Indocina 2008


Lambratesi in Indocina  (Thailandia, Laos, Cambogia, Malesia)

(diario di viaggio 19 luglio – 30 agosto di Davide M.)

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Itinerario: Thailandia (Bangkok, Koh Chang, Ayutthaia, Pattaya, Koh Samui); Laos (Vientiane, Vang Vieng, Luhang Phrabang), Cambogia (Poipet, Siem Reap, Angkor, Tonlè Sap, Phnom Penh) e Malesia (Kuala Lumpur, Kuala Selangor, Palau Langkawi)

19 luglio- Bangkok
Infine sono arrivato. I mesi scorsi sono sgocciolati trasformandosi in settimane, giorni, qualche ora di aereo stropicciato in seconda classe. Clima all’arrivo: afa insopportabile, smog, insomma, niente di nuovo rispetto ad un normale agosto a Milano. L’autobus dall’aeroporto mi scarica direttamente in Khao San Road, enclave di guest house, negozietti e turiste scollacciate. Prendo una camera modesta alla Sawasdee House, a circa 4 euro a notte. La stanza, con l’indispensabile fan (ventilatore) è ridotta all’essenziale, i bagni sono in comune ma tenuti bene, il panorama non proprio stupendo. Ma mi piace quest’atmosfera da ostello, da centro di smistamento di giovani occidentali in cerca di esotismo. Inoltre il bar ristorante, che si affaccia in Soi Rambutree, è abbastanza caratteristico e movimentato. Mi piace affacciarmi a fumare dalla finestra del corridoio e vedere gente che passeggia nella strada sottostante, anche ad ora tarda.
Bangkok (o Khrung Thep, come la chiama chi vuole atteggiarsi ad esperto dei luoghi, nel qual caso dovrebbe chiamarla col suo vero nome, che è Krung Thep Mahanakhon Amon Rattanakosin Mahinthara Ayuthaya Mahadilok Phop Noppharat Ratchathani Burirom Udomratchaniwet Mahasathan Amon Piman Awatan Sathit Sakkathattiya Witsanukam Prasit) beh, è una metropoli orientale confusa e visionaria, ma tutto sommato coerente, sudata e affollata ma con dignità. Gli abitanti sono generalmente affabili, a volte sconfinano nella molestia nel tentare di vendervi qualcosa, ma in generale si può girare abbastanza tranquillamente. Sembra lontana la sinistra ombra della violenza che di solito si accompagna alla povertà, come ad esempio nelle metropoli sudamericane. Tradizione e progresso in un mix abbagliante, bonzi in fila ad un bancomat, punkabbestia, guidatori di tuk tuk che vi vogliono portare a qualche ping-pong show, sarti indiani, routard di lungo corso. Non è raro vedere gente che dorme per strada, anche (forse soprattutto) di giorno. Il costo della vita è irrisorio per un occidentale.
Oggi mi sono sentito un po’ solo, nonostante in serata abbia conosciuto una coppia di olandesi. Sarà lo spaesamento dell’arrivo. In piena notte, rosolavo nel letto per il caldo e ho deciso di scendere a fare due passi in strada. Ho acquistato da un ambulante un cartoccio di “mix croccante”, composto da locuste, camole, rane, grilli ed uno scarafaggio gigante. Sbocconcello un po’ le cosce delle cavallette, poi lascio perdere. Ho già capito che voler prendere precauzioni igieniche in Thailandia è come voler nuotare senza bagnarsi.

20 luglio- Bangkok
Mi sono svegliato praticamente all’alba, il tempo di una doccia fresca e di una tazza di te e sono uscito. La meta era il tempio enorme di Wat Salamadoi, ma siccome era troppo presto mi sono fatto un giro per un mercato di bancarelle. Odori speziati carichi di un sentore di marcescenza; ero l’unico “falang” nei paraggi. Ho mangiato uno spiedino di credo (spero) pesce, mentre una pantegana passeggiava indisturbata fra i venditori. Dopo il Buddha di smeraldo, mi concedo una scorrazzata in tuk tuk, una cena nella luccicante Patpong, qualche acquisto di ricordini per amici e parenti.

21 luglio – In viaggio verso le isole
Dopo una nottata pressoché insonne, ho fatto una passeggiata mattutina in Khao San. Qui pullulano piccole agenzie di viaggi e tour operator vari. Di solito tento di evitare intermediari, ma quando leggo che per poco più di 5 euro appoggiano le mie scarne chiappe sulla sabbia dell’isola di Koh Chang, mi lascio convincere. La mia guida ne parla bene, sembra un’isola con dei bei posti ancora non interamente sacrificati al turismo di massa. Sul pullman, un viaggio durato 7 ore quando in moto ne avrebbe richieste un paio andando piano, ho conosciuto un altro ragazzo olandese, Koen, che mi sembra abbastanza esperto di queste zone. Infatti vaneggia di arrivare, dopo Koh Chang, direttamente in Cambogia, passando per zone che sulla mia mappa sono segnate a foresta. Dopo un po’ di attesa, ci siamo imbarcati. Inutile dire che la puntualità in Thailandia è molto elastica, ma essendo italiano sono vaccinato. Ora sono sul traghetto, il mare è un tappeto nero, ci si potrebbe camminare sopra. Il tramonto è da cartolina, con immancabile stormo di uccelli che si staglia contro il sole arancione. La solitudine di ieri sembra svanita.

