’inglese e un giardino botanico. Gironzoliamo nel quartiere del mercato e dei negozi. Ci sono molti tipi montanari, bassi o molto bassi, piccoli mingherlini, con la pelle marrone. Ci sono turisti asiatici: malesi, giapponesi, cinesi, indiani, thai, ecc. L’area commerciale è sporca, ma anche perché piove, c’è melma, pozzanghere, siamo dentro ad una nuvola bassa stagnante. Anche qui compriamo magliette Lacoste, Polo, Ralph Lauren, Tommy Hillfinger, eccetera a 8€uro.
Bello, perché colorato e vivace, è come sempre in questi paesi il mercato degli alimentari e della frutta e verdura.
Kennedy ci dice che sua mamma vendeva pesce secco ai dettaglianti, quindi era abituata a portare pesi a braccia o sulla testa, ma oramai diceva che si stancava, e ora ha smesso di lavorare (ha 65 anni).
A proposito dei discorsi che si facevano questa mattina sui matrimoni, K. ci racconta la leggenda tratta dal grande testo epico Ramayana, in cui si direbbe che Ravana, principe di Lanka, si innamora di Sita, e la rapisce portandola a SriLanka andando in volo su un pavone enorme (insomma arriva a SriLanka in aereo…), dove la nasconde in una grotta tra Ella e N.Eliya, ma poi li trovano e i due fuggono vicino alla cascata di Ella. I genitori di lei non lo volevano in quanto lui aveva la faccia da scimmia (o almeno lo si vedeva così…). Ma vista la decisione dei due giovani non li inseguono più e loro vissero felici e contenti.
Nell’hinduismo Sita (che forse è l’incarnazione di Lakshmi) è la sposa di Rama, l’eroe protagonista del Ramayana, il quale è il settimo Avatar del Dio Vishnu. La giovane sposina viene rapita da Ravana, ma dopo vari tentativi e dunque dopo non poco tempo che i due erano soli nel nascondiglio, è ripresa dal marito, che non dubita della sua fedeltà, cosa che a molti lettori sembra invece improbabile (vedi per es.: http://it.wikipedia.org/wiki/Sita). Stranissima versione dunque questa di Kennedy, di un episodio che ha effettivamente varie versioni, e ancor più interpretazioni, ma che è piuttosto diverso da quella storia, che tuttavia, se K. ce la racconta così (e oltretutto a riprova che se c’è innamoramento i genitori e le autorità possono far ben poco per impedirlo), è perché è così che è stata raccontata a lui, e cioè è così forse che la si racconta in Sri Lanka.
Privilegi di una tradizione dell’oralità, che non è imbrigliabile in un canone immutabile e sacralizzato.

giovedì 14:  Nuwara Eliya, Ella, Tissamaharama, Kirinda e Yala
Dopo il breakfast ripartiamo. Siamo a metà della nostra visita di tre settimane a Sri Lanka, sembra di essere via da mesi… comunque sin’ora abbiamo praticamente quasi cambiato camera (e letto) ogni notte, senza neanche mai disfare la valigia, mentre da ora in poi ci fermeremo un po’ di più, e poi l’ultima sett. la passeremo al mare per relax.
Secondo il programma che avevamo fatto prima di partire e che poi abbiamo modificato, oggi avremmo dovuto andare a Mahiyanganaya, e più precisamente a 16 km a est, a Dabana, dove vivono gli ultimi discendenti della popolazione originaria nativa dell’isola di Ceylon, cioè quelli della tribù dei Wanniya Laeto, che significa forest people, e che i singalesi e poi gli inglesi chiamarono col nome di Veddhas. Coltivano una religione basata su culti spiritisti, e ancora fanno uso di strumenti molto semplici. Comunque ora non praticano più solo la caccia e raccolta per sopravvivere, ma coltivano i campi e degli orti, e ultimamente si esibiscono per i turisti. Ma molti oramai sono emigrati e si sono integrati nella società singalese. Dunque avremmo dormito a Dabana nella Nest guest house. Ma quando è tornata la ns amica a fine gennaio ci ha detto che non ne vale la pena, non c’è nulla di interesse “folklorico”, si va solo a vedere dei poveretti, e non c’è nulla di particolare… Chissà…
Poi il giorno dopo era prevista, essendo nei dintorni, a 26 km, una visita alla diga Radenigala Dam. Si tratta di un progetto di creazione di un grandissimo nuovo reservoir, lago artificiale, per immagazzinare una gran quantità di acqua dolce, e anche costruire una centrale idroelettrica che sarà la maggiore dell’isola. E dunque quella notte avremmo dormito all’albergo Ella Sky Green.
Dico queste cose non fatte, perché magari possono interessare ad un lettore, e costituire una indicazione utile per una valida alternativa in un giro come questo.
Ancora in montagna vediamo un caseificio, una fabbrica di formaggi, yogurt, curd, e sterilizzazione e imbottigliamento del latte, ecc. Non avevo pensato che in un paese equatoriale asiatico ci fossero queste produzioni, e in effetti di formaggi sin’ora non ne avevamo visti molti, a parte i triangolini di formaggini che si trovano in certi buffet per il breakfast.
Poi K. ci indica i passion fruits di montagna, che sembrano dei manghi, sono color verdastro, e che sono una specialità della zona di N.Eliya. In generale qui ci sono molte coltivazioni ad es. di patate rosse che sono anch’esse una specialità della regione e sono considerate di qualità superiore alle altre. Ci sono diverse ricette di Sri Lanka con patate, patate rosse, e patate dolci. Certi ora abbandonano le coltivazioni di thé per passare a coltivare verdure. Già accadde in passato che coltivazioni che sembravano molto redditizie o promettenti vennero invece abbandonate, o trasformate. Ad esempio tende a diminuire l’area coltivata a cacao, a vantaggio della estrazione della gomma. Oppure si pensi che all’inizio della colonizzazione Ceylon era divenuta famosa per le sue piantagioni di caffé, che poi a causa della concorrenza dell’isola di Giava, furono abbandonate e infine delle specifiche malattie distrussero le vecchie piantagioni. Anche le piantagioni di tabacco non sono più state interessanti.  Oppure si pensi alle risaie, che oggi sono diminuite, tanto che non rispondono alla richiesta del fabbisogno interno, per cui oggi SriLanka importa riso per fini alimentari. A questo proposito c’è da dire che, come già K. ci aveva accennato, durante la guerra civile nel nord e nel nordest molte risaie vennero abbandonate dai coltivatori che si rifugiarono in luoghi più protetti, o comunque altrove. Insomma anche l’agricoltura non resta ferma ma le cose cambiano, e anche molto, nel corso del tempo, per cui si modificano anche le attività lavorative e le condizioni di vita.
Parlando poi con K. a proposito del posteggio in cui si era fermato ad aspettarci fuori dai giardini botanici, ci racconta che durante la guerra civile i separatisti rubavano le auto parcheggiate, per es. proprio là, e poi le portavano nella zona ribelle. Dopo la fine del conflitto, ne sono state ritrovate centinaia, e moltissime venivano smontate per rivendere i pezzi di ricambio, e finanziare la secessione.
A questo proposito quando andammo a Anuradhapura passammo abbastanza vicino al grande parco naturale di  Wilpattu nel nordovest. Kennedy racconta che durante il conflitto, quel vasto territorio vergine si trovò ad essere in mezzo tra la zona gestita dai ribelli separatisti, e quella sotto controllo governativo. E quindi restò per diversi anni abbandonato, non c’erano più guardie forestali, né nulla. Gli animali erano del tutto abbandonati a se stessi e anche il territorio si inselvatichì, fu invaso da erbacce, rampicanti, vegetazione invasiva… e divenne giungla selvaggia. A questo proposito uscì un romanzo d’avventure che ebbe molto successo, in cui si raccontavano varie storie che erano ispirate a vari fatti reali, soprattutto riguardo alle attività illegali che si svilupparono in questa no-men zone, di contrabbando e di spionaggio. In particolare c’era un personaggio che diventò una specie di eroe di quegli anni. Da questo romanzo dello scrittore srilankese Nihal Desilva, si fece un film dopo che le “Tigri Tamil” furono sconfitte e i suoi membri più attivi erano fuggiti per nave, ottenendo asilo politico in Canada, e il leader carismatico fu ucciso in una imboscata. Quindi nel 2008 uscì il film “The Road from Elephant Pass” sui passaggi attraverso quel percorso selvaggio, chiamato in singalese Alimankada, che con la sua colonna musicale e in particolare la canzone “Alimankada”, divenne famosissimo e di enorme successo. In sostanza era una spy story con dentro una storia di amore, e in un contesto da film d’avventure. Fu realizzato dal maggiore regista di Srilanka che è Chadran Rutnam, con due attori coprotagonisti che da allora sono stati delle grandi star popolari. Tutti avevano in casa un manifesto con lui e lei, e tutti per molto tempo cantarono quella canzone. Abbastanza equanime su come mostrava le due parti in conflitto, è stato apprezzato anche dal pubblico tamil locale. Anche se ovviamente non basta un film d’amore per cancellare ferite lasciate nel cuore di tutti dopo tanti anni di guerra. Questo film comunque è stato importante per chiudere con un periodo storico, e per lanciare un messaggio di riconciliazione, ha svolto dunque anche un ruolo di tipo formativo per il grande pubblico delle due parti (è stato anche doppiato in tamil e proiettato in India nel Tamil Nadu).
In breve racconta la storia di una bellissima giovane, spia e informatrice delle Tigri Tamil, e di un ufficiale (altrettanto prestante e affascinante) del servizio segreto che la deve portare a Colombo perché dica quello che sa sui movimenti del capo delle TT, e del loro viaggio che è stato anche un percorso accidentato dall’ostilità all’amicizia e infine all’innamoramento (vedi la trama su internet).
Intanto qui sulle strade ci sono varie frane, smotta la terra che diventa fango, e cadono sassoni (fortunatamente prima del nostro passaggio). In effetti in varie occasioni K. ci aveva fatto notare che da queste parti in certe giornate di gran pioggia questi fiumiciattoli si riempiono di tanta acqua che il livello si alza molto e sommerge la strada.
A parte ciò, e la pioggia, è un bellissimo paesaggio collinare con coltivazioni, boschi, paesini, casupole sparse. Fanno anche la raccolta delle canne dai canneti spontanei, e coltivano grandi campi per ortaggi, come fagioli e pomodori. C’è anche una varietà locale di melanzane piccole e rotonde.
Si pratica la rotazione annuale delle coltivazioni, una volta pomodori, un’altra fagioli.
Vediamo anche un bellissimo alberone e gli chiediamo cosa sia, K. ci dice che è il Tulpe, o tulipano africano, che fa centinaia di stupendi fiori rossi. Nella zona delle risaie di Bandarawela e del distretto di Badulla, vivono ancora diversi britannici, perché qui fa meno freschino che nelle altre zone montuose, e il clima è sempre mite, mai freddo mai troppo caldo.
Guidando K. canticchia, ed è una canzone sulle bellezze dello SriLanka tra cui ad es. si celebra la vita a Bandarawela. E dice qualcosa come: Yanua rata vate, vevay Baga bai… e anche dice: è bella SriLanka, ama il paesaggio, il tempio, e la vista… Anche le canzoni hanno un importante effetto di tipo formativo.
Ma non so se ho scritto giusto, anzi è probabile di no. K. dice che è impossibile trasferire la lingua sinhala nelle 22 lettere del nostro alfabeto, la scrittura sinhala è di 52 lettere, e ci sono suoni che sembrano simili ma fanno la differenza nel significato. In certi casi si tratta di parole riprese da lingue occidentali e storpiate, come wature per acqua, water, ad es. in pirisindu wature, acqua potabile. Ma molte altre volte invece è l’inglese che ha mal inteso e ha traslitterato nel nostro alfabeto in modo sbagliato. Comunque è orgoglioso del fatto che il singalese ha un suo proprio alfabeto, e questo è significativo del fatto che evidentemente è una civiltà specifica originale, che sin da tempi remoti ha elaborato da sé un proprio tipo di scrittura per la comunicazione.
E vai, e vai… con mille curve in discesa, tra villaggi, borghi e cittadine. Ci sono anche mucche. Si sta diffondendo il biogas per uso domestico. Viene prodotto dal letame delle mucche.
Attraversiamo Ella che è molto turisticizzata, soprattutto giovani in guesthouses, ci sono anche molti che vengono qui per fare trekking e altre attività tipo rafting. Ci sono davvero moltissime piccole guesthouses anche molto carine. C’è pure molto turismo locale, il periodo più frequentato dai singalesi è tra il 14 e il 17 aprile, quando ci sono le feste del loro capodanno e anche le ferie scolastiche; e inoltre in quel periodo il tempo è in generale migliore.
C’è pure un tempio che a sinistra è un tempio buddista, e a destra è hindu, quindi ci vengono un po’ tutti. Molti chiamano Ella col nome di Ramana Ella, cioè di Rama, a causa delle vicine cascate e della grotta di cui accennavo prima. Proprio da sotto alla cascata inizierà un acquedotto, secondo un progetto di cui ha incominciato già l’esecuzione l’Iran, che porterà acqua ai coltivatori più lontani, ma anche per dare la possibilità di esportare acqua, proseguendo l’acquedotto sino ad un porto, dove l’Iran potrà venire a riempire una grande nave da carico al giorno (lo SriLanka non partecipa all’embargo internazionale nei confronti dell’Iran). Anche il Qatar compera terra, cioè buon humus, terra adatta alle coltivazioni, per portarla là da loro.
Non se ne può più… Facciamo finalmente una sosta. Vicino a Ella, a mille metri sul liv. del mare, nella grande proprietà “Kinnelan Estate and Tea Factory” (nel programma di viaggi iniziale avremmo dovuto fermarci al Pedro Tea Factory). Ci sediamo nel bel giardino con terrazzo-vista sul panorama. Ci offrono del thé locale.
Fuori dalla porta ci sono dei venditori che propongono dei cristalli e pietre rosa e azzurre un po’ trasparenti (tipo alabastro), prese dalle grotte.
Dal terrazzo si vede bene la ferrovia che passa, e vediamo scorrere il famoso treno rosso, costruito al tempo della colonia.
Qui siamo vicini ad Adam’s Peak. E’ un picco, una vetta (2250 mt), che si chiama Samandala kanda, cioè montagna delle farfalle, a Sri Lanka ce ne sono di 427 specie, e si dice che qui tante farfalle volino (le farfalle molto raramente vivono a più di 150 metri di altitudine slm in questi climi) e vengano fin qui a morire per rendere omaggio alla impronta del Buddha (vedi la leggenda nella raccolta di Parker, citata nella bibliografia alla fine del diario).
Questa cima dunque qui è più nota come Sri Pada, o Padaya, che i colonialisti europei hanno invece intitolato ad Adamo. Circolano varie leggende a proposito di questo monte. Siccome si diceva che l’isola fosse un vero giardino dell’Eden, allora qualcuno favoleggiò che Adamo ed Eva cacciati dal paradiso si rifugiassero qui su questo monte, e ci sarebbe anche un segno nella roccia che sembra un po’ una impronta fossilizzata, e si disse che era quella del primo uomo appena sceso qui sulla Terra. In realtà è attestato che a Ceylon fiorissero culture umane da 15 mila anni fa, e allora certi dicono che qui è stata la culla della civiltà che poi si sarebbe irradiata a nord verso l’India, ad est verso l’estremo oriente e a ovest verso il golfo persico, la mesopotamia e il mediterraneo.
Perciò questa montagna è stata obbiettivo di pellegrinaggi, sia da parte di cristiani e musulmani, ma anche di hinduisti, date le leggende già accennate su Rama, e di buddisti, poiché si dice che è da questa cima che l’anima di Buddha spiccò il salto nell’aldilà, e quella è la sacra impronta, appunto Sri Pada. Fattostà che ci sono molti che vengono qui a fare scalate, trekking, o semplicemente passeggiate, nel periodo appunto di capodanno, oppure ascensioni di pellegrinaggio per raggiungere il tempietto che c’è in cima. Bisogna fare qualcosa come 5600 gradini per arrivarci.
Ma Huan, l’aiutante di Zheng He, scrisse: “C’è una grande montagna che fora alta le nuvole. Sulla cima vi è una singola impronta di piede umano, e la gente dice che è di un sant’uomo di nome A-dan, antenato della umanità” (dal libro sopra citato, a p.307).
Nei dintorni ci sono cime un po’ più alte, una di 2524 e un’altra di 2395 metri slm. Secondo i geologi l’isola, assieme al Deccan, la parte peninsulare del subcontinente indiano, è un pezzo del primigenio agglomerato di terre emerse chiamato Gondwana che poi si andò frammentando e suddividendo, e le piattaforme centrifughe, agglomerandosi, formarono gli attuali continenti, quindi questa terra è una tra le più antiche superfici del pianeta.
Finalmente riposati, proseguiamo il nostro viaggio in discesa, dopo Bandarawela, attraversiamo Haputale, anche qui ci sono varie guest houses.
Attraversando un paesaggio con una vegetazione, più che rigogliosa, direi lussureggiante, ci fermiamo a fare visita in una casa di una famiglia di campagna che ha un po’ di terra. Viene fuori la giovane signora, che ha 30 anni, con il suo bimbo di 4aa., poi in casa ce n’è un altro, che è della sorella, che sta qui col marito, e c’è pure la nonna, quindi in totale sono in 7 in questa casetta. Hanno un orto con peperoncino e melanzane, ma soprattutto hanno varie piante della gomma, rubber trees, e loro la estraggono e la vendono a una fabbrica che fa pneumatici per i grandi camion. Questo era il terreno del nonno che ora è morto. Il marito fa il militare ed è quasi sempre via. Quindi a gestire il tutto ci sono lei, sua sorella e la nonna. Ora le piante fanno poco lattice e quindi è un periodo “di magra”. Questa zona di agricoltori e ortocoltori, è detta wella waya, cioè “secco paese”. Per mesi è secco, è una dry zone. Ma hanno anche dei bufali, che si dicono mee, e quindi hanno il latte di bufala con cui fanno lo yogurt curd, o come loro dicono mee kiri (da cui l’inglese curd). Ci fa vedere come si raccoglie il lattice dall’albero, facendo un intaglio in un certo modo a cominciare da una certa altezza da terra, e gli si mette sotto mezza coconut shell, mezzo guscio di noce di cocco, per raccogliere il latex. Poi il materiale lo si stende, come con la sfoglia di pasta, ottenendo un “foglio”, uno straccetto di forma rettangolare che si vende alle fabbriche o agli esportatori, e che verrà fatto asciugare e lavorato con tecniche particolari. Intanto scherzo e gioco col bambino, a cui poi facciamo dei regalini (semplici pupazzetti di gomma, appunto), di cui lui è entusiasta.
A metà dell’Ottocento la rivoluzione industriale produsse una richiesta di gomma ampiamente eccedente quel che le foreste brasiliane utilizzabili potevano offrire. L’albero della gomma infatti (hevea brasiliensis), scoperto da poco in Amazzonia, esisteva solo in Brasile. L’Inghilterra pensò di introdurlo nei territori equatoriali delle sue colonie, per cui il botanico Sir A.Wickam riuscì ad avere dei semi che spedì a Londra, ma fu inutile dato che i semi morirono durante il viaggio, in quanto sono vitali solo per 21 giorni. Nel maggio del 1876 ne reperì una grande quantità e si procurò la nave da carico più veloce che ci fosse, e su 70 mila che inviò, riuscirono a sopravviverne 2600. Si studiò come farli sviluppare durante un viaggio, e tra quelli, 1700 rimasero in vita sino al loro arrivo al porto di Colombo. E’ dunque da quelli che germogliarono nei due vivai ai giardini botanici di Peradeniya, che derivano tutti gli alberi della gomma oggi esistenti in molti paesi equatoriali fuori dal Brasile, cioè a Ceylon, in Malesia, Sumatra, Borneo e nel nord dell’Australia. L’albero della gomma incomincia a produrre lattice a 5 anni di vita e lo continua a produrre per altri 27 anni, dopo di ché può servire come legna da ardere. Ora a Sri Lanka è molto diffuso e ha dato sostentamento a molte famiglie come quella che abbiamo visitato. Senza una grande produzione di gomma la nostra società industriale non esisterebbe così come ora la conosciamo (dati ripresi dalla recensione al libro di Chandra Jayasinghe, “100 tears of rubber in SriLanka”, uscita sulla rivista “Serendib” in febbraio 2013, pp. 36-40).
Usciti dal “villaggio” di Wellawaya giriamo a destra e prendiamo la A2 che è quella che scende verso il mare, e poi costeggia tutto il lato sud ovest fino a Colombo. E’ nuova e molto liscia e scorrevole, con le “spalle” cioè le parti di terra battuta ai lati per le soste.
Tutti gli autobus sono della Tata, mentre altri bus e camion e camioncini sono Toyota, oppure della Leyland ma assemblati in India dalla Lanka Ashok, o Nissan, Suzuki, e Maruti, o Isuzu giapponesi. Tutti i micro camioncini o van, sono cinesi, oppure della Mazda assemblati in India, o Mitsubishi. I tre ruote, ovvero tuktuk, sono degli Ape della Piaggio, e fanno da taxi popolari in città ma anche tra i paesi in campagna, e sono diesel. Ma ora ci sono sempre più 3wheelers e van dell’indiana Bajaj a benzina verde, e alcune altre marche indiane ad es. Mahindra che fa pick-up e jeep. Poi ci sono moltissime moto, e innumerevoli motorini e scooter. Infine ci sono delle nuove Tata che sono a 2 posti, tipo le Smart. Comunque nulla è prodotto o assemblato qui, è tutto di importazione.
Osservazioni sparse su quel che si vede lungo la strada.
Intanto è evidente che il presidente ha dato un grande impulso alla costruzione di infrastrutture e di opere pubbliche. In particolare nuove strade e autostrade, ma anche un nuovo grande aeroporto nel sud e uno nel nord, e vari piccoli aeroporti domestici per i voli interni, un nuovo grande porto marittimo, tutti lavori che vengono eseguiti dai cinesi. Quanto allo sviluppo dei voli interni, lo slogan è: “paradise is best viewed from the heavens”, il paradiso lo si vede meglio dai cieli.
Vediamo i ragazzini di una scuola, tutti fuori all’aperto messi in cerchio con le maestre in centro, sotto a dei grandi banyans, oppure in aule aperte sotto a tettoie.
Ci sono tanti alberi di tek e di mogano. Templi e tempietti e “cappellette” su strade e sentieri; vige l’idolatria delle statue e immagini di Buddha. Mi viene in mente che nei templi, o anche rispetto a statue all’aperto, non devi mai dare le spalle (cioè volgere il tuo back side, il sedere) all’immagine di Buddha, al massimo puoi dare il fianco, stando di lato a 45°. Ci sono baracchini, bancarelle, casupole e capanne che svolgono la funzione di negozi lungo le strade. Attraversiamo lentamente Tanamalwila, all’incrocio della strada per Uda Walawe, perché c’è il settimanale mercato diurno (day market).
Poi costeggiamo un grande reservoir d’acqua, grande come un lago artificiale. Anche qui praticano la rotazione tra riso, e lenticchie rosse.
Dopo Pannegamuwa e Debarawewa, eccoci finalmente a Tissamaharama, il cui nome si riferisce ad un grande (maha) stupa (rama) dedicato alla memoria del grande re del passato Tissa. Ci sono moltissimi 3wheelers taxi che vanno a prendere le bambine e i bambini a scuola e le/li riportano a casa. Secondo il primo programma avremmo dovuto fermarci qua allo Hibiscus Garden, invece proseguiamo perché abbiamo optato per andare in una guesthouse sulla costa. Passiamo accanto allo stupa, poi a un Bird Sanctuary, cioè ad una riserva protetta, quindi a un reservoir d’acqua, e a un monolite, e poi infine giungiamo a Kirinda, sul mare!
Prendiamo una strada sterrata, la Nidangalawella Road, e andiamo al “Kirinda Beach”, una guest house sulla spiaggia, tutta formata da bungalows di legno sparsi. E’ molto bello! Mettiamo giù i bagagli, noi e i nostri amici condividiamo un bungalow diviso in due.
Dopo un giretto di ricognizione in cui andiamo alla piscinetta sopraelevata da cui si vede tutto il gran spiaggione costellato di grandi massi, un panorama molto bello, e lì ci portano un succo di frutta appena spremuto come benvenuto.
Quelli della ricezione ci accolgono in modo caloroso e simpatico, degno dell’epiteto della g.h. che è “eco-friendly”. Andiamo subito a pranzo (6€) in una grande terrazza nella struttura di legno sulla spiaggia. K. al solito deve andare a mangiare con altri autisti, ma almeno fa delle chiacchiere con colleghi e amici che conosce. Loro sempre mangiano tutto solo con le mani.
Che meraviglia! La località, la guest house, il bungalow, il golfo, la spiaggia, il mare, tutto ci piace veramente molto, in più c’è una sorta di atmosfera umana che mi ricorda un po’ gli anni settanta. (cfr. www.kirindabeachresort.com)
Un minimo di relax e poi ci viene a prendere un alto jeeppone attrezzato, e andiamo subito verso il “vicino” Yala National Park. La strada sterrata è lunga e ci vuole un po’ ad arrivare all’ingresso del grande parco (detto anche Ruhuna). Nel frattempo ci guardiamo attorno e intanto già vediamo tanti uccelli, e mandrie di bufali. Questo è il secondo più grande parco naturale dell’isola, di 800 kmq.
Kennedy mentre ci avviciniamo ci racconta che anche qui a fine 2004 c’è stato lo tsunami, che ha completamente distrutto un residence e un rifugio che c’erano nel parco, ci sono stati dei morti, ma l’ondata è andata dentro solo di un kilometro. Comunque nessun animale ha avuto danni, erano già scappati all’interno…
Solo che poi è rimasto un grande acquitrino paludoso ma di acqua salata, il che ha rovinato la vegetazione in tutto quel pezzo di parco.
Vediamo durante il giro, tantissimi uccelli, bufali, marabù, iguane, elefanti, scimmie (poche), coccodrilli, cervi e cerbiatti, volpi, pavoni, galli, cinghiali, eccetera eccetera, e infine un leopardo che dorme appollaiato su un grosso ramo di un grande albero.
Vegetazione esuberante, e paesaggi stupendi.
Torniamo che siamo stanchi degli sballonzolii, ed è già l’imbrunire avanzato. Arriviamo col buio, ceniamo al buffet sulla terrazza arieggiata. Poi ce ne restiamo su delle poltrone di vimini in un gazebo a prendere l’arietta marina, ad ascoltare il rumore dello sciabordio delle onde che si infrangono sulla spiaggia e sui massi. C’è una bellissima stellata, e la luna è una sottile falcetta crescente brillante, luminosissima.

