Kenya


Le lampadine del Kilimanjaro

(racconto di viaggio di Donatella)

Non so… ho pensato spesso a questo viaggio e spesso mi sono chiesta se la descrizione che ne avrei potuto dare fosse stata in grado di imprimere su carta le reali sensazioni che si possono provare guardando quella che ritengo una meraviglia del mondo: il KILIMANJARO.
Poi ho riflettuto: non ci sono parole per descrivere le emozioni. Allora mi son detta: ok!! Io racconto quello che ho vissuto, forse potrò incuriosire qualcuno, forse farò rivivere un viaggio fatto a chi ne è stato partecipe come me, forse .. avrei fatto sognare altri .. curiosi di poter un giorno stare ad ammirare questa immensa montagna africana.

Incominciò per caso:
era la terza volta che tornavo al villaggio masai di Njukini. Un piccolo centro masai, dove la vita sembra essersi fermata ai primi dell’800. Scesa dal piccolo matatu (pulmini locali più disastrati di un mezzo da rottamare)..e da dove riesci a mangiare tanta polvere rossa, la terra della savana, più di quanta tu ne possa immaginare. Ma anche questo era il bello della mia avventura masai. Il mio viaggio africano ripetuto e ogni volta odiato ma anche amato. Ma di questo ne parlerò dopo. Scesi dal matatu, io e mio marito ci dirigemmo subito verso la capanna della mamma. Una famiglia masai ancorata ai principi e alle tradizioni di un tempo. Lui, il masai moderno. Mio marito. Con tanto di cellulare e occhialini alla moda. Con pinocchietto e Nike. Maglietta DG e .. cappellino con visiera. Lo straniero di casa!! Così fu chiamato. Lui …considerato ”madda”..in lingua masai ”pazzo”. Pazzo perché era riuscito a vivere come noi mzungu (bianchi). Lui che ormai mangia pesce (i masai non ne mangiano .. neanche se li paghi..!! provare per credere!!). Insomma. Lui che sembrava avesse cambiato ideologie, modi di fare e di pensare. Ma non sapevamo che lui era e rimarrà per sempre nel suo animo un ”’vero masai”. Hanno le tradizioni nel cuore. Nel cervello. Nell’animo profondo sono, e rimarranno sempre, dei guerrieri. Uomini della savana. Porteranno auto potenti, avranno la patente e sapranno usare il computer. Ma resteranno sempre loro: i masai del Kenya.
Il mio viaggio quindi era programmato verso una totale esperienza masai. La vera Africa. Quella che in fondo sentiamo e conosciamo anche nel nostro paese. Se diciamo masai..diciamo Kenya.
Scesi dal matatu mi si bloccarono anche le gambe, oltre gli occhi. Ero li, davanti a quel monte innevato. Ero davanti al Kilimanjaro. Sentii un brivido e mi scosse il richiamo di mio John (mio marito). Improvvisamente mi resi conto che avevo tutti gli sguardi del paese su di me. C’erano donne e bambini sul ciglio delle baracche (negozietti di generi alimentari..) che mi osservavano come fossi una bestia rara. Lo ero? Mah… non so. So per certo che alcuni bambini, quelli più piccoli, erano intimoriti della mia presenza. Qualcuno addirittura al mio passaggio urlava. Era paura? O cosa? Mi sentivo imbarazzata. Cercavo di essere indifferente agli sguardi, ma ogni qualvolta passavo davanti ad una donna sentivo la parola mzungu volteggiare nell’aria. Parlavano di me. Non certo del mio vestito. Eppure avevo cercato di essere come loro. Avevo indossato un pareo masai. Sopra una maglietta colorata cercava di farmi mescolare ai loro vestiti multicolore. Non sapevo che ero derisa. Il mio abbigliamento li faceva sorridere. Una mzungu con i vestiti masai. Che cosa ridicola. John era sempre più indifferente agli sguardi delle donne. I masai, gli uomini, ci venivano incontro. Qualcuno accennava una parola di inglese. Qualcun altro mi sorrideva e mi porgeva la mano con un semplice Jambo. Altri, curiosi, si fermavano con John. Com’è la vita con una donna bianca? E come bacia? E’ come le nostre donne? Domande su domande. Anche delle più assurde (non posso fare un elenco.. ma immaginate).
Alcuni bambini pian piano cercavano di avvicinarsi. Altri passavano accanto a me e, facendo finta di sbattere, mi toccavano con il gomito. Chissà che sensazione avranno provato. Loro che una bianca non l’avevano mai vista, ora potevano anche toccarla, sfiorarla. E per non raccontare di quelli che cercarono di capire se i miei capelli erano finti o erano extension. Si.. le donne masai hanno tutte i capelli rasati a zero. E io .. i capelli lunghi e pure chiari. Che stranezze.
Ma andiamo al mio Monte!!
Arrivati alla capanna della mamma cominciarono i saluti. I convenevoli che fanno di questa gente i migliori ospiti del mondo. La loro casa è la tua. Tutto si ferma per salutare e far stare al meglio il nuovo ospite arrivato E pensate se l’ospite è un bianco. Anche i vicini arrivano festosi a dare il benvenuto.