22-28 luglio – Koh Chang
Ieri sera, dopo la traghettata, siamo arrivati sull’isola ed era già buio fitto. Abbiamo buttato gli zaini su un pick-up collettivo e siccome eravamo troppi, io ed un altro ragazzo stavamo aggrappati fuori, sul predellino. Il conducente ha chiesto a tutti dove scendessero, e quando Koen ha detto Lonely Beach sono stato tentato di andarci anch’io, ma non mi son fatto incantare dal nome suggestivo e sono sceso a Khong Phrao. Qui purtroppo c’era solo un resort carissimo (cioè, 40 euro a notte, che in Thailandia sono un’enormità). Mi sono quindi fatto dare un passaggio fino a White Sand Beach, la parte forse più turistica dell’isola, ma anche quella che offre più opportunità di sistemazione. Infatti, nonostante fosse tardi, ho trovato un procacciatore. Aveva la faccia abbastanza inaffidabile, per cui non ho esitato a seguirlo sulla spiaggia nel buio, con lo zaino in spalla. La buona stella mi ha dato una mano, poiché non aveva cattive intenzioni e mi ha portato ad un complesso di palafitte proprio all’estremità settentrionale della spiaggia. La mia camera, che pago 3 euro a notte, è più che in spiaggia, sento la risacca sotto le assi di legno del pavimento. Una zanzariera rattoppata avvolge il letto, e il bagno, a parte l’immancabile scarafaggio, è presentabile. La cosa divertente è che di notte, oltre ad una certa ora, si alza la marea e per arrivare in camera ci si immerge nell’acqua fino a mezza coscia. E’ una sistemazione spartana ma la gente sembra simpatica. Dopo un piatto di pollo e riso, e due birre, sono andato a letto. Ora è l’alba e guardo la poca gente sulla spiaggia, che alla luce del giorno appare lunga almeno un chilometro verso sud, oltre ad un altro chilometro a nord del grande scoglio su cui si aggrappa la mia palafitta. La parte più a settentrione è ancora più intonsa, giusto qualche casetta ben integrata e sabbia, fine e pulita. Qualche farang che cammina ozioso, qualche barca da pesca, delle donne che rovistano in una cesta piena di piccoli gamberetti. La mascotte del bar-palafitta è Beckham, una scimmietta irriverente che ieri sera mi ha divertito moltissimo, distraendomi da alcune poppute clienti.
Oggi sono andato a pescare sugli scogli all’estremità nord. Ho preso in un negozietto il filo, qualche amo (troppo grosso per i pesci da scoglio, ma non ne avevano altri) ed un galleggiante di sughero. Mi sono brasato la pelle e la mattinata è passata in modo spensierato. Come esche usavo chiocciole e qualche vongola che riuscivo a staccare. I pesci si attaccavano, ma essendo gli ami troppo grossi pasteggiavano e se ne andavano. Solo uno, sfortunato, è rimasto attaccato ad una branchia, l’ho messo vivo in un sacchetto d’acqua per farlo vedere agli altri. Sugli scogli c’erano due bambini che pescavano, ma avevano ami ancora più inadatti dei miei. Gliene ho regalato qualcuno, ma non sembravano aver capito, nonostante il mio gesticolare che mimava pesci piccoli ed ami enormi, e mi hanno ringraziato perplessi. Nel primo pomeriggio, riappare all’orizzonte l’olandese, Koen, lo apostrofo Lonely Dutch e gli chiedo come sia andata sulla sua Spiaggia Solitaria. Mi dice che gli hanno fregato 4000 Baht, e che per dormire si è dovuto spalmare di solo Dio sa cosa perché degli insetti non gli davano tregua. Ringrazio il mio sesto senso che mi ha fatto fermare a Sai Khao.
Il mio posto preferito in cui sedere, è un tronco scavato a forma di amaca in cima alle scale dell’ostello. E’ il varco di accesso, mi permette di gustare la mia birra avendo il mare che ondeggia mollemente a due metri da me. Nel cemento della terrazza, sono state attaccate delle conchiglie. Verso le sette, la mia prima tempesta monsonica. In pochi istanti, il cielo ed il mare si uniscono in un grigio uniforme, l’orizzonte è indistinguibile. Scende acqua a secchiate, nel cielo ci sono dei fulmini spettacolari che tento di catturare bruciando metri di pellicola con lunghe esposizioni. Il cielo poi diventa giallo squillante, è il tramonto, il grosso della tempesta si sposta a nord, e i lampi diventano dei fuochi d’artificio lontani e sordi. Il tutto dura all’incirca una mezzora. Dopo aver fatto un bagno sotto la pioggia, ci spostiamo con altri avventori nella palafitta di un inglese, per uno sbargiollo e due chiacchiere. Dopo un po’ fatico a seguire ciò che dicono, soprattutto l’inglese che sbiascica, e me ne vado a letto. Mi piace questa sistemazione selvatica.

Giornata partita male. Mi sono svegliato con un mal di testa e di gola terribile. Devo avere preso la famosa influenza asiatica, quest’anno all’origine. Sono sceso al baretto a prendere una tazza di te, e la sciura Mami mi ha detto che ero bad looking. Infatti mi sono guardato in uno specchio e non avevo una bella cera. Sono ricrollato a letto e mi sono svegliato che la marea era già quasi sotto al balcone, quindi suppongo fossero almeno le 4. Ho abolito qualsiasi cosa mi dica che ore sono. A cena sono sceso per buttare giù qualcosa, l’influenza era al suo culmine più violento e il ragazzo olandese mi ha dato due freesbee di paracetamolo; dopo un paio d’ore il mal di testa e di gola si sono attenuati, ho solo il naso chiuso. In serata siamo andati con due ragazze tedesche a bere qualcosa in un chiringuito, avevo bisogno di distrarmi, e sotto la luna siamo andati a fare il bagno, l’acqua era spettacolare. Sotto il pelo dell’acqua, i nostri movimenti lasciavano scie luminose. Dalle nostre mani si sprigionavano scintille di luce, tracciavamo arabeschi attorno a noi. Luzy diceva che non si poteva trattare di bolle d’aria, poiché le mani erano già sott’acqua. Un fenomeno che ci hanno spiegato solo dopo, ridendo; “Ma come, non avete visto The Beach?”. Si tratta di una specie di plancton bioluminescente. In quel momento per noi tre era un’altra piccola magia.

I giorni trascorrono pigramente, passo ore oziando fra la spiaggia ed il bar, non posso chiedere di meglio. Sto velocemente rimpiazzando l’italiano, mi capita spesso di pensare in inglese. Ma a dire il vero, non ho molta voglia di intavolare grandi discorsi, mi sto dedicando al cazzeggio a livelli di eccellenza. Stamattina un’aquila enorme volteggiava sulla spiaggia. Il vecchio, il grande capo della guesthouse qui, si aggira soltanto con un sarong e gli occhiali da sole, sembra un cazzo di Ray Charles thailandese. Ogni tanto mi lancia qualche sguardo di intesa, un lampo sopra le lenti nere, come a dire: io si che so stare al mondo. E non gli si può dare torto. Anche io guardo arrivare nuovi ospiti, sotto i loro zainoni, stupefatti e con l’acqua fino a metà coscia. Hanno la faccia che avevo quando sono arrivato io. Ora mi sento integrato, come se ci fossi da un mese, conosco le stradine e la gente, mi sento già un po’ a casa.