15 febbraio, da Kirinda a Tangalle
Al breakfast prendo il pittu che è fatto con della farina di mais e cocco grattugiato, sale, acqua calda, e poi lo si schiaccia dentro la cavità di un bamboo, viene pucciata nel latte di cocco e si cuoce al vapore per un quarto d’ora; per dire quanto è buono, anziché pittu, dicono picktoo-bamboo, cioè un qualcosa al bamboo che sei tentato di prenderne un sacco (o troppo).

Poi prendo quegli hopper che sembrano un po’ come i brick-à-l’oeuf tunisini, e sono molto buoni. Patate lesse saltate con qualche aroma. Un breakfast dunque solo con cose salate? Mi consigliano di bere del liquido di cocco, e un jack-fruit, il quale quando è piccolo e acerbo è considerato e utilizzato come verdura, mentre quando è cresciuto ed è maturo, è frutta.
Chiediamo due spremute d’arancia e due frullati di frutta fresca, ma poi ci viene il dubbio che siano allungati con acqua e li lasciamo sul tavolo (anche il bricco col latte mi pare latte annacquato).
Andiamo per un’ultima volta sulla spiaggia per salire su uno dei grandi massi che ci sono in riva.
Partiamo con calma tanto questa volta il percorso non è né impegnativo né lungo.
Anche a Kirinda ci fu lo tsunami, si è salvato solo il tempio buddista arroccato su una roccia. Fu là che secondo le leggende un antico re sperando di calmare l’oceano infuriato, giunse a sacrificare la propria figlia gettandola in acqua, ma la leggenda dice che la principessa si salvò e tornò a Kirinda su una imbarcazione con tanti tesori.
Passiamo di fianco ad una vasta riserva d’acqua dolce, o lago artificiale, con una isoletta in mezzo, quattro mesi fa ci furono diversi annegati perché forse erano ubriachi e andarono con una barchetta all’isola. Bisogna fare il bagno solo vicino a riva, e mai quando fa buio.
Ci sono anche degli tsigani indiani di pelle scura, che leggono la mano, consigliano pozioni, mandano il “malocchio”, fanno gli incantatori di serpenti, e fanno fare spettacolini di danze alle piccole scimmie.
Da queste parti ci sono moltissimi rain trees. K. si ferma per comperare del riso per sua moglie e per sua mamma. E’ un bellissimo negozio moderno, pulitissimo, molto ben fornito, con tante varietà di risi. Ce ne sono da 50 rupie al kilo, e fino a 170 Rs p.kilo. Il padrone del negozio compra direttamente dai raccoglitori il riso da mondare a 28 rupie per kilo. C’è anche del riso rosso che è quello che si mangia alla prima colazione perché è senza zuccheri, poi c’è quello lungo, quello selvatico, quello sferico… Kennedy ne prende 30 kili! Glieli insaccano in sacchi di juta celofanati, che chiudono cucendo un filo sul momento con una macchinetta manuale da cuciture. Il governo viene incontro anche con molti aiuti ai piccoli risicoltori, per esempio per i fertilizzanti, e per i disinfestanti, che però sono veleni e dunque pericolosi, da dare con cautela e seguendo scrupolosamente le indicazioni, ma i lavoratori hanno poca consapevolezza della importanza di certe regole.
Molti poveri delle campagne, se sono in crisi con il lavoro, fanno i militari, mentre quelli di città si arruolano molto poco (il servizio non è più obbligatorio, non c’è più la leva per tutti).
Qui ci sono molte bancarelle di cose di rafia e paglia ammorbidita al vapore sopra dei pentoloni.
Come ovunque, ci sono tantissimi cani, randagi e non, mentre sono rarissimi i gatti. K. ha un cane a casa sua.
Passiamo a fianco al parco ornitologico del Bundala Bird Sanctuary, con una laguna d’acqua di mare. Andiamo a Hambantota che è su una insenatura che sembra un porto naturale, da lì a Ambalantota sulla foce del grande fiume Walawe Ganga, dove c’è anche una grande salina. Si “vede” il dopo-tsunami: c’è la strada nuova, nuove casette, nuovi negozi anche in centro, e poi c’è un monumento che lo ricorda. Moltissimo di tutto ciò è stato fatto con aiuti internazionali. Ora è in costruzione un’autostrada costiera per collegare il grande nuovo porto mercantile e il nuovo aeroporto del Sud con Colombo. Fino a poco fa in questa parte interna c’era solo foresta, ora tutto è cambiato. Grandi cantieri, grandi pale eoliche. E’ tutto costruito dai cinesi. Il porto potrà accogliere anche grandi petroliere nella rotta tra l’area arabica e quella malese. sono in costruzione pure uno stadio e un palazzo dei congressi. Anche la manodopera è cinese, hanno delle casettine apposta vicine ai cantieri. Il motivo è anche di cercare di decentrare molte attività alleggerendo Colombo. Tutto ciò evidentemente comporta grandi concentrazioni di capitali internazionali, e attira molto indotto e dunque altri investimenti, ma per il momento viene stravolto il territorio. Attraversiamo la bella zona di Kalametiya, un villaggio di pescatori che anche qui chiude una grande insenatura naturale, o lagoon, con foreste di mangrovie con una gran varietà di uccelli.
Ci sono nuove grandi risaie per l’ibridazione, che sono suddivise per categorie. Si sperimentano anche incroci genetici complessi. Dal finestrino vedo un bar di arak di cocco, che è una specie di rhum o di whisky. Gli abiti femminili sono o dei saree, o degli abiti moderni.

