Saigon


di Luigi

Quello che ti resta dentro del Vietnam sono gli ampi spazi e la luce, più chiara del solito quasi accecante, le diecine di donne con i tipici cappelli conici nelle risaie, ed il silenzio assoluto privo anche del vento, nella campagna intorno a Saigon (HO CHI MIN CITY).
Da un quarto d’ora dicevo al mio amico Peppe di muoversi  perché l’aereo ci avrebbe lasciati, ma lui continuava a pettinarsi  nella bella camera all’11mo piano del MANDARIN ORIENTAL di Bangkok; e così fu, l’aereo se ne andò, costringendoci a passare 5 ore fra massaggi, barbieri, pedicure, aspettando il prossimo volo.
Arrivammo nel buio e tetro aeroporto di Saigon verso le 8, scendemmo al pianoterra non per una scala normale, ma con la scaletta di un vecchio aereo appoggiata alle pareti. Fuori il piazzale era sterrato ma almeno con un telefono; quelli del CONTINENTALE HOTEL ci vennero a prendere, guidandoci nella spettrale e nera notte di Saigon. Il CONTINENTALE era il più rinomato e coloniale degli hotels, ma c’era poca clientela, poi la mattina seguente scoprii che il CARAVELLE, il REX, il MAJESTIC, gli storici hotels dei corrispondenti americani durante la guerra, erano ormai povere stamberghe ridotte alla fame. Saigon, con poche auto e tante biciclette, sembrava il luogo del day-after, una città fantasma, fatiscente, provvisoria, con strade tutte uguali, simili, piene di meccanici e carrozzieri, piena di cose rotte e da aggiustare, una città piena di miseria e carestia, nel disastro.
Il comunismo aveva vinto ma il Vietnam aveva perso, bastava guardare le persone, poche pesavano più di 50 kg. e nessuno rideva, come se il sorriso costasse caro, come fosse un lusso superfluo. Eppure vicino alla cattedrale cattolica, in mattoni rossi, entrai in un club dove una bella viet cantava la canzone dei ROXETTE, quella di “pretty woman”.
Sulla polverosa strada per CU CHI, a vedere le mitiche gallerie rifugio dei “vietcong”, molti carri carichi di bambù trainati da bufali, poi i bambini intorno a chiedere un dollaro, fra un vecchio elicottero e un carro armato. Tornando, i lumi a petrolio nelle misere abitazioni di campagna e le luci della città da lontano, una città dove con 100 dollari eri un “signore”.
In quella che iniziava al MAJESTIC, di fronte al Saigon river, e che chiamavano la via “degli antiquari”, tutti ti toccavano, ti chiamavano, ti vendevano cartoline e souvenir; tutti storpi, senza un piede o la mano, molti ciechi e disperati, sopravvissuti della guerra.
Per soli 3 dollari comprai un vecchio “zippo”, forse originale di un soldato americano, c’era scritto in inglese “quando morirò andrò sicuramente in paradiso perché all’inferno ho già vissuto”.
1992 penisola indocinese

LUIGI CARDARELLI


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