Giornata in scooter, visita alle cascate, pigrizia diffusa. La ragazza canadese mi sorride, tutti sorridono. Di buon’ora noleggio una motoretta, che dev’essere una di quelle cilindrate impensabili che fanno in Cina, tipo 104. Il tipo mi dà anche un casco, che però deve essere omologato solo per giocare a scacchi, visto che a occhio e croce è di polistirolo. Decido quindi di godermi il vento fra i capelli. Il mio giro dell’isola parte in senso antiorario, nel versante orientale. Ma presto mi accorgo che questo lato ha proprio poco da offrire, una costa brulla e inospitale, qualche colata di cemento, qualche chioschetto allestito per i pochi che passano. Torno verso il lato occidentale. Qui gli scenari sono davvero notevoli, spiagge tranquille, poca gente. Arrivo fino all’estremo sud dell’isola, alla laguna protetta, dove devo lasciare il motorino per poter accedere, mi danno una bicicletta. La tenuta è grande, scenografie oniriche. Dev’essere bassa stagione, o qualcosa di simile, perché sembro esserci solo io e qualche vecchio miliardario della Florida. Il parco è stupendo e tenuto molto bene, qualche giardiniere pota i fiori, il cameriere del bar mi porta un pezzo di torta e una bibita “compresa nel prezzo”. C’è una specie di estuario di un fiume, e vecchi barconi (direi stile vaporiera del Mississipi) ormeggiati fungono da alloggi. Il tutto in un insieme armonico, non pacchiano. Nell’acqua salmastra nuotano pesci gatto grossi come foche. E poi la spiaggia. Oltre ad essere immacolata, orlata di palme spioventi, accarezzata dal vento tiepido, ha una caratteristica rara. E’ deserta. In lontananza alcune isole della Cambogia credo. Dopo un paio d’ore a pensare al destino del mondo sotto una palma, mi avventuro verso delle cascate all’interno dell’isola. Il sentiero è nelle vicinanze dell’ingresso del parco, c’è una sbarra arrugginita. Io da bravo italiano mi avventuro nella foresta in ciabatte, ma per il sentiero sono consigliabili delle scarpette con buona presa, o se si è uomini di mondo a piedi nudi, poiché il terreno non è sempre facile. Dopo un po’ arrivo alla cascata, ed è una vera oasi in cui rinfrescarsi e levarsi il sale dalla pelle. Ci sono solo io e due ragazzi, che dicono di essere svizzeri, ma che subito se ne vanno lasciandomi solo immerso nella quiete. L’acqua è limpida ed ha la temperatura perfetta che a casa con la doccia non ottengo mai. Ma un rumore turba questo scenario idilliaco: è il mio stomaco che mi ricorda che è ora di pranzo. Salto di nuovo in sella ed arrivo a Bang Bao, villaggio dei pescatori che sorge su tipiche palafitte. In pratica il paese è un pontile, attorno a cui si aggrappano case, negozietti, ristoranti ecc. In particolare i ristoranti possiedono vasche enormi in cui nuota qualsiasi cosa ingeribile da un essere umano. Crostacei, molluschi, pesci, alcuni veramente particolari, come il famoso limulo, un invertebrato che esiste da 500 milioni di anni. Decido di non contribuire ad estinguerlo ed opto per una specie di sarago gigante e multicolore, in un piatto tempestato di gamberi, capesante e contorni vari. Anche in questo ristorante di turisti ce n’è ben pochi, solo una famiglia di indiani ad un tavolo distante, impegnati come me ad affondare le fauci nei piatti. Un cameriere staziona vicino al mio tavolo, pronto ad ogni mia esigenza. Mi mette un po’ in soggezione, e quando mi riempie il bicchiere d’acqua, gli chiedo gentilmente di lasciar fare a me. Mi piace mangiare tranquillo, senza nessuno che invada uno spazio di almeno un metro attorno ai miei gamberoni. Anche il vino è buono, e il conto, di circa una quindicina d’euro, è ben oltre l’onestà. Soddisfatto e satollo, mi avvio verso un’altra baia a metà isola, di cui non ricordo il nome. Questo sembra un vero rifugio per turisti occidentali snob annoiati e ciondoloni, mi bevo una fanta, giusto il tempo di digerire il sarago imperiale. In serata ce la siamo spassata, e abbiamo bevuto anche un po’. Un dopocena in pieno relax al Sabay Bar, con Meika e gli altri, a fumare il narghilè guardando le stelle e l’ozioso moto della marea. Sono di ottimo umore, a parte qualche strascico di influenza. La serata si conclude con Koen e Luzy che sboccano sulla spiaggia, mentre io, rinvigorito per la ritrovata salute, sprizzo energia da tutti i pori.

Oggi, tanto per cambiare, non sto facendo niente. E’ giusto che sia così. Questa spiaggia, questo clima, invitano ad una contemplazione senza orari ne scadenze. Faccio due tiri a pallone con dei ragazzi thai, catturo con un sacchettino di plastica una piccola medusa e la regalo a un bambino, figlio di un altro olandese, che la guarda meravigliato. Il padre, labbro leporino e faccia da pirata fiammingo, mi racconta che quando era giovane si è girato il Sudamerica da solo, e condisce gli aneddoti con una risata sibilante. Mi piace starlo ad ascoltare o raccontargli i miei viaggi, lui ogni tanto richiama il figlio che inizia a vagare lontano con la sua medusa. Il tempo sgocciola, mi accorgo di calcolarlo guardando il sole, o a che altezza sia arrivata la marea. All’imbrunire l’acqua arriva ai piedi della mia palafitta. Oggi Meika e Luzy sono partite.

In mattinata presto siamo partiti per una battuta di pesca e snorkeling, un tragitto chiamato cinque isole. Sono andato con i tre francesi, Simon, Olivier ed Annabel; non parlo benissimo francese, ma con un po’ d’inglese e un po’ di mimica ci capiamo e andiamo subito d’accordo. All’imbarco eravamo un po’ delusi, la barca era molto turistica. Ci siamo divertiti tuffandoci dal parapetto con degli orientali, forse cinesi ricchi, che ci scattano le foto stupefatti da tanta tamarraggine mediterranea. Ma appena raggiunta un’isola, ci siamo messi maschera e boccaglio e ci siamo lasciati alle spalle le furgonate di orientali. I quali, devo dire uno spettacolo abbastanza triste, formavano delle specie di catene coi giubbotti salvagente e si facevano trainare da una barchetta di supporto, tenendo la testa sott’acqua col boccaglio. Io e i francesi ci avventuriamo nella circumnavigazione a nuoto dell’isola. Lo snorkeling ci dà grande soddisfazione: é la prima vera barriera corallina che vedo, ed è a mio avviso spettacolare. Coralli di ogni colore, anemoni di mare, stelle marine grosse come angurie. L’entusiasmo non è esagerato, per essere la prima volta. Mi diverto ad inventare i nomi dei pesci che vedo: pesce termometro, pesce sottomarino marrone, pesce sbruffone ecc. In un punto, dove la corrente è abbastanza forte, un’onda mi sbatte contro un corallo enorme e ovviamente mi taglio. Me ne accorgo solo quando vedo che dei pesci mi stanno assaggiando le caviglie, in una nuvoletta rossa. Sulla barca, memore di quanto sia infida e infettabile una ferita da corallo, mi verso sopra del brandy che Olivier gentilmente mi offre. Dopo avere guardato ben bene il fondale ed ogni suo ospite, ci dedichiamo alla pesca dalla barca. Anche qui, sembra di pescare alle vasche del ristorante. Ci sono talmente tanti pesci che alcuni adottano una singolare tecnica di pesca. Montano due ami grossi in fondo alla lenza, a circa 5 centimetri di distanza. A quello superiore attaccano l’esca, di solito un tentacolo di seppia o simili, mentre quello sotto rimane vuoto, con i tre uncini minacciosi. Poi cosa fanno, pasturano con del riso, ed arrivano i pesci. Quelli, quando vedono l’esca, non gli pare vera e ci si abboffano talmente in tanti che basta strattonare la lenza per agganciarne qualcuno con l’amo vuoto sotto. Prendo tre pesci di circa una trentina di centimetri, ed un meraviglioso pesce turchese si stacca dall’amo quando lo vedevo già nel secchio. L’avrei liberato, tanto era bello e probabilmente non commestibile. Gli altri tre però sono buoni, anche i francesi tirano su bene, e in serata grigliamo tutto sulla spiaggia. Serata con birretta e biliardo.

Mi sono svegliato di soprassalto, per delle voci che arrivavano dalla spiaggia. Ho deciso, oggi lascio Koh Chang. Sono triste, devo ammetterlo, è una decisione che mi costa ma non posso passare tutto il tempo su un’isola, per quanto felice. Saluto Koen, Sao, Da e tutti gli altri con malinconia, ci spiace perderci per strada ma ognuno ha il suo viaggio da fare.
Ci sono un tedesco, un francese ed un italiano che devono arrivare al porto. Il tedesco ferma un songthaew (taxi collettivo) il quale gli chiede 150 baht a testa. Il francese, che parla un po’ di thai, ne ferma un altro e riesce a cavare 100. L’italiano spegne la sua sigaretta, ferma il primo pick-up che va verso nord ed ottiene un passaggio per tutti.
Arriverò nel tardo pomeriggio a Bangkok, dove prenderò un treno e, secondo i piani, domani mattina dovrei essere a Nong Khai, alla frontiera con il Laos.