Qui passa il  fiume blu (Nil wala Ganga), è grande, ci sono tanti coccodrilli, ci sono punti cintati per poter fare il bagno o lavare i panni o le stoviglie, eppure certi vanno fuori dai recinti e a volte accadono gravi inconvenienti. Vediamo piantagioni di banane con i caschi coperti da sacchetti per proteggerli dagli uccelli. Le erbe lacustri o di fiume vengono intrecciate per farne delle borse. C’è anche tanto cotone, con le piantine alte, con cui si riempiono i cuscini.

In Sri Lanka sono rarissime le mele, ma cresce una “mela” chiamata divul, che è un po’ legnosa, da cui si fa un succo, il divul-kiri (o divulquiri) drink, tradotto anche come wood apple cream, che si mischia con acqua fredda, zucchero o jaggery (un succo dolce color bruno che si ottiene con la evaporazione della linfa di varie palme), un pizzico di sale, latte di cocco, e poi si shackera.
Ci sono anche la cashew apple, e il mangosteen, che pure sono frutti tipici dello SriLanka.
A Ranna c’è il mercato settimanale, quasi tutto per terra su stuoie. Poi più avanti c’è tantissima gente che intasa la strada, e traffico.
Arriviamo a Tangalle (a volte scritto anche con la a finale). E’ una sede della Marina, con il suo faro nuovo. E’ un centro moderno,  ci dirigiamo al “Mawella Beach Cabanas”, in località Nakulugamuwa a circa 4 km dal centro del paese. Questa guest house fino a un paio di mesi fa si chiamava Manahara, e nel frattempo ha cambiato gestione e nome; ci staremo due notti. Bella baia larga, con un gran spiaggione, barche da pesca, e alcuni pochi piccoli ristorantini. Con lo tsunami tutto ciò che c’era qui è stato completamente distrutto, raso al suolo.
Dopo aver preso possesso del nostro bungalow, facciamo una bella passeggiata sulla spiaggia, c’è un sole molto caldo e fortissimo, qui siamo a soli 6 gradi dall’Equatore.

Ci sono molte tane di granchi, certi sono dei buconi nella sabbia veramente grandi… La spiaggia è in un golfo ampio e chiuso alle estremità. Ci sono a riva moltissimi barconi di pescatori, con il bilanciere per entrare nell’oceano. Sono strette strette, probabilmente i navigatori stanno in piedi oppure seduti sul bordo con le gambe dentro lo scafo.
Alcune barche sono grandi, con delle torrette per l’avvistamento dei pesci. Nell’acqua bassa ora c’è un pescatore che getta la rete a mano in perfetto cerchio. Molte barche hanno delle scritte o portano dell targhe: “gifted by …”, cioè regalo di tizio, oppure della fondazione tale, o della università talaltra, oppure del porto di… Si vedono ancor oggi vicino alla riva delle casette rotte o distrutte dallo tsunami del 2004, o scoperchiate, o comunque abbandonate.
Ci sono dei nuovi condomini in cui hanno messo le famiglie dei pescatori. Anche se qui la grande onda è arrivata un po’ di traverso, di striscio, ha fatto un disastro.
Sulla spiaggia bisogna guardare dove si cammina perché ci sono un bel po’ di cacche di animali di varie dimensioni, e delle impronte con unghia fessa.
Il mare con le sue onde fa un gran rumore di fondo, come un rimbombo continuo, ma è bello, di un bel colore, la giornata è splendida.
Pranziamo qui, c’è una struttura in cemento armato, al grezzo, un po’ scheletrica, e ci sono i tavoli con le tovaglie (un po’ sporche), quando beviamo preferiamo non usare i bicchieri. Ci teniamo leggeri: una zuppa di pomodoro, verdure passate in padella, curd con miele, frutta, circa 5€ a testa.
Riposiamo nel giardino che c’è tra i bungalows e la spiaggia, su sbilenchi lettini da sole di legno, ma senza mettere i materassini che stavano accatastati nella polvere sul pavimento di cemento della struttura incompiuta. Forse sono ancora cose del precedente proprietario. Tutto andrebbe un po’ rinnovato. Nel nostro bungalow una finestra non si chiude, e anche la porta del bagno, lo sciacquone non funziona, e quindi il water non si svuota. Dice che è colpa dl bambino della famiglia di australiani che c’era prima, e che aveva chiamato un idraulico che ha pulito. Ma forse sono intasati i tubi sotto il prato. Il condizionatore non va, allora il padrone dice che è sempre a causa di quel bambino, ma basta schiacciare il pulsante sessanta volte e poi va. Il collegamento in rete internet è lentissimo e intermittente. Intanto stiamo qui sdraiati a sentire l’arietta e gli uccellini, poi si vedrà.
Per il pomeriggio avevamo accettato l’invito a fare dei massaggi con un dottore ayurvedico che passa di qua dopo il suo orario di ambulatorio. Quando il doctor arriva, vado nella stanzina e gli dico che io non voglio il shirodhara per non ungermi i capelli, ma solo fare schiena ed eventualmente spalle e nuca. Al che lui esce, e va a chiamare il padrone della guest house, che viene e mi spiega che secondo l’Ayurvedha non si può fare solo una parte e trascurare il resto del corpo. Allora capisco che il dottore non sa l’inglese, e insomma accetto di fare tutto il corpo, quindi dai piedi, gambe, e braccia, eccetera. Mi piace l’omino è bravo, è meglio che a Negombo. Alla fine sono tutto unto, mi sembra di essere un Ulisse dai Feaci. E mi fa venire in mente quel che Socrate diceva di aver appreso dagli asclepiadi e da Ippocrate, di prendersi cura dell’intero e mai solo di una parte. Il massaggio ayurvedico dev’essere antichissimo. Poi ci saranno incomprensioni per il pagamento, in quanto io non ho che una banconota alta e lui non ha il resto.
Nel tardo pomeriggio vado a fare una passeggiata, incontro una tizia con cui chiacchiero un po’ e mi invita a casa sua, una casa di pescatori, ma sua figlia è una sarta, per cui vado per la curiosità di entrare in una casa. Il marito pescatore è nel cortile davanti e sta sbrogliando le reti, e è molto contento della mia visita. Il figlio maggiore sta riempiendo dei contenitori con del carburante, forse per il motore di una barca.
Va a chiamare la figlia, che però prima vuole cambiarsi, e poi viene con le sue bimbe di 6 anni e di 4. Allora arrivano anche altri nipotini con l’altra figlia, per vedermi. Mi mostrano vari capi confezionati da lei per dei negozi. Gioco con le due bambine a fare cose con le dita delle mani, e sono tutti interessatissimi e contenti. Lei chiama in inglese le ville sulla spiaggia, cabanas, o cottages. Dico che tornerò domani, anche perché sono in costume da bagno e non ho con me nulla.
Gli altri tre, Marco, Lucia e Annalisa, non stanno bene. Per cena c’è un bel pescione corallo al cartoccio sulla brace. Molto carnoso e buono. Per finire c’è una macedonia di frutta, ma con cipolle tagliate fini e cetrioli. Marco non mangia, e poi quando si alza per andare in camera, cade per terra e sviene. Insomma la notte passa con tre di noi messi piuttosto malino.sabato 16 febbraio, Tangalle
Giornata tutta dedita al riposo e alla convalescenza. E’ stato sicuramente perché al breakfast dell’altroieri devono aver aggiunto acqua del rubinetto (o acqua non sufficientemente bollita) ai succhi di frutta e al latte. Qui oramai il nostro water non elimina più nulla, figuriamoci con una nottata di vomito e diarrea.
Tra l’altro è stato scomodo stanotte avere il letto con entrambi i fianchi contro le pareti laterali perché non volevo svegliare Annalisa quando mi dovevo alzare per andare in bagno. Quindi subito stamattina dico al proprietario che devono assolutamente chiamare con urgenza un idraulico. Ma mi dicono che sanno già che non si riesce a riparare così facilmente. Così essendo partita una coppia, ci spostano in una stanza migliore, con il letto da cui si può scendere dalle due parti, il bagno migliore e funzionante, l’ A/C che funziona, il ventilatore che non fa quel rumoraccio fastidioso, la porta del bagno che si chiude… insomma una soluzione fantastica!
Essendomi alzato presto, sto a guardare come i diversi addetti sono impegnati con le loro scopettine di cocco e rafia, ma evidentemente loro non sanno bene cosa noi intendiamo per pulito e igienico, e solo badano a scopettare via le foglie e la polvere o sabbia, mentre il lavandino resta sporco, ecc.
K. mi racconta che lui da ragazzo faceva l’inserviente (lavava i piatti, i bicchieri, e altri servizi in lavanderia) e poi invece faceva dei servizi per i turisti, tipo caricare le valige ma anche servire i sandwich nei pullman, poi ha fatto il cameriere ai tavoli, e insomma così con l’esperienza ha imparato meglio a trattare con gli stranieri, e a apprendere un po’ le lingue. Poi è venuto in Italia per tre anni (2+1) a fare il cameriere in ristoranti di Napoli e di Milano, e ha assimilato con la pratica l’italiano. Poi a 18 anni ha preso subito la patente, suo padre era autista ed era morto per un incidente, e ha incominciato ad accompagnare turisti in giro. Dopo un po’ con l’esperienza sapeva gestire dei gruppi di turisti stranieri e così hanno incominciato ad affidargli gruppetti piccoli di 4, 5, o 6 persone. Ci sono ancora troppo poche guide che sappiano fare nel curare servizi personalizzati, e ben pochi sanno l’italiano. Ma secondo lui ci vuole esperienza, ma anche intelligenza, capacità di osservazione, pazienza e calma, non impuntarsi a causa di differenze di modi di fare o di mentalità, e capire espressioni, esigenze, aspettative… insomma cercare di comprendere quel che è necessario e che può essere meglio. Secondo lui non tutti sono in grado, dipende anche dal carattere ma anche dal tipo di educazione che hanno ricevuto, e dall’ambiente che hanno frequentato e conosciuto. E poi ci vuole buona memoria per aggiungere via via parole e espressioni alla propria conoscenza della lingua, per progredire sempre. Ma la cosa più difficile è imparare a saper prendere iniziative, a assumersi responsabilità, a risolvere problemi, trovare alternative e soluzioni. Non è facile, né da tutti, ma bisogna considerare che molti di loro provengono da famiglie molto modeste di genitori e parenti con poca istruzione, e che comunque non hanno mai viaggiato, e in più sono bisognosi.
Apprezzo moltissimo i suoi discorsi che denotano intelligenza, ed è stato proprio bravo. Poi con il fratello Amal hanno messo su questa piccola agenzia famigliare a conduzione domestica (ha sede in casa così c’è l’aiuto di parenti e di giovani). Insomma pian piano da quello che ci dice sta venendo fuori una storia di vita interessante, che è un percorso di formazione.
L’argomento è emerso perché qui c’è un camerierino che avrà al massimo i 14 anni di legge, è carino, sempre sorridente, è venuto sin da Kandy sulla costa a lavorare, a noi dice di averne 18 per non mettere nei problemi il suo datore di lavoro, e per timore di perdere il posto dato che a volte dei turisti hanno sporto denuncia per sfruttamento di lavoro minorile, o lo hanno scritto su TripAdvisor o su Booking, eccetera. Ma a parere di Kennedy fare il cameriere, come ha fatto lui stesso a quell’età, è ben diverso che lavorare in una fabbrica, o anche in un laboratorio artigiano. E poi a differenza p.es. di un magazzino o un negozio, in questo caso può fare carriera se è bravo, e migliorare la sua posizione, e arrivare ai 18 sapendo fare per bene le cose, e conoscendo il settore e gli ambienti lavorativi connessi. E poi si può prendere delle piccole mance e arrotondare. Se non altro lavorando, facendo un mestiere adatto alla sua età, non finisce in brutti giri, in cui invece certi ragazzi cadono non avendo nulla da fare tutto il giorno e passando la vita in strada (imbroglioni, ladri, scontri tra bande rivali, o trovarsi nel giro della droga, o dell’azzardo, o della prostituzione, eccetera). Qui sono molti quelli che sono riusciti a sistemarsi bene e in modo onesto, e se lo sono veramente conquistato da sé con intelligenza e spirito di iniziativa.
Poi chiacchieriamo un po’ del grande afflusso di turisti che c’è sulla costa, a differenza dell’interno dove si trovano quasi solo gruppi di passaggio in gita. Mi racconta che qui sulla costa sud, e sud-ovest, ci sono persino donne, e uomini, della mia età, che affittano delle case per potere invitare in libertà persone del luogo. Scelgono i giovani, o le giovani, che a loro piacciono, come camerieri, oppure li/le ospitano in casa durante delle feste, dei party, oppure per convivere. In cambio magari certi aiutano le persone, e le loro famiglie economicamente.
A parte ciò, certi mettono su una impresa, un negozio, oppure costruiscono una casa o la acquistano, e per fare questo hanno bisogno di un cittadino srilankese che firmi come cointestatario, inoltre è obbligatorio che il rapporto di proprietà sia a metà (o forse 51\49 % a vantaggio del cittadino SL). E questo affare può essere molto importante per molte famiglie. Inoltre certi srilankesi prendono così la cittadinanza del paese estero con il matrimonio, anche se magari poi subito dopo si separano legalmente e divorziano.  Poi in certe località balneari molto turistiche  circola droga e traffici illeciti, e c’è prostituzione femminile e maschile, e omosessuale.
A volte è successo che chi prende droghe in spiaggia -soprattutto passandoci la notte all’aperto- poi si ritrova quando si risveglia, senza più nulla, gli viene rubato tutto, passaporto, documenti, biglietto aereo, soldi, carte di credito….
Ma comunque tutti questi in realtà sono casi fuori dal comune, abbastanza rari.
Ad ogni modo, questo lavoro di autista e accompagnatore che fa Kennedy, a quanto ci dice, ha il difetto che non porta delle entrate che possano essere in qualche modo stabili, come è il caso di uno stipendio fisso, dipende tutto dalla richiesta turistica che c’è. K. ad esempio ora ha da portare ancora, dopo di noi, una coppia a fine febbraio- primi di marzo, poi per un paio di mesi lui e suo fratello non hanno più altre prenotazioni.
Allora sta a casa con le due bambine e la moglie, va a fare la spesa, aggiusta delle cose, va a fare pagamenti per bollette o tasse, sbriga delle faccende,  e inoltre tiene un orto da una vicina di casa a Negombo, che è una tedesca. Ma dopo un po’ i soldi finiscono…
Problemini e incomprensioni con quelli che lavorano qui: stamattina dopo il trasloco nell’altro bungalow, Annalisa si ricorda che aveva tirato fuori dalla valigia la copia della Settimana enigmistica che aveva comprato in aeroporto alla partenza, e che l’aveva messa sotto al cuscino. Allora chiede se l’hanno trovata, ma rispondono che non c’era niente. Invece poi dopo un po’ uno di loro viene e gliela porta, l’aveva messa nella Reception, perché per due volte mi aveva chiesto se non c’era altro da portare nell’altra camera, e io avevo detto che avevo già preso tutto. Ma quando l’ha trovata, non poteva chiedere? prima di portarla sullo scaffalino della reception?
Il padrone quando arriva mi chiede come stiamo, e io gli dico che in tre stavano male di stomaco, allora mi dice che per pranzo ci fa cucinare una banana verde cotta col suo sughetto e che va mangiata col riso in bianco, e fa bene, è come un medicinale del genere herbal medicine. Gli dico che grazie, per me e magari anche per mia moglie, no, non l’avremmo mangiata, mentre per i nostri due amici non sapevo, che glielo avrei chiesto. Lui e il suo assistente dicono, va bene.
Ora siamo a tavola per il pranzo, e io e Annalisa prendiamo la vegetable soup che c’è sul buffet, mentre i nostri amici non mangiano niente, e dunque di non portare nulla per loro. Ma dopo un po’ viene fuori che avevano capito che i nostri amici non avrebbero mangiato nulla di ciò che sta sulla tavola del buffet, e che a loro stava bene la banana verde cotta col riso, e allora che adesso la stanno cucinando, di aspettare solo un pochino che arriva.
Intanto noi due finiamo la vegetable soup, e Annalisa dice che le è piaciuta, e che ne prenderebbe un’altra tazza ma del solo brodo, senza le verdure che c’erano, depositate sul fondo, e gli porge la sua tazza vuota. Allora (verremo poi dopo a sapere) cucinano apposta per lei una sola tazza di brodo di verdure. Io prendo un sandwich col pollo. Intanto Lucia assaggia un pezzettino delle banane verdi che dopo moltissimo tempo le portano, ma non le piace per niente, anche perché ci sono molte cipolle e pepe; e del riso bianco bollito e scondito ne prende appena tre cucchiai. A questo punto tutti (padrone, cuoco e camerieri) ci rimangono male, perché alla fine banane e riso avanzano in gran parte, e invece hanno dovuto cucinare di nuovo una tazza di minestra in brodo, che Annalisa dice che non le importa più ricevere (senza immaginare che l’avevano cucinata espressamente apposta per lei).
Inoltre ci viene da pensare: chissà cosa succederà questo pome col dottore dei massaggi che ci deve ancora il resto… vedremo. E’ anche interessante osservare certe incomprensioni e difficoltà nella comunicazione tra persone con usi, mentalità, e tipologie espressive differenti (al di là della diversità della lingua), che sono cose che sono parte integrante di un percorso formativo, e di una cultura.
Passiamo il tempo qui perché i convalescenti non se la sentono di andare in spiaggia e al sole. Ogni poco tempo la connessione internet cade, ma nessuno va là a riaccenderla, sino a che qualcuno degli otto bungalows non lo richiede, e magari poi si rispegne dopo due minuti. Eppure la vodafone station è là sotto il portico in bella vista con il lumino spento.
Intanto ci sono delle ondone forti in mare. Comunque quasi tutti gli abitanti della guest house rinunciano a fare il bagno in piscina, perché oltre a tante foglie e rami, c’è un ranocchio che galleggia immobile sul pelo dell’acqua e sembra proprio morto (ma non lo è).
Fino all’indipendenza era obbligatorio nelle scuole l’inglese, ma dopo è stato tolto. Quindi solo gli adulti anziani e istruiti si potevano intendere fra comunità linguistiche diverse facendo ricorso all’inglese. Anche le scritte stradali, o sui cartelli, erano in singalese nelle zone singalesi, e in tamil nelle zone tamil, e la gente non sapeva non solo parlare ma neanche leggere scritte nell’altra lingua. Ora invece sono equiparate tra loro sinhala e tamil, e l’inglese viene insegnato in tutte le scuole essendo importante per il settore commerciale e turistico. E sono obbligatori in tutta l’isola i cartelli e le indicazioni stradali o di uffici governativi tipo le poste, in tre lingue, e a scuola tutti devono imparare a conoscerle un po’.
Dunque non c’era comunicazione alcuna tra i due gruppi linguistici e fino alle generazioni di chi ora ha più di 35 anni non si capivano a vicenda. Ora con il ripristino dell’inglese come lingua comune, e di elementi dell’altra lingua, un po’ si incomincia a intendersi di più. almeno nelle generazioni giovani che hanno voglia di imparare l’inglese.
Al pomeriggio faccio il mio quarto massaggio. Mi fa capire che è un massaggio abhyanga con oli tiepidi (a proposito vedi www.onenessuniversity.it/pg005.html), e mi piace moltissimo, lui è uno serio, e ha delle dita forti. Mi rilassa veramente tutto il corpo. Mette una quantità di olio pazzesca, ma poi è vero che le mani scivolano molto bene e il massaggio dei muscoli è più fluido, scorrevole ed efficace. Alla fine per sistemare il pagamento, faremo tutto al check out con il proprietario.
Il nostro vicino è uno sloveno di Nova Gorica (nuova Gorizia-est), di nome Millan, ed è venuto a Tangalle anche altre volte. Molto gentile, si era interessato alla ns situazione di salute, e ci aveva offerto delle compresse di carbone. Oggi ci racconta che ha appena comprato casa qui vicino. Il viaggio per lui non è faticoso, semplicemente va in auto a Venezia a prendere il volo per Dubai, e poi da lì viene a Colombo, e poi in auto arriva qui (come se tutto ciò non comportasse, come per noi e per tutti, di fatto una intera giornata e nottata), comunque ci è venuto altre volte e gli è piaciuto molto. La sua casetta sarà pronta fra quattro giorni e intanto sta qui per seguire i lavori. Se voglio vederla è la seconda a destra. Allora vado in spiaggia a vedere, ed è proprio carina.
Mi intercetta la tizia, moglie del pescatore, vado a salutare, ma poi vengo subito via promettendo di tornare più tardi.
Mi sono dimenticato di dire che poco prima di arrivare qua, passando avevamo visto un bel tempio lungo la strada, tanto per ricordarci che siamo non solo al mare, ma anche a Sri Lanka. Lo dico perché qua ci sono non pochi turisti che vengono solo ed esclusivamente per stare in un residence a fare vita di mare, e forse pensano che il mondo sia più piccolo e più semplice di quanto non sia, e fanno grandi viaggi senza sapere cosa sia il viaggiare.