Dopo i saluti e il classico bicchiere di Chai (latte e te’) io e John decidemmo di andare a fare un salto in savana. D’altronde con un masai che pericoli si corrono??!! (inconsciente!!). Ci dirigemmo verso la savana. Non potete immaginare a quanti km. ho dovuto camminare. Ma non potete immaginare nemmeno che sensazione si ha nel camminare e incontrare non una bici, non una vettura o una moto, bensì una meravigliosa giraffa. Ne abbiamo incontrate 6 quel giorno. Tutte altissime. Mai viste così alte. E poi gazzelle, poi dik dik, poi zebre, poi gnu, e infine….NO!!..per fortuna non abbiamo incontrato il leone. Mi spaventava, lo ammetto, mi spaventava l’idea di poter incontrare animali pericolosi, ma mi sentivo protetta. Ero con il mio guerriero. L’uomo della savana. Non potevo aver paura. Forse è stato un bene,…… ma vi garantisco che oggi mi rendo conto di quanto io sia stata incosciente. Credo sia l’aria della savana, gli odori, i colori, i suoi rumori. Credo sia tutto un insieme di sensazioni che si provano che riescono a rendere forti e fanno sentire sicuri anche un uomo pauroso. E poi lui era li.. maestoso. Imponente. Davanti a noi. Lui: il Kilimanjaro. Cenammo con i familiari. Donne da una parte e uomini da un altra. Come è cultura masai. Io, la mzungu ospite, potevo saltare da un posto all’altro senza problema. A me era concesso mangiare con gli uomini. Ma una donna masai, una donna circoncisa, non può veder mangiare un uomo masai.
E’ così che infatti gli uomini sono sempre loro che cucinano carne e portano la parte spettante alle donne presso la capanna. Gli altri attendono che tutto sia pronto, lontano dagli occhi indiscreti delle donne (non chiedete perché..in fondo anche loro non sanno dare una spiegazione a tale usanza.. ma è così che si fa!!!) e quando il cibo è pronto… tutti insieme a immergere le mani nella grande pentola. Unico piatto per tutta la compagnia. A me quel giorno fu dato un piatto di riso e carne. Avevano dato a me la sedia d’onore quale ospite d’eccezione. Un grande masso che generalmente veniva offerto al vecchio del gruppo. Ma, quel giorno, anche il vecchio aveva ceduto ad una donna la sua poltrona. Che onore. Terminato il pasto, piano piano i guerrieri sparivano tra gli alberi della savana. A piccoli gruppi si dirigevano verso le loro capanne. E tutti venivano a dare un saluto all’anziano del gruppo… e alla mzungu. Mi sentivo una prima donna, ma vi giuro che allo stesso tempo mi sentivo imbarazzata. Ma quella era la sensazione che speravo di provare. Non era il solito viaggio tra gente comune in posti comuni. Ero tra i masai. Nella loro terra. Ero tra il popolo che ancora oggi riesce a uccidere il leone a mani nude. Brrrr!!!! Che brivido. John di tanto in tanto mi osservava e sorrideva. Sapeva che ero elettrizzata all’idea di essere vicina alla savana. Sapeva che il mio sguardo di tanto in tanto si alzava a guardare lui…!! Sapeva che ero li per quella gente e per il Kilimanjaro. Sentivamo vocii nel buio della notte africana. Sentivamo il rumore del silenzio. Gli animali, anche i più piccoli, sembravano animare al massimo la vita notturna. Si intravedevano piccoli focolai. Erano le capanne vicine. Tutte con un lampioncino a kerosene. Tutte capanne piene di vita. Tutte vite da raccontare, aggiungerei io!!
La sera cominciava a scendere.
Più tardi ci ritrovammo seduti con altri guerrieri davanti ad una capanna. Non c’era energia elettrica, lo sapevo, ma non ci pensavo affatto. La torcia era rimasta dentro il mio zaino. John mi vietava sempre di usarla. Diceva che per lui era meglio senza. Riusciva a distinguere anche una figura in lontananza. Mentre io non vedevo a un centimetro dai miei occhi.
E poi c’era la luce su di noi. Non pensavo che le lampadine erano troppo alte per poter essere viste. Erano le lampadine del Kilimanjaro. Si… milioni e milioni di stelle che sovrastavano il monte. Così tante stelle che tutto il villaggio veniva illuminato come fossero state tante lampadine accese su di esso. Non ci sono parole per descrivere quanto vidi quella sera. Quanto vidi le altre sere. La luna andava a crescere. Mi salutò il giorno che stavo per partire al suo massimo splendore. La luna piena. E le stelle quella sera erano sparite. Si erano messe di lato per dar vita alla luna. Era lei quella sera la grande lampada del Kilimanjaro.
Ero io che con John decisi di guardare e salutare Amboseli. Ciao ….torno a Malindi. Ci vedremo presto. Non si può non tornare in paradiso!!!
Donatella (o Nashipai il mio nuovo nome masai)

Ps: …lo abbiamo rifatto con amici questo viaggio. Ci sono voluti venire anche loro… e ancora oggi sognano le lampadine del Kilimanjaro!!!!!
tellonia@hotmail.com per contattarci…


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