29 luglio – Laos – Vientiane
Dopo una decina di giorni nelle acque cristalline di Koh Chang, il mio spirito guida mi spinge verso nord, e decido di intraprendere il non facile tragitto verso il Laos. Attraverserò la frontiera dalla parte di Nong Khai. Un’alba terribilmente meravigliosa attraversa le sbarre del finestrino, mentre sono nel cesso del treno a fumarmi una sigaretta. Ho dormito relativamente bene nella cuccetta, mi sento abbastanza riposato. I tagli che mi sono fatto sui coralli sembra stiano cicatrizzando bene, non voglio che facciano infezione come in Sudafrica. Fra un po’ dovremmo essere al confine laotiano.
L’ingresso nel Paese è un po’ uno sbattimento. Non avendolo fatto con nessuna agenzia, ho passato circa un’ora fra bolli, code, firme ecc. Tassa di ingresso di 35 dollari, che varia a seconda della nazionalità di provenienza secondo parametri difficili da capire. Cambio subito 200 dollari, mi danno qualcosa come due milioni di kip, un malloppo voluminoso di banconote. Oltre frontiera, ho preso un tuktuk-furgonato. Fare capire all’autista dove fosse la Syri guesthouse è stata un’impresa, gli mostravo la cartina ma non dava cenni di orientamento, neanche minimi. Non capiva una sola parola ne di inglese, ne di francese, italiano neanche ho provato. Alla fine ce l’ho fatta, fino a Vientiane, durata del tragitto circa tre quarti d’ora. Pochi sanno che Vientiane significa “città del sandalo”. Alla Syri mi danno una camera al primo piano, arredata con mobili coloniali tarlati. La guesthouse è dietro lo stadio, non lontano dal centro. Passo il pomeriggio in bicicletta, gentilmente messa a disposizione dalla sciura in reception. Devo farmi aiutare da lei per togliere il complicato cavalletto. La città non è grande, ma alcune salite sotto il sole cocente sono massacranti. Arrivo madido in cima ad una strada e mi trovo proprio davanti al Patuxai, una specie di arco di trionfo nerastro, costruito per festeggiare l’indipendenza della Francia. Non lontano c’è il meraviglioso Pha That Luang, uno stupa eccezionale completamente ricoperto di lamina dorata che scintilla nel sole tropicale. All’interno, due giovani monaci scambiano piacevolmente due chiacchiere, dicono che devono perfezionare il loro inglese. Vogliono che racconti loro dell’Italia, ma da come ne parlano ho il sospetto che non abbiano la minima idea di dove si trovi. Fuori dal tempio, trovo una gomma sgonfia, e guarda caso uno zelante guidatore di tuk tuk si offre di riportarmi indietro. Ho la vaga sensazione di essere vittima di una piccola “truffa”, ma il costo del passaggio è talmente irrisorio che decido di non pensarci. Qui in giro mi guardano con curiosità, non ci sono molti farang in giro. Solo i monaci parlano qualcosa di inglese, con gli altri mi esprimo a gesti o come riesco. Mi addentro, dopo avere legato la bici, in un mercato all’aperto. Le tende che lo ricoprono sono talmente basse che sono continuamente obbligato a chinare la testa, suscitando l’ilarità composta di alcune venditrici. Si vende di tutto, ma è la zona della carne a suscitare stupore e meraviglia. Ci sono ratti secchi, altri che sembrano cani scuoiati, la carne spesso si vede a fatica sotto i nugoli di mosche. Più tardi, mentre mi rilasso nel parco di un tempio all’ombra di alberi giganteschi, due donne, madre e figlia, mi offrono delle specie di involtini di mais avvolti in foglie di banano. Tentiamo di comunicare ma l’impresa è ardua. Dopo un po’ se ne vanno, salutandomi sorridenti. L’atmosfera di Vientiane è molto rilassata, coloniale e pigra.
Alla sera, ceno in un ristorante francese pretenzioso in piazza Nam Phou, scambiando due chiacchiere con un panciuto ed ilare canadese che è qui per lavoro. Questa piazza dovrebbe essere il cuore pulsante della città, ma di vita sembra essercene ben poca. Durante la notte vengo molestato dalle zanzare e sono costretto a farmi una doccia di Autan. Domani compio 29 anni.

30 luglio – verso Vang Vieng
E’ l’alba, fuori è ancora buio. Non sono sicuro se si tratti di sogno o realtà, ma sento una voce femminile che grida Hallo! Hallo! Quando mi sveglio completamente, mi affaccio dalla finestra e sento questa ragazza che racconta al gestore della guesthouse di essere stata derubata. E’ inglese ma dai tratti orientali. In pratica dei ragazzi in moto hanno offerto a lei ed al suo ragazzo un passaggio. Lei ha messo il suo marsupio nel cesto sul manubrio e non appena è scesa, quello è ripartito a tutta birra. Poverina, ha perso passaporto, soldi, cellulare, e non sa come fare; non fa altro che ripetere “I can’t believe it”, anche perché dice che è stata anche in Cambogia e Birmania e non pensava che una cosa simile le capitasse nel pacato Lao. Dice ” a lot of money” e un sacco di sterline sono un patrimonio in questo Paese, penso che il motociclista ci vivrà per un anno almeno. Vabbè, già che sono sveglio mi faccio una doccia e vado a cercare qualcosa da mangiare. Mentre passeggio penso che in città ci sia ancora poco da vedere, e decido di proseguire verso nord. In una agenzia di autobus compro il biglietto.
La giornata, poi, è decisamente movimentata. Mi sono sparato tre ore di pullman per arrivare a Vang Vieng, e lottando duramente ho ottenuto un posto onesto, quello in mezzo in fondo, dove posso allungare le gambe. La strada per il primo centinaio di chilometri si snoda fra dolci pianure, lievi declivi e risaie. Qualche edificio coloniale, chioschetti ai lati della strada, laghetti in cui si rinfrescano dei bufali. Un contorno suggestivo, che diventa presto montagnoso, il bus tossicchia lungo le salite. La sensazione di lasciarsi alle spalle la civiltà assieme all’assonnata Vientiane. A colpo d’occhio sembra un paesaggio estivo alpino, solo le case su palafitte e le risaie, assieme alla vegetazione, mi ricordano di essere in Indocina. Quando passiamo su un ponte scricchiolante, io ed un ragazzo tedesco ci guardiamo e facciamo il segno della croce, sorridendo poi per il pericolo scampato.
Arriviamo a Vang Vieng, che è un borgo appena poco più grosso di quelli che abbiamo attraversato venendo. Ha due strade principali, di cui una si snoda sul fiume. Prendo una camera al Thavisak Guesthouse per 5 dollari, pulita e con ventilatore. Il caso vuole che oggi compio 29 anni e mi diano la stanza 29. Sul soffitto si rincorrono decine di gechi. Mi aggrego ad una compagnia di australiani, sebbene spesso il loro inglese non sia proprio accademico, e giriamo la città. Quello che in controluce sembra un grosso pipistrello in realtà è.. una farfalla! Si avvicina a me fin quasi a farsi toccare, poi vola via, verso il fiume. Il pranzo si trasforma presto in una festa non stop per il mio compleanno, e mi emoziono un po’ quando tutta la compagnia, che si è ingrossata fino ad una ventina di persone, mi regala una torcia per la testa e mi canta “tanti auguri” in quasi-italiano. In serata, un po’ brilli, andiamo a rilassarci sui comodi cuscini e tappeti di un baretto sulla strada principale, gli australiani si scatenano e ordinano special bread, tè ai funghi e altre pietanze vagamente allucinogene.