Domenica 17 febbraio, da Tangalle a Mirissa
Al mattino vado con i soldini a casa della tizia e compro un paio di calzoncini corti e una maglietta, molto colorati con motivi orientali, e porto un giocattolino e una bambolina per i bambini.
Poi partiamo con tutta calma, il percorso non è certo lungo. Facciamo la strada costiera, della parte più a sud dell’isola. Qui lo tsunami è arrivato forte, ci sono stati molti morti e distruzioni il 26 dicembre del ’04, siamo a 1600 km da Sumatra. C’è un monumento commemorativo a Dikwella (=long bridge), ed è stato un disastro grande per tutta questa costa fino a Bentota.
In quei giorni Kennedy era in giro ad accompagnare dei turisti olandesi, proprio due giorni prima era al parco nazionale di Yala, a dormire nell’albergo che c’era dentro al parco, e lì poi l’onda che è arrivata ha distrutto l’albergo. E’ arrivata il 26 alle 8:30 del mattino, poi è arrivata alle 9:15 a Bentota. C’è stato il famoso episodio di quelli che essendo scampati alla prima onda, sono andati a rifugiarsi nel treno che era in stazione, e così moltissimi del villaggio li hanno imitati, in 1270 sono poi morti nel treno alla seconda onda che ha fatto rotolare per tre volte locomotore e vagoni. Molti i morti anche a Paraliya, sempre su questo tratto di costa, in tutto sono stati quasi 50 mila i morti, più i feriti, i menomati, cioè quelli rimasti per sempre invalidi, e tantissimi i figli restati orfani, e le case, i negozi i capannoni, le attività lavorative perse. Ancora adesso ci sono problemi con gli orfani, le vedove, gli anziani rimasti soli, eccetera.
Ma ora ci distraiamo guardando il bel paesaggio, e vediamo che molti mandano i figli al tempio, o in chiesa i cristiani, per le lezioni di catechismo e di dottrina. Si vedono che stanno in fila o in cerchio all’aperto. Ieri il Presidente Mahinda Rajapaksa, che è originario di Tangalle, era a casa della sua famiglia. Perciò ieri e oggi c’è tanta polizia stradale. Certi famigliari suoi sono ministri, o politici, o sono in affari. Il Presidente secondo K. è bravo, perché gira molto per il Paese. Ha appena inaugurato il secondo più grande ospedale a Jaffna nel Nord. Vediamo che lungo il percorso che lui farà per rientrare a Colombo ci sono spesso scritte “Jaya Lanka”, viva Srilanka, o Srilanka vince. Passando vediamo un tempio, a Dehundara, che è hinduista e buddista (cosa inimmaginabile in India), in cui ci sono due elefanti da cerimonia. Dehundara è molto nuova. All’inizio del golfo di Màtara, da dove parte l’autostrada per Colombo, ci sono tanti militari che aspettano l’arrivo del presidente. C’è anche una università in un grande parco. Vediamo una scuola montessoriana (ma ne avevo già viste un paio altrove). Un Kid Centre, cioè una scuola materna.

Ci sono piantagioni di cocco, di cannella, cacao, alberi del pane, alberi della pioggia, e canna da zucchero. Ci sono come sempre dei bellissimi fiori e vegetazione lussureggiante.

Passiamo in rassegna un po’ di termini in singalese (sinhala) relativi alla cucina locale: lo wadde, dolce-salato; kiri-bath, riso bollito nel latte di cocco; paripoo, zuppa di lenticchie con peperoncino; vambotu, melanzane fritte con zenzero e curcuma, cannella e peperoncino; ambu-trial, tonno in latte di cocco e tamarindo; wata-lappan, budino di cocco con anacardi e cannella; e kiri-hodi, latte di cocco, zafferano, cipolla e pomodori.
Dalla strada si vedono belle spiagge, e passando nei paesini si vedono parecchi turisti, vediamo diversi ragazzi e ragazze con uno scooter affittato, con un particolare porta-surf, che vanno dove ci sono ondone. Tutta la costa da qua a Bentota è da anni molto turistica.
Passiamo il capo di Dondra che è il punto più a sud dell’isola (a soli sei paralleli dall’equatore).
Poi entriamo a Màtara (che significa città di Dio). Fu fondata dai Burghers, i coloni olandesi e poi in generale europei che si erano stabiliti qui definitivamente e avevano spostato donne singalesi, i cui discendenti hanno costituito a lungo il gruppo più attivo della economia singalese. Sorge alla foce del fiume Nilwala e conserva il bel forte olandese, palazzi coloniali e case di ogni epoca in una mescolanza di antico e modernissimo. La città di Màtara è moderna e animata. Vediamo una stazione di pullman nuova, un forte del periodo olandese, un grande ponte nuovo a 6 corsie sul Fiume Blu, il porto olandese Van Eck, mentre continua la strada a 4 corsie. Tanti adesso in città vanno alla scuola secondaria. Qua e là ci sono poster con immagini del ministro di dipartimento locale. Pochi gli uomini in sarong o lungyi. Ecco passare altre due ragazze bionde in scooter per surfisti.
Proseguiamo in direzione di Weligama. E oramai siamo arrivati alla spiaggia del golfo di Mirissa. Ci sistemiamo al simpatico e piccolo  “Summer Breeze guest house and cabanas” (cioè: brezza estiva), proprio sulla spiaggia. Posto carino. E’ di una giovanile quarantenne di Innsbruck, Sandra, che ha due rotweiler, e del suo marito srilankese. Ci guardiamo attorno e il posto ci piace molto. Costa 24€ al giorno la camera doppia con bagno, e breakfast.
(http://lanka-houses.com/guesthouses/mirissa/summer-breeze-tourist-guest-house.html)
Qui Kennedy ci lascia, come avevamo concordato, e ci salutiamo, lui torna a casa con l’auto.
Per avere i lettini sulla spiaggia, e per mangiare bisogna andare al loro altro guesthouse and restaurant “Wadiya”. Appena sistemati i bagagli, andiamo subito a farci una piacevole camminata in spiaggia e a raggiungere questo Wadiya. Ed eccoci ora qui sdraiati a prendere il sole su un lettino del bar (incluso per i clienti), a guardare le onde e i surfisti che le cavalcano. E qui al ristorantino-bar abbiamo il 10% di sconto.

Andiamo un po’ in giro per lo spiaggione, e visitiamo il “Paradise Beach”, che era stato previsto nel primo programma di viaggio, e poi invece era risultato che non c’erano più disponibilità (se arriva un gruppo o due che gli riempie tutte le stanze, non guardano più alla data di prenotazione), tanto meglio, avevamo comunque già cambiato idea e siccome Amal aveva occasione di venire qui domenica scorsa, ha trovato il Summer Breeze, che è più a buon prezzo, e molto preferibile per i nostri gusti, dato che questo Paradise è proprio un hotel.
Annalisa e Lucia si fermano a un negozietto di gemme che è molto più economico di quello di Dambulla. Lo Sri Lanka è ricco di pietre preziose, e in particolare sono tipici dell’isola i moonstones, le pietre-di-luna, che si estraggono da profonde miniere qui nel sud, a Meetiyagoda dove, a detta dei locali, c’è l’unica e sola miniera di pietre-di-luna naturali. I pozzi vanno giù dritti a 25 metri dalla superficie, e i filoni sono anche a 50 metri. Sono gemme che non si tagliano e sfaccettano, ma si cesellano in cabochons levigati e lisci.
Comunque poi a Sri Lanka ci sono -come accennavo qualche giorno fa- anche rubini, zaffiri, cat’s eyes, occhi-di-gatto, e occhi-di-tigre, che si estraggono principalmente a Ratnapura, la cosiddetta gem city di SriLanka (da un articolo su “Serendib” di febbraio).
Continuiamo la nostra rassegna dei locali lungo la spiaggia, e vediamo che in fondo a destra ci sono diverse altre guest houses carine con ristorantino annesso.
Facciamo il bagno, e la doccia, e vita da spiaggia. Per pranzo prendo un sandwich al pollo, e poi più tardi quando non ne posso più di stare in spiaggia, all’ombra perché il sole è violento, me ne sto al bar a bere un frullato di banana. Qui al Wadiya c’è campo per fare chiamate con Skype.
In giro c’è gente piacevole e simpatica, molti giovani, ma anche viaggiatori pensionati.
C’è una fila di soli otto ombrelloni coi lettini, numero giusto, e alle spalle diversi tavolini per smangiucchiare un panino e bere, un assembramento non eccessivo, che fa allegria senza causare disturbo.
Un esempio di menu: si suddivide in breakfast, toasts, fresh juice, sandwiches, lobster, fried dishes, full fish, rice&curry, devilled, chopsy, special rice, noodles, pasta, desserts, drinks; ad es.: riso con 4 vegetable curries, o con pesce e tre veg curries, o con pollo, o prawns (gamberi), o calamari; oppure vegetable fried rice, riso saltato in padella con verdure, oppure chicken, prawns, fish, sea food, o mix fried rice; o i noodles, spaghetti cinesi, con gli stessi condimenti; o fried noodles eccetera; spaghetti Neapolitana, spaghetti Carbonare, Fetachini Alfereda con insalata e crostini di pane all’aglio; uno dei pesci che sono esposti, alla brace: Barbeque full fish with salad and vegetables; desserts: fruit salad with ice cream, curd & trickle, banana pancake (o pinapple, o fruit), banana fitters (o pinapple), ice cream with cake. Eccetera, ma più o meno -soprattutto qui sulla costa, essendo menu rivolti a turisti occidentali-, da queste parti sono tutti di questo tipo.
Poi ritorniamo alla guest house e stiamo lì a uno dei tavoli sul prato a chiacchierare (ci sono anche alcuni surfisti italiani che stanno preparandosi), fino al tramonto.
Ma alle 18:20 pm arriva il buio. Allora si esce per andare a cena lungo la spiaggia. Percorriamo la strada, dove non si vede più nulla (non abbiamo portato con noi la pila), e dopo un po’ ci giriamo a sinistra e scendiamo verso la spiaggia. La temperatura è leggermente diminuita e che effettivamente una bella brezza dal mare (la summer breeze, appunto).
Tutti i baretti e ristorantini hanno messo i tavoli sulla sabbia, al posto delle sdraio-lettini e degli ombrelloni, e su ogni tavolo una candela protetta dal vento dentro a quattro vetri.
L’effetto è grandemente suggestivo, con tutte queste lucine tremule nel buio pesto lungo la spiaggia. Ci sono pure sulle capanne dei ristorantini strisce di lucette colorate tipo natalizio, appese anche sugli alberi e palme e sui tettucci, per cui si ha questa visione sino in fondo in fondo di tutta questa luminaria. Ed è un risultato stranamente molto carino, ad ogni ristorantino corrisponde anche un tavolo sulla battigia illuminato, con su il pesce pescato di giornata da scegliere per la cena.
Tutto l’ambiente è un po’ retrò tipo anni settanta, ma ammodernato, con tutti muniti del loro iphone o ipad.
Al ristorantino Wadiya alla sera ci lavorano anche Sandra, suo marito, e il ragazzo tuttofare del SummerBreeze.
In generale qui ci sono tanti ragazzi e giovani locali che sono un po’ tipo rasta e essendo scuri sembrano proprio dei giamaicani, o comunque dei caraibici.
Si sta da dio ad assaporare la brezza, guardare le onde che si avvicinano verso i tavoli e con le loro lingue d’acqua a volte lambiscono i piedi… e si sta ad ascoltare musica. Il cielo stellato poi è una meraviglia.
Dopo cena passeggiamo sulla spiaggia in questo clima mite, e infine torniamo (purtroppo senza pila). Dormiamo bene con un buon condizionatore silenzioso che al solito puntiamo a 28°, un bel fan, ventilatore, indirizzato verso altrove, che serve a mettere in movimento l’aria (dato che chiudiamo la porta e anche la porta del bagno, che al solito è caldo). E ce ne stiamo sotto al baldacchino con la grande zanzariera che pende e ci avvolge e ci protegge.lunedì 18, Mirissa beach
Ci svegliamo e andiamo direttamente al tavolino davanti alla nostra camera e la cameriera, una signora gentile e sempre sorridente, ci prepara, e poi con calma ci porta il breakfast.
Ad un certo punto arriva il ragazzo, e poi un altro che era anche lui al Wadiya, e sale proprio sulla palma sopra al tavolo, e stacca un grosso casco di cocchi col machete. Anche i pescatori delle casupole sul sentierino qui a sinistra si prendono una corda a 8 in cui infilano i piedi e salgono su palme toddy molto più alte della “nostra”, e lasciano cadere i cocchi con gran tonfi.
Intanto diamo finalmente le nostre cose alla cameriera da lavare, e lei sembra esserne contenta, ci dice il prezzo sottovoce, come un po’ vergognandosi, ma per noi è un prezzo ridicolo. Poi chiacchieriamo con la giovane quarantenne Sandra. Ci dice che è venuta a vivere qui sei mesi fa, e ha intenzione di restarci a vita. Comunque dice che dall’inizio di quest’anno gli stranieri oramai non possono più comprare terreni e case.
Veniamo a sapere dal ragazzo che qui vicino c’è uno bravo che fa i massaggi, e combiniamo per un massaggio dopo pranzo. Poi già che ci siamo combiniamo anche per una gita in barca per domattina. Ma io e Marco non ci stiamo, ci da a entrambi fastidio il dondolio in barca, quindi noi combiniamo per andare a vedere un posto di serpenti che c’è nell’entroterra.
Quindi andiamo a fare di nuovo una passeggiata sulla spiaggia per vedere bene i locali che ci sono in fondo al golfo dalla parte destra. Ci sono dei begli alberghetti e pensioncine non invasivi.
Per esempio c’è un posto che si chiama “One World, home for backpakers”, che mi pare simpatico. E in fondo in fondo una guest house nuovissima tutta di legno. Altre sono invece un pochino arretrate rispetto alla spiaggia, dentro alla vegetazione, ci sono tante palme e mangrovie.
Poi ci accorgiamo che una piccola sezione della spiaggiona appartiene alla Guardia Costiera, e quindi è pubblica, per cui uno può venire qui e mettere il suo asciugamano sulla spiaggia all’ombra degli alberetti, e stare lì senza dover pagare o essere cliente. In realtà poi vedremo che certi alberghi lasciano stare sulla spiaggia là davanti a loro anche non-clienti. Per esempio proprio il residence Paradise-resort ha un cartello per indicare un’area “for non-resident guests”.
Poi al ritorno vediamo che il posto della guardia costiera ha pure un allevamento protetto di uova di tartarughe e delle vasche con piccole tartarughine neonate a cui un inserviente sta dando dei pezzettini di pesce da mangiare. Ce ne sono di razze diverse, di più piccole e di più grandine.
Poi dopo marco&lucia vanno a vedere i negozietti lungo la strada statale. Io invece vado a guardare a sinistra della nostra guest house. Ai gradini di cemento ci sono dei gran granchioni.
Continuando il sentierino di terra che costeggia c’è subito un gruppo di capanne di pescatori, e più in là uno spiazzo con tante barche, e infine girando dopo la punta c’è un altro golfetto, più riparato e isolato, con solo due o tre alberghetti e guest houses. Per esempio c’è il Goggle Rest che mi pare un buon posto.
Torno per pranzo ma decidiamo che ci basta un bel succo di mango che danno in un gran bicchierone, per la cui preparazione però il ragazzo e la cameriera ci mettono un’oretta buona d’orologio.
Alle due e un quarto usciamo sulla strada statale che attraversiamo e ci dirigiamo su per lo stradello proprio di fronte al nostro ingresso, e dopo una ventina di metri ci dovrebbe essere questa “Badora Spa” dove vorremmo fare un massaggio. E’ in pratica la bella villetta di un giovane professionista, il signor Nimal Ahangama, che con un suo collaboratore fa massaggi in casa sua. Avrà circa una quarantina d’anni, ci riceve sua moglie e il figlio di 8 anni. E’ davvero molto bravo a fare massaggi. Ha imparato alla scuola di questa società che si chiama appunto Badora, il cui slogan è: “bring the heaven on earth”, porta il paradiso in terra. Ha un catalogo, da cui io scelgo di farmi fare il Full body aroma therapy.  Per un ora di durata mi massaggia con olio all’eucalipto. Non solo lui, ma a quel che riferisce Lucia, anche il suo collega sono entrambi proprio bravi ed esperti, ed è più a buon prezzo degli altri che avevamo fatto sin’ora. Torniamo rilassati e soddisfatti. La casa è in Bandaramulla, e il contatto si prende via mail (nimal255@gmail.com).
Altra passeggiatina, guardo con maggiore attenzione gli alberghi vicini alla nostra guest house sulla destra. Sono degli hotel, comunque sono gradevoli perché sono un po’ vecchio stile.
Mi accorgo di un manifesto su una palma che invita ad andare a seguire lezioni di kundalini yoga proprio nell’albergo attaccato a noi dietro al muro. Decido di andarci senz’altro domani pomeriggio.
Facciamo il bagno vicino alla penisoletta che fa da riparo alle ondone dei surfisti.
Alla sera Sandra e il suo compagno (Asanka) ci danno le indicazioni per le gite di domattina.
Restiamo ad ammirare il tramonto. Poi andiamo al solito ristorantino “Wadiya” a cena. Annalisa e io scegliamo un bel pescione corallo tutto rosso e ben carnoso da condividere, mentre lucia&marco scelgono un barracuda, che forse è anche più gustoso del nostro, e senz’altro più delicato. Questa sera però i giovani qui sono disorganizzati, fanno pasticci, e insomma si aspetta molto a lungo. Ma tanto ci godiamo la serata sulla spiaggia.

MARTEDI’ 19: Mirissa e Thelijjawila

Annalisa e Lucia partono alle 6 a.m. per andare a fare la gita in barcone con la “Whales Lanka (pvt) Ltd”, a vedere le balene azzurre e i delfini al largo. Partiranno dalla baia di Weligama (=villaggio sulla sabbia), che è la seconda più grande baia dell’isola, e torneranno verso le 11. Purtroppo da 3 settimane a questa parte il prezzo di queste escursioni è stato unificato per evitare concorrenze, ed è semplicemente raddoppiato. Cioè il cartello coi prezzi è pieno di cancellature: prima c’era scritto 3mila rupie, poi in sovrimpressione 4mila, e ora ci hanno scritto sopra 6mila; è un prezzo incredibile. Sono gli harbour boat operators (HaBO), che si sono messi d’accordo e hanno fatto, come si dice, un vero e proprio cartello-capestro, la “Facilitators’ Association”, che impone un prezzo unico. Quindi andranno dall’attrezzato porto della città di Weligama al largo per 13 km, dove c’è il percorso della migrazione est-ovest  delle blue whales, in quanto è una larga corrente che è ricca di krill, quei microscopici gamberettini che le balene consumano al ritmo di una tonnellata al giorno. E poi ci racconteranno di averne viste quattro ben da vicino, e anche molti delfini, e soprattutto tanti flying-fish, pesci volanti che hanno fatto gran impressione con i loro voli rasenti al pelo dell’acqua.
A ovest di Mirissa, al largo nella Weligama Bay, c’è un isolotto, poco più di un grande scoglio, a cui è rimasto ancor oggi l’antico nome di Taprobane Rock island (in singalese Galduwa).
Io e marco facciamo colazione verso le 8. Ci sono grandi ondone, e sono in acqua una dozzina di surfisti, compresi i nostri coinquilini italiani. Ieri avevamo incontrato in spiaggia dei surfisti messicani! E’ incredibile vengono da così lontano, e in questo caso da un paese che è pieno di luoghi adatti e famosi, fino a qui per fare surf? Quello dei surfisti è come una sorta di club mondiale che si ritrova qua e là nel mondo con il passaparola su internet. E ciascuno di loro vorrebbe provarli tutti i posti più noti. Comunque sono un vero spettacolo a starli a guardare.
La cameriera al termine del breakfast viene a chiedermi “Frankie?”, non capisco la domanda, forse vuole dirmi che è arrivato quello del tuktuk a prenderci per la nostra gita… “No, no. Frankie?”, allora penso a un altro piatto per il breakfast e le chiedo “do you mean Frankfurt” (alludendo ai wurstel che certi chiamano così). “No!”, allora non so forse è pronta la nostra roba che le avevamo dato da lavare? “Frankie!, wait.” E così poco dopo ci porta un involtino tipo crèpe con dentro cocco grattugiato e sopra sciroppo aromatico. Caldo, buono!
Viene dunque a prenderci il ragazzo col tuktuk, e andiamo per 18 km verso l’interno in località Thelijjawila, ci vuole poco più di un quarto d’ora circa. Paesaggi bellissimi, è tutta una zona assolutamente priva di turismo, con villaggi, bella campagna, risaie con donne che ci lavorano, fermate della corriera in piccole frazioni e paesini. E intanto si vedono pavoni, tartarughe negli stagni, mucche, scoiattoli, eccetera.
Arriviamo infine a questa cosiddetta “Snake Farm”, che è poi la casa nella giungla, di una famiglia. Non c’è nessuno, silenzio. Vediamo che questo posto in effetti si chiama “Snake Conservation and Snake Bite Treatement Centre of Sri Lanka”.

Aspettiamo e ci guardiamo attorno nel bel giardino fiorito, dopo un po’ viene una anziana signora che dice che fra poco suo figlio arriverà. Aspettiamo, entriamo in sala, che è piena di quadri con vecchie foto, e di diplomi e riconoscimenti.
Da tutto ciò deduciamo che questa attività e questa casa l’hanno fondata il nonno e la nonna dell’attuale personaggio. Arriva anche un signore anziano, e allora riconosciamo che dev’essere il figlio del fondatore. Ma tacciono, lei si mette a guardare la tv. Il nonno dovette essere famoso, nelle foto si vede che fu omaggiato da noti personaggi. Era un medico ayurvedico e uno studioso di medicina tradizionale indigena, in quanto si interessò di fare ricerca nel campo dei veleni e dei loro antidoti, e fondò qui nel 1915 questo centro studi e ricerche. Così il dottor Jamis Appuhami divenne anche un grande conoscitore di tutte le specie di serpenti velenosi, e non solo, del Paese e dell’ Asia equatoriale e tropicale. E pure sua moglie doveva essere una persona eccezionale. Poi passò questa attività al figlio, cioè il padre di chi stiamo aspettando.
Ed ecco che a un certo punto arriva tranquillo e sorridente il nipote, sui 40 anni. Che ci porta subito nel magazzino, un garage dove tiene vari esemplari che cattura lui stesso andando a cercarli nel folto della giungla in giro per Sri Lanka.
Subito con disinvoltura tira fuori da una gabbia un grosso cobra bianco e ce lo mette per terra davanti a noi. E intanto dice che è un serpente dal veleno mortale. Noi facciamo di scatto un bel passo indietro, anche se lui ci tranquillizza, assicurandoci che è tutto sotto controllo. Rimango sconcertato perché non erano queste le mie aspettative, io mi figuravo una sorta di zoo con dei serpenti da guardare dietro a uno spesso vetro, e invece mi trovo lì per terra libero, all’aperto, un grosso cobra bianco proprio davanti a me… Poi lo raccoglie e lo rimette nel gabbiotto, ne apre un altro e tira fuori il Krait dello Sri Lanka, un serpente specifico dell’isola, che è persino più pericoloso di Re Cobra, ed è di una delle sei specie più altamente velenose che si possano trovare in questo ambiente naturale.
Lui sorride ed è anche orgoglioso di mostrare che ha questi esemplari, e che li ha trovati, stanati e catturati lui stesso andando a cercarli. Quando qualcuno lo chiama perché un serpente infesta il proprio terreno, o terrorizza un villaggio, lui arriva e non lo uccide, ma va dritto a prenderlo.
Così ne tira fuori l’uno dopo l’altro, un serpente color rossastro, e poi un altro effettivamente bellissimo, di un verde splendente, con una testina che sembra una figura geometrica, una meraviglia della natura sotto il profilo estetico.