31 luglio – Vang Vieng
Giornata all’insegna dell’ozio semi-avventuroso. Dopo una colazione sostanziosa, ci siamo organizzati per il tubing. In pratica, un furgoncino ci porta sulle rive del fiume, circa 5 chilometri a monte della cittadina. Lì ci danno delle camere d’aria di pullman e ci buttano in acqua. Lungo la discesa, diversi baretti di bambù lungo le rive, aggrappati ai margini, in cui non manchiamo di fermarci e ordinare “lam en cok” , una sorta di cuba libre fatto con un rhum terrificante. Ogni stop è un secchiello di questa bevanda, per cui dopo un po’ la visione della scena si fa vagamente confusa. Ci sono anche dei rudimentali alti trampolini e funi, che permettono di fare tuffi spettacolari nel Nam Song. Ci buttiamo più e più volte nel placido fiume marrone, che è in piena e dobbiamo affrontare solo un paio di rapide ridicole. Mentre ci lasciamo dolcemente cullare dalla corrente, ci scambiamo brindisi e tentiamo acrobazie sugli pneumatici; sono l’unico che riesce a mettercisi in piedi, in una sorta di parodia del surf, e mantengo alto l’onore italico nel mondo. La ragazza inglese mi dice “What are you doing crazy italian!”. Posha, il cui succinto costumino è inaffrontabile senza mancamenti, dice che con la bottiglietta di rhum sembro un pirata. La montagna alla nostra destra, a picco e ricoperta di vegetazione, incombe solennemente su di noi. Mi spiace di non aver portato con me la macchina fotografica, per ovvi motivi, ma conservo dei ricordi meravigliosi della giornata. Arriviamo in città quando il sole sta ormai tramontando, spiaggiamo su un argine liberato da arbusti e bambù. Mentre torniamo alla base, sbircio dentro qualche casetta. Le famiglie mangiano su un tappeto per terra, guardando ipnotizzati la tv. Anche nei bar, i giovani avventurieri farang siedono su molli divani e guardano puntate dei Griffin. Mi chiedo che senso abbia venire in Lao per vedere la televisione.
Serata solitaria in un baretto sul Nam Song, la cui presenza è invisibile nel buio ma imponente; decido che il fiume si chiama Song perchè quando scorre sembra che canti.

1 Agosto – Luhang Phrabang
Partenza iperpiovosa verso Luhang Phrabang, cielo plumbeo. Il viaggio in minibus, di qualche centinaio di chilometri, attraversa montagne lussureggianti di verde ed incoronate da basse nuvole. Diversi villaggi, veramente rustici e di massimo una ventina di case, con sciami di bambini, vacche, oche eccetera. Sui terrazzamenti, la gente coltiva il riso in maniera tradizionale, con il tipico cappello di paglia a cono e la schiena ricurva verso l’acqua.
Luhang Phrabang confonde le idee, disorienta, girandola in bici mi ci perdo piacevolmente. In verità avrei voluto noleggiare un motorino, ma deve essere successo qualche casino in passato perché mi dicono che ai farang non li noleggiano più. LP E’ forse l’unica città in Lao in cui i turisti si notano, ristorantini e mercatini hanno un aspetto più moderno rispetto al resto del Paese. Mi inerpico per i 330 scalini che portano al That Wat Chomsi. Dall’alto del monte Phousi si può cogliere una visione d’insieme della città, che è su una lingua di terra alla confluenza del Mekong e del Nam Khane. Poi mi dedico a fare un po’ di compere, fra i prodotti più tipici ci sono delle larghe sciarpe di seta che sono stupende. Di solito non mi abbandono a shopping sfrenati, ma ci sono diversi oggetti notevoli ed è un piacere mercanteggiare pacatamente per comprarli. Compro anche un lungo portapenne di pietra intagliata, ne avevo già visti di simili a Vientiane e mi ero mangiato le mani per non averne preso uno.
Più tardi rincontro Posha e i suoi due amici inglesi, ci ripromettiamo di vederci più tardi al Lao Lao Garden. Qui ceniamo e ci concediamo una bottiglia di vino bianco, che, pur essendo io abituato a bere vino, mi dà una mazzata allucinante, io e Posha siamo più che brilli. Fuori, ci avvicina un ragazzo per venderci dell’erba, che gentilmente rifiutiamo.

2 agosto – Luhang Phrabang
Stamattina mi sono svegliato un po’ rintronato per via dei bagordi di ieri, con piacevoli seppur vaghi ricordi della serata. Decido di dedicare la giornata alle escursioni nei paraggi. Contratto 25 dollari (una cifra probabilmente enorme) per un minipulmino ed una guida che mi accompagnerà tutto il giorno. Prima andiamo al villaggio di Ban Xanhai, famoso per la preparazione artigianale di liquore di riso, ed altra oggettistica più tradizionale. Bottiglie di liquore di riso con serpenti, scorpioni e millepiedi. Poi, passando per una strada disastrosa, arriviamo al villaggio di Pak Ou; da qui traghettiamo con una piroga sull’altro versante del Mekong, per andare a vedere le sacre grotte in cui un tempo vivevano degli eremiti. Saliamo diverse scalinate. Dei bambini vendono degli uccellini in delle gabbiette di vimini, ripetono “uan dola! uan dola!” Nel buio di queste grotte l’atmosfera è surreale, i fasci di luce delle torce illuminano le migliaia di statuette di Buddha tutte diverse lasciate dai pellegrini. Dopo il pranzetto di pesce sul Mekong, la mia guida, che si chiama Dui e parla poco inglese, mi chiede se io voglia una ragazza lao per fare bum-bum. Declino cortesemente la sua offerta, e lui fortunatamente non insiste. Nel pomeriggio passeggio pigramente per traverse poco affollate di LP, tentando di rubare qua e là qualche attimo di pace e qualche scorcio suggestivo. Teli arancioni lasciati ad asciugare nel giardino di un tempio, anziani che chiacchierano seduti sui parapetti lungo il fiume, bambini che giocano a rincorrersi.