Poi uno piccolo con vari disegni colorati, uno viscido e beige, un grosso giovane pitone di 8 anni, che mette al collo di Marco, eccetera eccetera.
Ma ci porta in mostra anche una grossa tarantola in una gabbietta, e un grosso scorpione nero con un bel pungiglione.
Ma per esempio il secondo serpente, il krait, pur essendo altamente velenoso (di ognuno ci dice anche i tempi entro cui un essere umano è destinato a morire se morso), comunque non è aggressivo, non attacca mai se non viene calpestato, e ci fa vedere che mette il piede (con i suoi sandali infradito), proprio vicinissimo alla sua testa e quello resta immobile e del tutto indifferente.
E poi ci mostra pure una bella vipera grande, e la tiene in mano, le fa aprire la bocca e ci mostra i denti.

Infine ne tira fuori uno grosso e rossastro.

Suo nonno dunque era un pandit, specialista nello studio degli antidoti che si possono produrre con la farmacopea ayurvedica, e sua nonna era una veterinaria ayurvedica. Come pure i suoi genitori che abbiamo conosciuto all’arrivo.
Al ritorno ammiriamo il paesaggio lussureggiante e ci fermiamo accanto a uno stagno pieno di tartarughine.
A metà strada passiamo accanto ad una fabbrica di batik e gli chiediamo di fare una sosta per andare a visitarla. E’ molto interessante, si tratta in pratica di vari laboratori artigianali in cui si svolgono le differenti parti della lavorazione. Sono dei capannoni in mezzo alla giungla, dove lavorano prevalentemente donne, giovani e anziane, e fanno tutto a mano, dal taglia e cuci, ai disegni, alla colorazione, passando le tele da un opificio all’altro, fino ai calderoni in cui vengono fatti bollire, e alla asciugatura e stiratura. Poi i capi vengono venduti ai distributori. Sono veramente bravissime e velocissime a fare i vari decori tradizionali, e i più complessi disegni, e poi a darvi le pennellate giuste, e a colorarli. Tutto l’insieme, che occupa una vasta estensione, forma una manifattura di tipo preindustriale. Compero alcune cose perché i prezzi sono davvero più bassi che nei negozi o nelle bancarelle, e poi promettiamo di ritornare.

In questi casi, molto frequenti in paesi in via di sviluppo, l’integrazione tra attività manifatturiere, artigianali e la vita delle campagne mantiene un suo equilibrio sostenibile, e la vita dei villaggi non ne resta stravolta e emarginata.
Paghiamo il pattuito al nostro tuktuk (6€ in due) che ha passato quasi tutta la mattina con noi facendoci un pochino anche da cicerone commentatore. Ci rivedremo nei prossimi giorni.
Al rientro in guest house troviamo Annalisa e Lucia che stanno finendo il loro tardivo breakfast (quasi un brunch) e che ci raccontano che per fortuna il mare questa mattina era liscio, e dell’emozione di aver visto tre o quattro balene abbastanza da vicino, nonché delfini e pesci volanti (c’è anche qui una favola in cui si racconta di qualcuno, come Giona e Pinocchio, che scomparve nel ventre di una balena e poi ritornò a casa, v. “La zucca” tra le favole raccolte da H.Parker).
Poi tutti e quattro ci facciamo una dormitina. Nel frattempo il tempo cambia e diviene tutto coperto. Quindi loro tre ritornano a fare acquisti alla Batik fabrik, mentre io resto per andare alla sessione di kundalini yoga.
Si svolge all’albergo proprio adiacente a noi, su per una scala in una bella terrazza con vista sulle palme e l’oceano.
Le sedute sono condotte da Marta Blanco, una spagnola che vive in Australia e in questa stagione viene qui, così si incontra con i suoi genitori, essendo un punto più o meno a metà strada. E’ brava, semplice, tranquilla, sorridente e buona conduttrice, e perfetta come modello per le asana, le posture. Mi stimola molte suggestioni.
Nuovo bel tramonto. A cena torniamo con la nostra passeggiata nel buio al nostro ristorantino e io prendo chiken biriyani, e da bere un succo di papaya mentre gli altri si scelgono un pesce dal tavolo sulla battigia.

Ricetta: Aggiungete ad uno yogurt bianco delle spezie (zenzero, aglio, masala, eccetto lo zafferano), dei peperoncini verdi tagliati a fettine sottili, due spicchi di aglio tagliato finemente, e succo di limone, un pizzico di sale, pepe a piacere e mescolate.
Fate bollire del riso basmati con cannella, cumino e pepe in una pentola d’acqua. Portare il riso a metà cottura, scolare.
In una padella larga fate soffriggere in poco olio delle cipolle tagliate a fettine. Non appena sono dorate, tagliate a pezzetti il pollo e aggiungetelo e fatelo rosolare finché i pezzi non saranno ben cotti da tutti i lati.
Unite al pollo e alle cipolle in cottura, qualche cucchiaio di latte in cui avrete fatto sciogliere lo zafferano, quindi mettete il coperchio alla pentola e lasciate cuocere a fuoco moderato mescolando di tanto in tanto.
Dopo dieci minuti unire il riso al resto degli ingredienti, coprire e fare cuocere a fuoco basso per circa un’oretta. In uscita aggiungete uvetta sultanina e prezzemolo fresco.
Quindi ci facciamo una gran mangiatona: chiken buriyani, papaya juice, barracuda alla brace, grilled fish&chips, calamari al burro, boiled vegetables, pasta seafood, veg soup, curd&honey, lime soda, soda, beer, min water, totale in quattro 4320 rupie (= 25 €uro, i soliti 6€ a testa).mercoledì 20 Mirissa beach
Alle 7 e mezza sono puntuale da Marta per lo yoga del mattino. Sulla palma oltre ai cocchi ci sono delle cornacchie che gracchiano, e vari scoiattoli che squittiscono forte. E davanti c’è l’oceano con il suo fragore. A sinistra il sole crescente che batte sempre più forte. Stupendo modo per salutare il mattino.
Alla sua sinistra tiene la foto di Yogi Baghan, il suo maestro di kundalini yoga.
Torno per le 9 alla guesthouse in tempo per partecipare al breakfast sui tavolini davanti alla nostra stanza.
Poi andiamo subito a camminare lungo lo spiaggione, all’inizio c’è un baracchino che vende cocchi freschi di taglia grande: “A king coconut a day, keeps the doctor away”, un cocco reale al giorno, leva il medico di torno.
Quindi Annalisa viene a vedere il vivaio di tartarughine.
Dopo un bagno e un’altra passeggiata ci fermiamo a prendere il sole e a leggere. In questi cespugli fioriscono fiori meravigliosi.
Quindi andiamo in un ristorantino più il là, per provare a cambiare, e anche perché oggi si sono alzati in mare dei cavalloni notevoli. Sono alti, forti, e quando si infrangono vorrebbero coprire tutta la spiaggia. Posso capire quelli che, ignari, sono stati a guardare l’arrivo dello tsunami, anche in ciò che incute timore ci può essere un fascino ammaliatore.
Pranziamo al ristorantino “Surf Breeze”, dove c’è la scritta: “You have trusted the rest, now taste the best”, avete provato (dato fiducia) il resto (o anche il riposo), ora assaggiate il meglio.
Prendiamo una pizza (è già la seconda in SL) che non è poi così malaccio, io prendo la cosiddetta hawaiana con l’ananas, quindi una pizza media e due grandi, un piatto che non ricordo, macedonia di frutta, birra, soda, lime soda.  Spendiamo al solito in quattro 4360 Rs, 6 € e mezzo a testa. Le bibite, soprattutto di importazione, sono quelle che portano su il prezzo.
Qui nel menù sono previsti piatti particolari, come: “Pene arabiyata”, che non è un pistolone arabo, ma solo penne all’arrabbiata. In un posto qui vicino propongono una particolare dieta ayurvedica per prevenire gli effetti dell’invecchiamento, la “anti-again diet” (anziché anti-ageing), che sembrerebbe semplicemente una dieta contraria a mangiare ancora, mentre un ristorantino più in là si definisce “Rest u rent”.
In Sri Lanka molte guest house o bed and breakfast si definiscono Rest House, case di riposo.
Torniamo nel nostro Summer Breeze, dove ci sono grandi foglie, e piccoli cagnetti.
Vado a fare un giro verso l’altra parte, per vedere meglio il piccolo villaggetto di pescatori.
Poi più tardi prendo lo yogurt di bufala con sciroppo, che qui chiamano curd-trickle. Poi dopo una intera giornata di dolce far niente, passata in spiaggia osservando i cavalloni e i surfisti, e i pescatori su quei trespoli di legno, torniamo all’imbrunire in guesthouse, mentre Annalisa dice che non ha voglia di farsi tutta la camminata fino in camera solo per cambiarsi e poi rifare la camminata, e ci aspetta là per andare poi a cenare assieme. Proprio appena appena arrivati alla nostra guest house, inizia il grande diluvio universale. E io inizio ad andare in bagno… Annalisa non ha con sé il cellulare per cui non si può comunicare. La temperatura si abbassa notevolmente e l’umidità si alza molto. Così quando poi finalmente spiove vanno solo lucia&marco a cena mentre io mi sdraio a letto massaggiandomi e restando al caldo della camera. Ma poi mi passa e decido di uscire a guardare l’ultimo tramonto di Mirissa.

giovedì 21 febbraio
Ci alziamo facciamo le valige e poi andiamo a rivedere la penisoletta, poi torniamo per l’ultimo breakfast a Mirissa. C’è lo squirrel che fa i suoi squittii, arriva l’inserviente gentile e sorridente, ma stamane ci mette una infinità di tempo a preparare il thé, e tostare le fette di pane, perché siamo scesi tutti contemporaneamente ai quattro tavolini sul prato.
Poi arriva Amal, saluti e abbracci. Si siede con noi a fare due chiacchiere e prendere un caffé. Ora si parte. Faremo la statale costiera su fino a Negombo. Riprendiamo ad essere in viaggio.

Si percepisce che la costa sta rapidamente cambiando, perché si moltiplicano i nuovi alberghi e i paesi e le cittadine costiere hanno dei centri di negozi tutti nuovi. Oramai restano ben poche sezioni della strada costiera che lascino vedere il mare, dunque sia il settore commerciale, che edilizio, che soprattutto turistico sono in grande sviluppo, investire in questi settori sembra evidentemente un buon investimento. Solo che le condizioni naturali sono quel che sono, e la spiaggia man mano che si procede verso nord si fa sempre più stretta.
Vediamo anche molti giovani fare attività ginniche e sportive, dal footing al calcio, ai giochi britannici come il rugby e il cricket. Uno sport specifico di SriLanka che vediamo fare è il chung-gubu, o jung gu, in cui si dispongono sei ragazzi in cerchio da una parte e sei in un altro cerchio, e devono catturare un membro dell’altra squadra.
Lungo la strada vediamo vari cimiteri, ci sono quelli di ogni singola religione, ma anche quelli pubblici per tutti indistintamente.
Intanto passiamo da Koggala dove vediamo l’albergo in cui avremmo dovuto stare secondo il primo progetto.
Anche qui lungo la costa ci sono dei trespoli di legno dove vanno ad appollaiarsi su i pescatori.
Ci sono molti ponti, molti porticcioli di pescatori, e mercati di frutta e verdura, punti densi di traffico, e dunque a guardare fuori dall’auto la gente e gli ambienti, si hanno molte continue suggestioni e stimoli per riflessioni, osservazioni, associazioni di idee, ecc.
Arriviamo a Galle che in inglese si pronuncia “gaul”, e deriva da Gal-le, un riparo per la notte per i carri con buoi in viaggio, una sorta di caravanserraglio. Tutti i nomi dei luoghi importanti furono storpiati dai colonizzatori europei, prima dai portoghesi, poi dagli olandesi e infine dagli inglesi. (Come già ho avuto occasione di dire più sopra, ad es. per Kandi, abbreviando Kand-udarata cioè paese collinare, o città sulle colline).
Facciamo un giro per la vecchia Galle che è effettivamente molto carina e ha conservato moltissimo nel centro storico, soprattutto del periodo olandese, e poi anche di quello britannico. Facciamo anche una passeggiatina sui rampari del forte. Lo tsunami qui era di 7 metri di altezza ma ha risparmiato la zona del forte olandese girandovi attorno, e in tal modo la sua forza è stata rotta e smorzata, comunque tutt’attorno fu un disastro. Infatti si vedono tutti edifici nuovi.
Questa dunque, che ora è la costa del turismo e delle vacanze, è stata anche la costa della immane tragedia dello tsunami.
Si vede che diverse case, giardini, terreni, sulla costa sono stati a lungo abbandonati a causa dello tsunami, e ora i proprietari sarebbero ben contenti di poterli vendere.
A nord di Hikkaduwa è accaduto il famoso fatto del treno travolto pieno di gente che vi si era riparata, ma non sono annegati solo loro, nel villaggio ne morirono altri 350.
Poi ci fu l’episodio, pure rimasto famoso, della ragazzina di 12-13 anni che aveva studiato gli tsunami a scuola, e ha capito di cosa si trattava ed ha dato l’allarme, consentendo a qualcuno che l’ha presa sul serio di salvarsi.
Dopo Dodanduwa, e lo Hikkaduwa Marine National Park con il suo “coral garden”, poco dopo il monumento sullo tsunami, ci fermiamo a visitare lo Tsunami Photo Museum a Telwatta. In questo tratto di costa non si può costruire, per mantenere la memoria delle vittime di quell’evento. E’ un museino molto povero e semplice, mantenuto da una fondazione di origine olandese che lo ha aperto in aprile 2007. Corredato da molte foto incredibili e impressionanti. Tutte le foto raccolte dalle più varie fonti mondiali, sono state donate. C’è una sezione sui 12.500 orfani. E ci sono anche foto  del parco naturale di Yala e di vari posti in cui siamo stati o che abbiamo visto. Il museo riguarda anche i primi anni del dopo-tsunami, con la storia delle difficile e lunga opera di ricostruzione. Questa è stata molto importante per impegnare gente che era sconvolta. Molti di coloro che sopravvissero erano totalmente rovinati e non avevano più nulla, e in molti casi più nessuno, o comunque persero il lavoro, come poi a catena anche molti altri. Le attività di pesca erano impedite dalla mancanza di barche, e il turismo scomparve per diversi anni. Ci sono molte storie personali da raccontare. Per la visita si lascia una offerta libera come contributo al mantenimento del museo (si veda: http://tsunami-photo-museum-srilanka.blogspot.com).
Proseguiamo verso Kahawa e Ambalangoda, Amal ci mostra dove c’era un hotel chiamato Ran Manika, cioè golden wife, sposa d’oro. Così veniva chiamata una elefantessa, che stava legata in un prato tra la strada e la spiaggia, proprio di fronte all’albergo. Prima dell’arrivo della prima onda era così agitata e nervosa, lei che di solito era molto calma e buona, e pacifica di carattere, che il suo custode, il cosiddetto mahmud, l’ha slegata e lei si è messa subito a correre il più velocemente possibile verso l’interno, ed è così che si è salvata e ha salvato quelli che si misero a correrle dietro.
C’è una antica leggenda, che ho letto su una guida alberghiera locale che ho trovato vicino a Negombo, che racconta una storia sulla regina Viharamaha Devi, che era la figlia di re Kelanitissa, sovrano di Kelaiya. Il re aveva punito un monaco in modo crudele, facendo per questo indignare gli dèi che fecero in modo che l’oceano allagasse tutto il territorio dietro alla costa con onde fortissime. I veggenti del regno dissero al sovrano che per placare la furia dell’oceano avrebbe dovuto fare un grande sacrificio agli dei, gettando nelle acque la principessa sua figlia. E così ci si apprestava a ingraziarsi gli dei per un fatto compiuto dal padre facendone pagare le conseguenze alla figlia. La giovane fu posta in una  imbarcazione precaria ma molto sontuosamente decorata e spinta in mare aperto. Non appena la barca fu inviata le onde si calmarono e le acque che avevano invaso il Paese retrocedettero. Tuttavia il re rimase molto male per essere stato così punito ed era assai nervoso, e i sudditi erano dispiaciuti per la perdita della principessa innocente, per cui incominciarono a insultare il re che ritenevano il vero colpevole di tutto l’accaduto. Nel frattempo la fanciulla era finita ad essere sbattuta sulla riva in un luogo chiamato Dovera nei pressi di Kirinda, nel territorio di Ruhuna. Un pescatore, che aveva avvistato quella imbarcazione e aveva visto il suo naufragio, corse ad avvisare il re Kavantissa, sovrano di Ruhuna. La principessa fu salvata dai pescatori che la portarono al cospetto del re con una grande processione di popolo. Il re ascoltò da lei la sua tragica storia, ed impressionato dal racconto decise di sposarla e farla regina. Era stata così coraggiosa e obbediente e patriottica che si era lasciata sacrificare pur di salvare il suo paese. Dato che era approdata nei pressi del monastero Lanka Vihara, fu denominata divina signora di Vihara (Vihara maha devi), e fu molto amata. Ebbe due figli: uno che divenì poi re ed eroe nazionale perché unificò l’isola intera dopo decenni di divisioni, e l’altra figlia che fu poi anch’essa amata dalla gente.
Questa storia popolare chiaramente allude ad un evento molto simile ad uno Tsunami accaduto in remoti tempi passati, ma ancora ricordato in questa forma leggendaria. E si tratta proprio degli stessi territori che furono colpiti qualche anno fa.
La nostra amica a Ferrara ci aveva riferito che quando venne qui con suo figlio, che lavora nel campo del commercio equo e solidale, e che era venuto a portare aiuti alle popolazioni colpite, andarono in giro nei vari posti dove con gli aiuti di questa o quella istituzione erano state costruite delle casette popolari per accogliere i senzatetto, per inaugurare le consegne. Era presente assieme a loro la moglie di un ministro, che aveva fatto da tramite. I beneficiati si prostravano a terra per baciare i piedi alla moglie del ministro, e a seguire anche a loro. Lei si sentì imbarazzata e non voleva che facessero questo atto di prostrazione, per cui li carezzava sulla testa e poi si chinava per tirarli su in piedi, ma fece innanzitutto un atto sconveniente (carezzare la testa), e poi alcuni si risentirono del fatto che volesse impedire loro di provare gratitudine e di dimostrarla. Molti di loro ancora avevano soltanto una lamiera o un tetto di foglie di banano per ripararsi dalla pioggia e dal sole, e si ricorda di un padre rimasto solo con la figlia quindicenne che aveva al centro del terreno riparato, varie scatole di cartone in cui teneva la sua roba, abiti puliti, scarpe, i quaderni di scuola. Questi, come altri, erano felici che fosse arrivato il loro turno. Uno dei problemi grandi della ricostruzione infatti è stato il compilare una lista con l’ordine delle consegne, per cui c’è sempre e per forza qualcuno che è primo e qualcun’altro che è ultimo, magari a distanza di mesi o di uno o due anni (ricordo che anche in Sudafrica dopo la fine dell’apartheid c’era stato questo problema, quando procedeva l’opera di risanamento delle condizioni abitative nelle baraccopoli-ghetto dei neri, le townships, portando i collegamenti ai servizi tipo le fognature, l’allacciamento ai tubi dell’acqua, e simili). Quando iniziarono a costruire le prime casette, si resero conto che nei progetti mancavano le infrastrutture per es, per la fornitura d’acqua, e allora cercarono di risparmiare al massimo sui costi di costruzione, per poter comprare e installare grandi raccoglitori d’acqua piovana sui tetti e portare le tubature ai rubinetti. Poi comunque venne fuori alla fine il sospetto che la moglie di quel tal ministro locale si fosse trattenuta una percentuale per la sua opera di intermediazione. Ma questa gente sembrò alla nostra amica essere stata molto paziente e fiduciosa, e comunque sinceramente riconoscente e sorridente pur in quelle situazioni così ricche di tensioni emotive.
Amal ci racconta anche che poco più avanti, a Ahungalla (un paesino dopo Balapitiya), c’era uno zoo in cui davano dei sonniferi ogni giorno a leoni e tigri, perché così si poteva permettere ai visitatori di venire qui a toccarli, accarezzarli, ma la cosa divenne pubblica quando un giorno diedero una dose insufficiente e un felino ha azzannato il braccio di un visitatore. Così le autorità hanno saputo cosa succedeva, e lo hanno fatto chiudere.
Bellissima la laguna che c’è là vicino, con spiaggia, palmeto, è molto bella più avanti anche Induruwa.
Hikkaduwa fu anche il primo paradiso equatoriale scoperto dagli hippies negli anni Sessanta-Settanta, come racconta Barry Miles nel suo “Hippy: miti, musica e cultura della generazione dei figli dei fiori” (Hippie, Londra, 2004, trad. it. Logos edizioni, 2006).
Ma noi ora facciamo sosta a Kogoda alla “Turtle Hatchery”, al Rifugio delle tartarughe. Questa è una zona in cui si sta sviluppando il turismo, ma dove una volta all’anno in una notte ogni tartaruga fa 150 uova, e quindi molti volontari hanno ideato un Turtles Project, un progetto per la protezione delle tartarughe marine. In questa zona vengono a deporre le uova ben 5 diversi tipi di testuggini, durante il periodo della deposizione delle uova, gli addetti vanno nei punti della spiaggia in cui le tartarughe scavano i loro nidi (che poi abbandonano tornando in mare), quindi, con una vanga disseppelliscono le uova e le portano in una zona protetta della spiaggia, dove le seppelliscono di nuovo ed accanto a questo nido artificiale mettono un cartello con la data e il tipo di tartaruga che le ha deposte. Per questo si chiama hutchery (=incubatrice, nido).
Quindi alle persone che portano al Rifugio delle uova, le pagano 15 rupie all’uovo. Ci fanno prendere in mano un uovo perché non è fragile, è molle ed elastico e si può manipolare e schiacciare come fosse una pallina da ping-pong di gomma con acqua  all’interno, si piega in dentro ma non si rompe.
Poi le fanno schiudere in un luogo protetto e tengono le neonate per un po’ in vasche apposite di acqua di mare dove per qualche giorno potranno crescere al sicuro dai pericoli ed avere nutrimento in modo da essere abbastanza “forti” per poter affrontare il mare senza troppi rischi. Nelle vasche le neonate sono suddivise per giorni d’età.
Quindi vanno a rilasciarle in spiaggia quando ci sono meno pericoli per loro, cioè in momenti in cui non ci siano predatori, come la sera dopo il tramonto. Ce ne lascia prendere in mano alcune e carezzarle. Nel momento in cui ci dice che il 20% di quelle che vediamo saranno morte entro stasera perché le lasceranno andare libere verso l’oceano, ci dispiace da matti e ci restiamo malissimo. Però ci spiega che così il 20% sopravvivono, mentre in condizioni naturali, spontanee, se ne salvano solo il 2%: è così che accade in ambiente naturale e selvaggio. Comunque a pensare che la tartaruga ne partorisce 150, una sola volta all’anno, e che stasera saranno quasi tutte morte ci fa molta impressione. Qui poi tengono anche le handicappate e le malate, per cui gran parte dei soldi raccolti con le donazioni vanno in realtà per accudire e tenere in vita alcune adulte handicappate che altrimenti in ambiente naturale morirebbero.
Ce n’è una di una razza particolare col becco, e poi una che è albina, ed essendo perciò più visibile è soggetta più facilmente ad attacchi, una cui manca una zampa, una cieca, ecc. Qualcuno comincia a chiedersi che senso ha tutto ciò, e anche che danno ne risentono gli animali predatori, che oltretutto non avendo mangiato si rivolgeranno maggiormente verso altre prede.
Quando ci fu lo tsunami diverse persone qui tentarono di prenderne in salvo con sé qualcuna, ma poi la seconda onda travolse e distrusse tutto.
Il biglietto costa solo 300 rupie, cioè meno di 2€, ne vale la pena, è molto interessante, e inoltre è anche divertente da vedere, e poi è in un ambiente naturale molto bello, pieno di grandi mangrovie, e infine è una opera lodevole perché le tartarughe di mare sono una specie a rischio di estinzione.
Il ponte sul grande fiume Bentota Ganga, appunto a Bentota, segna il confine tra la provincia meridionale e quella occidentale. Subito dopo, a Aluthgama ci sono molti turisti tedeschi e russi. Ci fermiamo per pranzo al ristorante e pasticceria Singhraja (Re Leone), molto pulito e moderno, e bellino, con molti ottimi dolci, la gente viene principalmente per comperare i dolci e portarli a casa.
Watalappa è un dolce tipo pudding inglese, cioè una specie di budino, con sopra dello sciroppo al miele. C’è la melassa da mettere sui dolci o sul pane, palm treakle, e cashew nuts, castagne di cajù.
Mangiamo con sovrabbondanza gran piattoni strapieni di vegetable noodles, chicken noodles, chicken nugget, soup of the day,  pane buonissimo, e bibite, per 1675 Rs, cioè meno di 10€ in cinque.
Siccome abbiamo avanzato un sacco di noodles, e c’è là fuori un poveretto anziano che chiede la carità, li facciamo mettere in una scatolina da asporto, e glieli diamo a lui che è molto contento e va subito via, forse verso casa.
Riprendiamo il viaggio, attraversiamo il Black river, che è il terzo maggiore fiume dello sri Lanka. A Kalutara, una città che è il capoluogo del distretto, c’è uno stupa nuovo e grande nel quale si può entrare -mentre solitamente gli stupa non hanno un interno- e vedere delle illustrazioni della vita del Buddha. Più oltre vediamo una processione per un funerale buddista, sono tutti in bianco, che è il colore (o l’assenza di colori) del lutto, con davanti tamburo e tromba. Spesso si vedono immagini del Buddha con intorno dei lumini intermittenti, e al proposito vedo una scritta: “all that glitters is good”, tutto quel scintillìo, luccichìo è una buona cosa.
Anche gli scolari vestono di bianco, ma per evitare il caldo.
Vediamo ancora manifesti di pubblicità per il nuovo film su Siddharta.
Il principe Siddhartha Gautama era figlio di un Raja dei Sakya (che significa “i potenti”, denominazione di un clan guerriero nepalese); i Sakya erano una casta di combattenti, come gli Kshatriya in India, di grado inferiore solo ai brahmani. Visse circa ottant’anni e lasciò il corpo dopo il raggiungimento del paranirvana sotto ad un albero di Bodhi, per cui fu chiamato Buddha Sakyamuni, l’illuminato della stirpe dei Sakya.
Colombo, il cui nome secondo certuni potrebbe derivare da Kol-Amba-Tota che significa “porto del mango”, alterato dai Portoghesi (o secondo certi altri da Kolon tota, porto sulla punta). Già da molto prima di arrivare, Colombo è circondata da urbanizzazioni moderne, infatti se la città in senso stretto ha 660 mila abitanti, e sta attorno al quartiere storico chiamato The Fort, tutta la grande area metropolitana ne conta due milioni e mezzo. Vediamo anche la sede del vecchio parlamento di stile coloniale. Poi facciamo un giro in auto per la parte verde che è molto estesa e curata, e quella moderna del centro, che è modernissima e interessante. Ci sono grandi avenues alberate, un teatro nuovo, un centro congressi, la nuova sede della municipalità, attrezzature sportive, universitarie, ambasciate, negozi. Molti giovani fanno sport all’aria aperta, footing, e corsa (resta nella memoria dell’atletica la “radiosa gazzella” Susanthika Jayasinghe, che nei 200 m. prese l’argento ai mondiali di Atene e poi anche alle olimpiadi di Sidney). Andiamo poi sul lungomare nord, e vediamo anche le torri gemelle del WTC world trade center di Colombo, a Echelon square, che furono anch’esse obiettivo di vari tentativi di attentati terroristici, per il loro significato simbolico, fortunatamente tutti falliti o sgominati in tempo. Ci racconta dell’ultimo, da parte di una donna incinta che era solita frequentare l’adiacente ospedale militare per fare le sue periodiche analisi; da lì si poteva in un certo modo riuscire ad entrare nei sotterranei del WTC, e lei era entrata nascondendo dinamite sotto una parte finta del pancione. Il penultimo giorno arrivarono con un camion pieno di esplosivi, hanno sparato contro chi incominciò ad ostacolare il suo procedere verso l’area vicina al WTC (cioè al punto sotterraneo presso le fondamenta della torre, dove si trovava lei), e con la sparatoria di risposta è esploso causando la morte di 50 persone.
Che disastri… e che strascichi che lasciano ancora per molto tempo nella memoria e nell’animo. Alla fine per fortuna (e per stanchezza) non è rimasto che rassegnarsi al fatto che ci sono due popoli sulla stessa terra, con due lingue, e due o tre o più religioni.
E’ un po’ come nella favola del leone (singhaya), che simboleggia il Potere, che vorrebbe continuare a rimanere l’unico e il solo re della foresta, anche quando oramai non è più il tempo per queste cose, e lui è pure anziano e stanco. Finché la lepre (hawà) riesce ad escogitare uno stratagemma per far sì che il re si rassegni a vivere finalmente in pace con la gazzella (muà), lo zebù, la lepre, la scimmia (wandurà), e tutti gli altri che condividono con lui il paese in cui abitano, tanto più che il regno della foresta è proprio il paese dell’Eden in Terra (vedi: Favaro nella bibliografia in fondo, con i riferimenti).
C’è ora un traffico intensissimo, e ci si rende conto che Colombo è un mondo a parte che assomiglia di più ad altre grandi città del mondo rispetto a ciò che è il paesaggio anche urbano del resto del Paese. Ci sono grandiosi progetti di sviluppo, come un grande centro commerciale, che è anche un hotel a 7 stelle, e un complesso di grandi appartamenti lussuosi, e di uffici. Si chiama Krrish Square, è composto di quattro avveniristiche torri, che sorgeranno dove adesso c’è il mare, a sinistra del bel lungomare con prati e passeggiata. Quindi al momento è quasi ultimata la grande opera di acquisizione dell’area con la gettata di migliaia di grandi massi poi incementati per riempire il fondale marino e creare uno spazio edificabile che faccia da fondamenta ai grattacieli. Certi singalesi dicono: ecco, qui si vede come il presidente sta buttando a mare un sacco di miliardi di rupie. C’è pure una costosissima nuova grande centrale elettrica a diesel (e un’altra altrettanto grande ma a carbone, è in costruzione al Nord), quando il Paese non ha problemi per la creazione di centrali idroelettriche.
Amal ci commenta che al momento ancora il Paese non ha uno sviluppo del settore produttivo industriale vero e proprio, la maggiore fonte di entrate è costituita dalle pietre preziose, dal turismo e dalle rimesse degli emigrati. Poi dalle esportazioni di prodotti agricoli o derivati, e dei prodotti dell’artigianato. E’ più sviluppato il commercio che non il settore produttivo. Costa meno importare persino le biciclette cinesi che non costruirle. Non solo non si è sviluppata una industria srilankese, ma non si è sviluppata nemmeno la tecnologia, come in India o in Cina. SriLanka dunque nonostante la forte crescita economica, resta fondamentalmente un paese agricolo, ma ora anche il thé e la gomma sono in declino. Non ha investito in aggiornamenti e sviluppo delle tecnologie, e per questo resta un Paese dipendente dall’economia globale. Non ha ad es. alcun controllo sulle comunicazioni satellitari e telefoniche mobili. Non ci sono ancora specializzazioni in campo industriale. Dunque è più importante il settore commerciale, e quindi finanziario di quello industriale e produttivo. Molti dei lavori pubblici ora sono affidati all’esercito.
Usciamo dalla metropoli, attraversiamo river Kelany Ganga, che è il secondo maggior fiume, e andiamo verso Negombo. Tutta la costa da Kalutara fino a Chilaw è l’area in cui si trova la minoranza cattolica dello Sri Lanka, ma è solo lungo la striscia costiera. Ed è solo a Negombo e dintorni che è maggioritaria.
Il traffico è davvero pesante e fa molto caldo.
Ma infine arriviamo a Negombo, e torniamo dalla signora Judith al “Suriya Arana”, accolti molto cordialmente. Anche il ragazzo inserviente ci saluta col sorriso (memore della bella mancia che gli diedi partendo). Ci da un’altra stanza, pulita e ben tenuta, che è molto spaziosa, addirittura con un soppalco.
E’ oramai sera e già si sente la lenta melodia del muezzin musulmano, c’è però una bella arietta dal mare. Judith ci prepara per cena vegetable rice, potatoes, aubergines, dhal, and fruits. Anche stavolta il marito è via per un tour con dei clienti.
Parliamo per skype con i ragazzi a casa, come d’altronde abbiamo potuto fare tutti i giorni in ogni luogo dello Sri Lanka.
Le chiediamo per conto di nostra figlia info sugli smalti per unghie, e lei dice che i migliori sono le copie della Revlon. Già sappiamo di tutta la fabbricazione artigianale di copie autorizzate (e anche non) delle grandi marche occidentali in vari campi, che è una importante caratteristica dello Sri Lanka.
Fuori in giardino c’è un pipistrello impazzito. E poi un grosso coleottero ci viene addosso volando.
La serata è mite e godibile. Facciamo una passeggiatina.VENERDI’ 22 FEBBRAIO 2013 Negombo
Mi mancheranno i suoni di qui, gli uccelli che si risvegliano al mattino con i loro gridi, tipo ah-ah-ah in crescendo, e aeh-aeh-aeh in tono più basso, oppure kiew-kiew-kiew-kiew insistente. E gli squittìi degli scoiattoli, ma anche i sibili del vento tra le foglie, e le musichette dei venditori ambulanti, come richiamo per vendere il pane o altro. Ma mi pare sempre melanconico quel “per Elisa” fatto a tipo carillon. E gli schiocchi del gechi, o quel uio-uio-uio-uiooo! uio-uio-uio-uiooo! in crescendo con determinazione, martellante e infinito, o come tchiewtchiew, o ho-ho!, oppure kiù-uiiiiii, come la sirena di una ambulanza, e anche chrrrrrrrr fino al crow-crow delle cornacchie.
Judith ora sta su internet a guardare le mail, e mi piace osservare anche il figlio di 9 anni che è così sveglio, carino, in gamba, che sa fare tutto sul computer, e chiacchiera in inglese con tutti i clienti. Ci porta  lo yogurt per il breakfast, si ricorda dalla volta scorsa. In realtà è un curd fatto con latte di bufala, gelatina hallal, e coltura. Con anche il barattolo del miele da versarci sopra, che è in effetti uno sciroppo “Gold Syrup”, ingredienti: invert sugar, sucrose.
E i rumori notturni… stanotte c’è stato un gran trambusto sul tetto, e ora lo diciamo a Judith che dice che purtroppo sono dovuti a dei grossi toponi. Siamo in una parallela di Beach Road, che poi andando verso sud diventa Sea Rd., vicino all’hotel Jetwing Beach (uno dei quattro). Poi dopo il canale si tiene la sinistra e si va per Main Street. C’è traffico, e fa caldo.
Stiamo andando a cercare nail cutex smalti per unghie, per nostra figlia, e mentre aspettiamo fuori da un negozio fornitissimo, Amal ci dice che lui ha lavorato per diverso tempo alla fabbrica locale della Osram tedesca, e che dovevano fare assolutamente e rigorosamente solo come era prescritto, perché il prodotto doveva essere assolutamente identico all’originale, non distinguibile, non debbono essere imitazioni, ma sono la stessa cosa prodotta altrove. Così è per gli smalti, o per le magliette Tshirts o altro. Per cui il prodotto migliore è semplicemente quello della marca occidentale che tu ritieni la migliore. Non ci sono prodotti locali, se non imitazioni, e quelle sono di qualità inferiore, e costano di meno. Ovvero viceversa quel che costa meno è senz’altro una imitazione.
Ci racconta di un suo ex compagno di classe alle scuole elementari, che con fatica aveva comprato casa quando ha messo su famiglia, e poi per inseguire il miraggio dei soldi si è licenziato e è partito per l’occidente. Per fare il viaggio ha ipotecato la casa, ed è arrivato a Napoli, ma ancora non ha trovato un lavoro redditizio, e non ha i soldi per ritornare indietro. Fa tanti lavoretti occasionali, ed è là da solo (torna di nuovo in mente il film italiano “Into paradiso” che ricordavo nella prima puntata).
Mentre loro sono dentro al negozio, esce una signora che vuole salutarmi perché ha sentito che siamo italiani. Lei è stata a Padova per vent’anni a lavorare in una casa da una famiglia benestante, ha un ottimo ricordo degli italiani e dell’Italia, ora è già da un paio d’anni che è ritornata definitivamente. Lei è stata bene, tutti l’hanno sempre aiutata quando aveva bisogno, e ha fatto delle belle conoscenze.
Sia durante il viaggio in auto, sia qui oggi, Amal ci parla di una occasione che c’è a Negombo di comprare una guest house molto carina, che è quella dove era stata la sorella di marco con le sue amiche, prima del nostro arrivo. Ci incuriosisce, lui continua a dire che il turismo è in espansione ed è perciò un investimento sicuro.
Dopo la stancante girata per il day market, torniamo a pranzare, e andiamo a quel café J dove avevamo mangiato così bene. Fa parte del “Jetwing Blue”, prendiamo: curry turkey, pittà pocket, veg quiche, yogurt&honey, lemon meringa, fanta, apple juice, mango mate, cocacola;  spendiamo 22€ in quattro, ed è tutto buono, e la cucina pulitissima.
Poi facciamo una lunga camminata (o ci sembra tale data l’ora calda) fino a vedere la guest house di cui ci parlava, si chiama “Morning Star”, nel quartiere di Kochchikade, in via Palangathure. E’ molto carino, con piscina, il ristorante interno, e uno stabilimento balneare convenzionato con loro sulla spiaggia. Sono dieci bungalws-camere. Parliamo con la figlia del proprietario, che ci spiega i motivi famigliari per cui suo padre vorrebbe vendere, e che sono comprensibili. Il padre, di nome Francis Appuhamy, ha 65 anni e, dato che oramai rimarrebbe da solo con la partenza della figlia che si è sposata con uno straniero, fa la richiesta di 600mila €uro tutto compreso (francismorning@gmail.com).
Ci sono in mezzo a tutta questa vegetazione, ovunque si vada, dei fiori stupendi.
Nel pomeriggio vengono a trovarci Kennedy e famiglia per salutarci. C’è la moglie con la figlia Sweetha (la bimba cieca) e la sorellina di 4 anni. Facciamo dei regalini alle bimbe (due bambole di pezza comprate stamattina al day market), che le rendono molto contente.
Poi usciamo di nuovo, vediamo che poco più a sinistra c’è il ristorante “Alta Italia” di una italiana che ha sposato uno di Negombo e vive qui. Lui ha preso così anche la cittadinanza italiana. Chiedo ad Amal se lei ha quella di SriLanka, ma crede proprio di no.
Poi torniamo in camera a fare le valige, Amal ci ha riportato i nostri assurdi abiti invernali. Ceniamo, e poi dopo un po’ partiamo verso l’aeroporto tutti bardati per l’inverno umido ferrarese; per fortuna è notte ed è nuvolo, e poi in aeroporto c’è l’aria condizionata…
Baci e abbracci, Amal ci da dei regalini, ci facciamo promesse di ri-sentirci e di ritornare. E poi andiamo.
Salutiamo la “splendente isola florida” (Sri Lanka), la goccia di paradiso nell’oceano indiano, il regno degli elefanti, degli uccelli, e della vegetazione, e dei colori.
Che cosa sono venuto a cercare? o comunque sia, cosa ho effettivamente trovato, preso, acquistato da questa visita, da questo viaggio in tondo? Le storie su Serendib sono raccontate in modi diversi, ma sostanzialmente parlano di tre principi o tre principesse, che vanno assieme a spasso di qua e di là, e fanno scoperte anche a proposito di cose di cui non si erano interessate, o a cui non pensavano;  ppure si racconta di un re dell’isola, che, per decidere a quale dei suoi tre amati figli lasciare in eredità il trono, li mandò in giro per il regno in una tipica quest, una ricerca dagli sviluppi imprevisti e favolosi… ci penserò ricapitolando un po’ il tutto.