3 agosto – verso Vientiane
Mi sveglio presto, all’alba, senza che mi vengano a chiamare. Ho il pullman per Vientiane alle 8, e ne approfitto per fare un ultimo giro della città. I monaci sfilano in processione per chiedere l’elemosina, li sento tintinnare e faccio appena in tempo ad affacciarmi e a vedere la colonna arancione. Quando scendo, però, sono già scomparsi chissà dove. Le strade iniziano a prendere vita, ronzanti di tuk tuk e di gente. Vado in un mercatino di strada dove vendono alimenti, tutto su semplici stuoie per terra. Le donne agitano grossi ventagli per scacciare le mosche, ma non sembra funzionare molto; mi guardano e ridacchiano, falang falang, mentre altri sono del tutto impassibili alla mia presenza incongrua. Spezie, rane a mazzetti legate per le zampe, anguille e giganteschi pesci gatto ancora vivi che si dimenano nelle ceste. E poi dei bozzoli che sembrano frutti, la venditrice li sbuccia e dentro ci sono delle enormi larve bianche che si agitano mollemente per la luce improvvisa.
L’autobus parte in orario; il viaggio massacrante, di fianco alla graziosa Nu, è addolcito da paesaggi splendidi, forse più che all’andata. La strada è tutta una curva, la vecchia che siede due posti davanti a noi sbocca e sputa dal finestrino ogni 10 minuti. Nu vorrebbe scambiare due chiacchiere, ma il suo inglese ed il mio stordimento ci impediscono di andare oltre poche frasi di cortesia. Mi offre una cicca. Poi le montagne lasciano posto alla pianura e ben presto siamo nella capitale, più caotica di quanto la ricordassi. Anche l’autista. che vedo sbadigliare nello specchietto, accelera un po’ non essendoci più precipizi ai lati della strada. All’arrivo, saluto Nu e prendo un tuk-tuk per 7 dollari (prezzo farang) fino alla frontiera, in cui sbrigo velocemente le formalità, e corro in stazione. Acchiappo appena in tempo l’ultimo treno per Bangkok. Mangio riso scotto e maiale dolce che ho preso in stazione mentre il treno era già praticamente in movimento. Il convoglio, che purtroppo non ha cuccette ma solo rigide panche, si tuffa nella notte, direzione sud. Mi adatterò a dormire così, anche perché non ho alternative, tenendomi abbracciato ben stretto al mio zaino che contiene le mie cose, per evitare furti. che dicono essere non rari in questi viaggi notturni.

Riassumo brevemente gli ultimi giorni. Dopo il viaggio della speranza, dal confine del Laos fino a Bangkok, incontro Marco al Suk 11, che dicono essere uno degli ostelli più belli della capitale. In effetti ad una prima occhiata non tradisce le aspettative, ma purtroppo è pieno, per cui decidiamo di ripiegare sulla Sawasdee House. Ci danno una doppia senza pretese, che si affaccia sul macello ininterrotto della strada sottostante. Ieri lo abbiamo passato girando la città in lungo e in largo, con tuktuk, barca e skytrain, e soprattutto facendo shopping (abbiamo ribattezzato l’artigianato locale “buddhanate”). Nei canali, fra ville sontuose e palafitte marcescenti, gli incontri interessanti non mancano. La vita, lontana dalle arterie d’asfalto, è molto più tranquilla. Uomini che pescano pazientemente, bambini che fanno il bagno nelle acque marroni dei canali, tutti salutano e sorridono. Varani di grosse dimensioni che si arrampicano pigramente sugli argini, le immancabili effigi del re in ogni dove.
Ieri sera siamo andati in Patpong a fare un po’ di vasche fra le bancarelle, e siamo entrati a dare un’occhiata in uno dei famosi go-go bar, in cui le prostitute ballano e adescano clienti. Non voglio fare moralismi, ma la situazione non era molto piccante. Le ragazze si agitano annoiatamente, un numero attaccato al costume le identifica. Forse hanno subodorato che da noi caveranno ben poco, perché non veniamo importunati più di tanto. Offriamo da bere ad un paio di esse per scambiare due chiacchiere. Un grosso orientale ne ha due incollate addosso, noi guardiamo incuriositi le ardimentose manovre sul palco. Le donne si esibiscono con palline da ping-pong, cerbottane, lamette; il come lo lascio all’immaginazione. Qui la prostituzione non è ad esclusivo appannaggio di povere emarginate, ma coinvolge ragazze di tutti i ceti sociali, che la svolgono come un lavoro qualsiasi. Passato lo stupore iniziale per lo show, torniamo fuori fra le bancarelle.
Stamattina Marco si è svegliato presto per andare a prendere Andrea all’aeroporto. Poi siamo partiti in battuta per andare ad Ayutthaya. La città è molto più tranquilla di Bkk, abbiamo fatto un pranzo luculliano e conosciuto due ragazze americane, a cui diamo appuntamento stasera alle 7 al Tony, uno dei pochi locali in città. Di vita comunque ce n’è ben poca, per fortuna veniamo salvati dalla depressione incombente da un prestigiatore di strada che ci delizia con mille giochini divertentissimi.

7 agosto – Ayutthaya
La mattina noleggiamo due scooter e vagabondiamo per la città, fra templi in disfacimento, elefanti, bande musicali con le giacche viola ed enormi Buddha di pietra. Ai piedi di uno di essi svolgiamo il rituale, che consiste nell’attaccare una lamina dorata alla pietra e accendere una candela. Non so se sia contemplato anche la realizzazione di un piccolo desiderio, o se quella di chiedere favori sia un’usanza solo occidentale. Sono poco ferrato sulle usanze religiose, esprimo quindi una richiesta non molto complicata da esaudire. A ora di pranzo abbiamo praticamente visto tutta la città, che a dire il vero ci aspettavamo un po’ più caratteristica. Siamo indecisi, vorremmo andare a Lopburi ma temiamo che, una volta visti i tre templi e le famose scimmie, si riveli una città un po’ malinconica come qui. Dopo una pacata discussione (i soliti piatti che volano e sedie ribaltate), decidiamo di andare verso il mare. Questo perché Luca arriva fra tre giorni e non avremmo il tempo materiale di vedere qualcosa di più lontano. Pattaya è la località balneare più vicina, la guida ne parla come di una specie di girone di perdizione e lussuria. E andiamolo a vedere, sto girone infernale! Torniamo quindi a Bangkok in treno, e qui prendiamo un pulmino assieme ad un gruppo di ragazzi israeliani e due olandesi. Arriviamo a Pattaya in serata. La Walking Street è una specie di rutilante succursale di Las Vegas. Ristoranti, negozi e go-go bar immensi. Qui questi posti sono ancora più sfacciati, sono in pratica dei mercati a cielo aperto, le ragazze urlano come matte per farci avvicinare. Gridano ” Halò – sexyboy – aliugoing – velcom – massage!” in una sorta di loop ipnotico. Questi posti, lasciata un attimo in disparte la facile morale, sono senz’altro caratteristici, se non altro per farsi due risate. Non c’è sfruttamento, forse meno rispetto a un ragazzo occidentale che lavora in un call-center, e comunque non sta a noi giudicare le usanze di questo popolo, ne abbiamo abbastanza di croci da portare già col nostro. Vorremmo portare Andrea a vedere uno dei famosi ping-pong show, ma il locale sta chiudendo. I ristoranti vendono aragoste di dimensioni spropositate, sembrano cuccioli di alano. Ne facciamo pesare una per curiosità, è quasi quattro chili e lunga più di un avambraccio. Ecco, sono grosse come le pantegane che corrono all’ingresso della via, dove ci sono anche alcune facce poco raccomandabili. Finiamo la serata in spiaggia, dove conosciamo Fabrizio, che diventa subito il nostro idolo per le sue rivelazioni illuminanti che diventeranno hit della vacanza (“Ragassi (perchè ha l’accento emiliano), non fidatevi, sembrano brave ragasse ma son tute batone.. E MA NON CAPISCO!) Alla quinta volta che viene in Thailandia, sembra aver finalmente appurato che molte ragazze qui non sono disinteressate.

8 agosto – Pattaya
La giornata la passiamo vagando spensierati per la città, percorriamo il lungomare fino all’estremità nord. Il mare non è granché, decidiamo quindi di fare qualche compera per passarci via. Prendo un paio di pantaloni perché quelli che indosso ormai non li metterebbe neanche un minatore. Si vendono anche innumerevoli patacche, rolex finti non male, e gioielli di scarsa qualità. Particolarmente molesti sono i sarti indiani, che insistono per farci dei vestiti su misura. Con uno, purtroppo, vengo quasi alle mani perché praticamente mi strattona per trascinarmi dentro il suo negozio. La serata si conclude con un ladyboy (o katoy.. un travone, per capirci) che nel bel mezzo della Walking, prima prova ad adescare Marco, e poi tira una cinghiata ad Andrea che gli dice di lasciar perdere. La situazione è talmente surreale che ci allontaniamo frettolosamente, la reazione immediata sarebbe quella di riempirlo di botte ma il suo aspetto femminile ci disorienta, e decidiamo di tornare in hotel.

10-11 agosto – Bangkok
Siamo tornati a Bkk per recuperare gli ultimi due compagni di viaggio che ancora mancano all’appello, Luca e Nando. La città ora mi appare insopportabile, l’inquinamento mischiato agli odori agrodolci del cibo, il clima soffocante che non dà tregua, assieme all’insistenza di alcuni venditori. Nando lo incontriamo in un hotel in una traversa di Sukhumvit. Dietro suo consiglio, decidiamo di andare al “the Club”, uno dei pochi locali che tiene aperto fino all’alba. Molti farang, alcune ragazze thai apparentemente senza secondi fini, musica house pompata al limite della sopportazione, aria condizionata tipo cella frigorifera. Dopo un po’, vuoi per il gelo vuoi per l’alcool, ho un principio di collasso e mi siedo al divanetto all’ingresso ad aspettare gli altri. Siamo brilli per non dire ubriachi. La serata si conclude con una marea di baht spesi e il guidatore pazzo di tuktuk, che ci delizia impennando il suo mezzo di un metro buono e rischiando il ribaltamento. Quando arriviamo integri alla guesthouse, gli battiamo le mani e gli lasciamo una buona mancia.

Oggi è stata la giornata dedicata alle compere, nel gigantesco mercato di Mo-Chi (spero di averlo trascritto giusto). Saranno diecimila bancarelle divise per settore, vestiti, artigianato ecc. Se avessi i soldi comprerei la metà della roba che vedo, begli oggetti anche da regalare. Per cui mi accontento di girare e guardare. Purtroppo non riesco a godermelo fino in fondo. Esattamente come Marco in Sudafrica, dopo circa 3 settimane di assunzione, il Lariam (profilassi antimalarica che sto facendo per Lao e Cambogia) dà luogo ai suoi terribili effetti collaterali. Premetto che sono abbastanza forte, ho affrontato Messico e Marocco e altri Paesi “a rischio” senza avere il minimo turbamento interno, diciamo. Invece, dopo un po’ che ci inoltriamo fra le merci, inizio ad avvertire forti capogiri, nausea, pressione a terra. Dico agli altri di continuare pure il loro giro, mentre io mi fermo ad un baretto all’ombra. Pur non avendo mangiato praticamente nulla, vomito l’anima in un tombino, una ragazza pietosa del bar mi porta del ghiaccio che mi dà un po’ di energia. Me lo passo sulla fronte fino a che non si scioglie, e vedendo che mi sta ripigliando ne chiedo ancora. Non appena sono in grado di mettermi in piedi, mi dirigo a malincuore verso l’uscita. Prendo un tuktuk il cui guidatore, dopo avermi chiesto varie volte se, per caso, voglio fare un vestito o un bum-bum, e di fronte alle mie risposte inferocite, mi porta finalmente in albergo, dove dormo qualche ora. Mi sveglio rintronato nel tardo pomeriggio, e decido di fare due passi in Khao San per vedere se gli altri si sono incontrati con Luca, con cui avevamo un appuntamento. Lo trovo che vaga solo e spaesato, zaino in spalla, e lo accompagno in camera. Gli altri arrivano ad ora di cena, freschi freschi, carichi di borse; erano a fare shopping, meno male che Luca l’ho beccato io per caso. In serata prenotiamo il pullman per Siem Reap (in Cambogia) a 2300 baht compreso il visto. Gli altri vanno poi al Lumphini Stadium per assistere ad un incontro di Muay Thay, mentre io rimango in camera a riprendermi, visto che domani la sveglia è alle 6.
Un ultimo appunto, anzi due, del tutto scollegati dal contesto ma che mi sento di fare ora.
1) Tutte le guide vi parleranno dell’affabilità e del sorriso dei thailandesi. Verissimo. Ma pochi menzioneranno l’altro, sinistro, lato della medaglia. E cioè che se vogliono vendervi qualcosa diventano dei veri rompicoglioni, secondi solo, forse, agli indonesiani.
2) In Thailandia due cose sono essenziali, da portare con sé. La prima sono dei sacchettini di plastica, da tenere sempre con sé per bloccare i bocchettoni dell’aria condizionata. Ho notato che in tutti i Paesi tropicali la usano con violenza, come uno status symbol, del tutto incuranti alle proteste. La seconda è la carta igienica, a meno che non siate in prestigiosi hotel internazionali, visto che l’idea di igiene intima, in tutta l’Indocina, si esprime al massimo con un secchio di acqua torbida vicino al cesso, il cui uso non oso immaginare.

12 agosto – Siem Reap – Cambogia
Oggi lasciamo Bangkok alle nostre spalle in direzione Siem Reap, in Cambogia. A noi si è aggregato Danilo, un ragazzo romano che sta girando l’Indocina per disputare degli incontri di muay thai. Beh, di buon’ora, dopo un giro inutile per trovare l’autobus giusto, zaino in spalla tipo naja, partiamo con uno di quei pomposi automezzi dagli interni tra il barocco ed un incubo kitsch; con noi altri gruppetti di europei ecc. Fuori lo scenario thai scorre lento, velocità media 60 orari anche se la strada è tipo la pista di un aeroporto vuota. Chiaramente, il tipo che ci organizza il viaggio ci ha assicurato che alle 17:00 arriveremo a Siem Reap. Non ha specificato però il giorno, furbo orientale. A quell’ora stiamo più o meno lasciando il confine con la Cambogia dopo la trafila del visto. Poipet è una città malconcia, casinò e miseria appena oltre frontiera. Da lì in poi, ci buttiamo coi bagagli su un pulmino che, già al nostro arrivo, manca di una ruota e perde vistosamente olio. La strada, in sostanza, è una mulattiera a tre corsie, con scarso traffico. La cosa che la caratterizza principalmente sono le buche, tante, e le zanzare. C’è da dire che vediamo tantissimi scorci di vita locale, la Cambogia è ancora abbastanza immune all’occidentalizzazione forzata, ed ha una popolazione in cui gli anziani praticamente non esistono visto i terribili avvenimenti degli anni scorsi. Ci chiediamo, mentre passiamo vicino ad una risaia paludosa al crepuscolo, “Ma secondo voi, questa è una zona a rischio malaria?”. Fra le risate generali ci facciamo una doccia di repellente per insetti. In realtà le zanzare non sono così tante, ma potrebbero essere quelle sbagliate, quindi meglio prendere precauzioni. C’è un gruppetto di francesi delle prime file con cui scambiamo qualche chiacchiera, ma più che altro siamo occupati a guardare fuori dal finestrino. Colline, il percorso attraversa grossi paesoni la cui vita è la strada stessa . In sostanza il viaggio diventa una divertente odissea, non oso immaginare se avesse piovuto, avremmo dovuto mettere i remi fuori dai finestrini. Pensandoci a posteriori, il mezzo più adatto è senz’altro una jeep. L’autista, poco più che un ragazzino, si ferma un paio di volte per collassare, si butta acqua in faccia, noi lo incoraggiamo, gli chiediamo se vuole che qualcuno gli dia il cambio, infine gli diamo un paio di redbull. Si fa presto buio. Salta l’impianto elettrico, che viene aggiustato a martellate. Ceniamo in una locanda, molto ospitale, il mangiare è gradevole ma il bagno necessita almeno di un esorcismo. I 160 chilometri più lunghi della mia vita, ma in fondo ci siamo divertiti un sacco. Arriviamo a Siem Reap che è circa mezzanotte. La città si presenta, almeno nel tragitto che facciamo noi, ordinata, alcuni grossi hotel dall’aspetto rassicurante, molti dei quali con annesso casinò. Si capisce che la città ha ottime potenzialità per attrarre visitatori, e le vuole sfruttare bene. Noi, ovviamente, andiamo all’hotel dello “zio” dell’autista, il Green Town, che non è male, camere doppie pulite a 5 dollari, un bel cortiletto con un bar. Domani entreremo ad Angkor.