Sabato 23
fine del viaggio, arrivo al mattino in Italia, rientro col treno. Ci viene a prendere Michele alla stazione di Bologna, e torniamo a casa in mezzo alla neve con un paesaggio tutto in bianco e nero (o grigio).
All’arrivo a casa nostra figlia Ghila ci accoglie con un cartellone: “Bentornati in porto perbacco! Vi si attendeva, e si scrutavano i mari già da molte lune. Quali avventure avete vissuto? quali tesori avete scoperto?”, e quindi mi rinvia a quelle stesse domande che mi facevo partendo da là.
E’ stato bello all’arrivo fare come facevamo da giovani, sedersi sul tappeto in sala e mostrare tutti i souvenirs, i regalini, e le cose tipiche, che avevamo portato con noi. E così della valigia saltavano fuori foulards, stoffe, cose tutte colorate, spezie profumate, e anche avevo portato dei noccioli di frutti, dei fiori secchi, delle conchiglie, dei sassi, delle foglie.
Quindi per rispondere a quelle due domande ho poi pensato che io ho “sentito” molto quella gita fatta a Kekirawa, prima sul carro di buoi, poi in catamarano nella laguna di Hirrywaduna e infine nella capanna della vecchina; e quanto alla seconda domanda, i tesori sono stati la giungla, i fiori, i colori, gli uccelli, gli elefanti di Pinnawala e gli altri animali, e poi l’atmosfera mistica dei templi nelle grotte di Dambulla; ma anche i sorrisi di gente semplice, e di bambini.
Circa un secolo fa Hermann Hesse nel 1911 realizzò e concretizzò l’agognato e vagheggiato “pellegrinaggio in Oriente”, e andò nei “mari del Sud”, a Ceylon (e poi anche in Malesia e a Sumatra) con un suo amico pittore.
“Mi pare che l’essere in viaggio costituisca per noi il surrogato (…) dell’esercizio dell’istinto estetico (…). Il puro guardare, l’osservazione non turbata né dalla volontà né da un fine della ricerca, l’esercizio pago di sé, della vista, dell’udito, dell’olfatto, e del tatto, rappresentano uno stato di beatitudine del quale i più sensibili tra noi sentono una nostalgia profonda; e il viaggio è il modo migliore per inseguire le tracce di quel paradiso perduto.”
Poi nel ’13 raccolse le sue annotazioni prese durante quel grande viaggio verso l’Oriente in “Aus Indien”, nelle Indie (“fuggivo l’Europa,  il mio viaggio fu infatti una fuga”, ma qui intesa anche in senso positivo, di ricerca di un mondo alternativo in cui temporaneamente estraniarsi, e anche di un rifiuto di certi tratti caratteristici delle società occidentali).
Mi sono sentito in connessione empatica con quel grande maestro, ma ho pensato anche al viaggio in India di Pasolini, a quello di Jung (all’età di 63 anni), ma anche a Piero Scanziani, a Lanza del Vasto, a Mircea Eliade, ai teosofi, a Merton, a Terzani, a Piero Verni, a Panikkar, a Zimmer, a Joseph Campbell, agli hippies e alla new age, e agli amici “viaggiatori liberi”, e a mia nonna materna, insomma mi sentivo in grande compagnia.

Ora comunque tante cose dovranno sedimentare dentro di me.

(FINE, sigh, sob…)
carlo_pancera@libero.it

Questo mio diario è presente anche in internet su:
www.viaggiareperculture.blogspot.it

Delle guide (LP, Rough, Bradt, Routard) avevo già detto in apertura, qui elenco piuttosto della narrativa. Alcune letture su Sri Lanka:
H. Parker, Village Folk Tales of Ceylon, Luzac &Co., Londra, in tre volumi, 1910,1914, poi ristampato sull’isola da Tisara Prakasakayo Ltd., di Dehiwala, 1971, poi 1982.
Questa grande raccolta ha costituito la fonte per una antologia in trad. it. a cura di Giuseppina Quattrocchi: Favole e leggende di Sri Lanka, edizioni Xenia, Milano, 1993 (194 pagg.); e poi per un’altra antologia (con testi in parte diversi) a cura di  Graziella Englaro, Miti e leggende di Ceylon, A. Mondadori editore, Milano, 1998 (242 pagg.), nella collana Oscar varia, n° 1699, queste sono più che altro della provincia di nord-ovest, e in parte anche dei Vedda, e della provincia occidentale (il libro, e le sue trad. in it., è esaurito e fuori commercio, ma nella versione in inglese di H.Parker si possono leggere alcuni di quei testi in un sito della università di Pittsburgh)
Francesca Lazzarato, La principessa di cristallo, storie, leggende e fiabe della tradizione dello Sri Lanka, A. Mondadori editore, Milano, 2000, 2003 (che è di nuovo anch’essa una antologia in gran parte derivata da Parker)
G. Favaro, M. Olivotto, Il leone e la lepre, Carthusia edizioni,  Milano, 2005 (libriccino illustrato bilingue che è parte del progetto dell’Università cattolica di Milano per i bimbi dello SriLanka nel dopo-guerra).
Dick de Ruiter, Buddhist Folk Tales from Ancient Ceylon, Binkey Kok publisher (Holland), april 2005
Dick de Ruiter, Hindu Folk Tales from Ancient Ceylon, Binkey Kok publ. (Holland), november 2005
Shyam Selvadurai, Funny Boy, trad- it. edizioni Il Saggiatore, 2000 (sulla guerra civile)
Shyam Selvadurai, I giardini di Ceylon, tr. it. Il Saggiatore, 2003 (ambientato negli anni Venti)
M. Ondaatje, Lo spettro di Anil, tr. it. Garzanti editore (dell’autore de Il paziente inglese, anche questo sulla guerra civile)
M. Ondaatje, Aria di famiglia, trad. it. 1997
Romesh Gunesekara, La luna del pesce monaco, tr. it. edizioni Feltrinelli, 1994 (9 racconti brevi)
M. Mohanraj, Il Sapore del curry, tr.it. edizioni Piemme, 2006
Anthea Senaratna, The Mango Tree, stories & sketches, 1997, Ari, Nugegoda, 2008, 2011
Anthea Senaratna, Dancing with the dogs and other stories, Ari, Nugegoda, 2002, 2009


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