13 agosto – Angkor
Dopo una notte sudaticcia, affrontiamo Angkor con i tuk-tuk dei ragazzi della guesthouse. Naturalmente non ricordo i nomi di tutti i templi che vediamo; è un posto che trasuda millenni da tutto, dalle pietre, dalle piante immense che avvolgono con i loro tentacoli verdi e marroni gli edifici maestosi. Camminiamo per ore in questo scenario onirico, anche se il sole è a picco ci arrampichiamo sulle ripide scalinate degli edifici, passiamo attraverso le imponenti radici degli alberi. Ad Angkor Wat, ovviamente, il tempio principale si vede solo scostando tonnellate di turisti. Molto meglio andare in orari meno gettonati dalle orde in ciabatte, tipo l’alba. Passiamo la giornata girando quanto riusciamo nel sito, sulla cui spettacolarità credo ci sia poco da aggiungere. Indimenticabile, senz’altro. La serata, la passiamo in diversi locali nel centro; Siem Reap si rivela essere una meta notturna non priva di sorprese e divertimenti.

14 agosto – Tonlè Sap
Ci svegliamo con calma, la giornata ieri è stata abbastanza faticosa, e decidiamo di dirigerci verso il lago, il Tonle Sap, il più grande del sudest asiatico. Nella stagione delle piogge aumenta immensamente di volume. Solita contrattazione con i ragazzi della guesthouse, molto disponibili. Passiamo attraverso la vecchia Siem Reap, dove abitano pescatori, poveri e miliziani, ovvero coloro che non si spartiscono la torta del turismo in città. Il viaggio in tuk-tuk è piacevole, ci fermiamo a vedere le case su palafitte. Il lago comincia quando ancora non lo vedi, la stessa piattezza del panorama e le case sui pali lo suggeriscono, pulsa a seconda delle stagioni. C’è un villaggio vagante, che mi affascina molto, a parte per la bellezza in sé, anche per il fatto che cambia nome a seconda di dove si trova. Segue i flussi del lago, ed è abitato da una minoranza vietnamita, che si riconosce dalle donne che si coprono il volto con una sciarpa di seta scura. Ci imbarchiamo su una specie di barca con un tossicchiante motore a vista. Uno dei ragazzi della guesthouse decide di venire con noi per farci da guida. Il bacino acquatico è pieno di coccodrilli, alcuni dei quali tenuti in gabbie, ci dicono per uso alimentare (li mangiano). Alcune barche lunghe e affusolate ci si affiancano, sono piccoli negozietti vaganti, e dei ragazzini giocano usando delle tinozze come barchette. Tutto è sull’acqua, i ristorantini, le abitazioni; c’è perfino un campo da pallacanestro galleggiante! Ci addentriamo nelle acque beige del lago, un immenso mare colorato come la terra chiara, piatto come fosse olio, cinto da canneti e arbusti.
Arriviamo in quello che sembra l’estuario di un fiume, lo risaliamo, è una scena che ricorda vagamente Apocalypse Now. Ad un’ansa del fiume, c’è un villaggio su palafitte altissime, la gente che lo abita è povera ma dignitosa, centinaia di bambini che vagano e accettano qualche merendina in dono, maiali, lucertole, le donne che lavorano ai telai, alcuni uomini si occupano di sistemare delle imbarcazioni. Passeggiamo per un’oretta, c’è persino un piccolo tempio.
Poi, con una piroga a motore, andiamo a visitare una vicina foresta sommersa, surreale, le piante chiare emergono dall’acqua, dei ragni corrono sulla superficie e ci sono farfalle grosse come una mano. Ci accompagnano due signore con i loro figli e il ragazzo della guesthouse che è voluto venire con noi perché qui non era mai stato. Il posto vale senz’altro la pena di essere visto, ci avventuriamo con calma nel silenzio, la maglietta in testa per i tratti assolati. Durante la gita, una ragazzina cambogiana intraprendente che ha imparato un po’ di inglese, ci spiega che lavoro fa suo padre, come vivono, come sono le piene del lago, dove ci sono i coccodrilli eccetera.
Danilo, non ricordo in che contesto, ha coniato una frase che diventerà un’altro ritornello del viaggio: “I’m a little bit afraid, to be fucked again!”.

16 agosto – Phnom Penh
Passiamo un paio di giorni nella capitale, la città sembra essersi lasciata alle spalle gli orrori del passato. Locali carini sulle sponde del lago, traffico, grandi stradoni invasi da motorini carichi di qualsiasi cosa si riesca a mettere su un motorino. Il record che abbiamo visto è stato cinque persone, polli attaccati dietro e cane nel cestino. La città merita il soprannome di perla d’Asia, l’architettura khmer si intreccia con quella coloniale e quella moderna dando vita ad uno scenario davvero unico; inoltre la gente è sempre molto cordiale, a patto che non si parli dei problemi del passato, un argomento abbastanza tabù. Spesso si incontrano dei mutilati, che chiedono con discrezione una piccola elemosina. Ad un bambino do qualche dollaro per mangiare, lo rivedo dopo che mi sorride e si tocca la pancia soddisfatto, mi vuole abbracciare per ringraziarmi. Se uno cercasse un Paese per aiutare la gente col volontariato o anche con un’offerta a qualche ente serio, la Cambogia ha senz’altro bisogno di più di una mano.
I mercati sono degni di una visita, soprattutto il russian market, in cui ci si perde fra aromi, vecchi cimeli, seta e teste di maiale; i venditori in coro: “Ken ai elp iù, Luk insaid”. Di notte, la città è gradevole, soprattutto sulle coste del fiume, ci sono dei locali e dei ristoranti non male (uno che consiglio vivamente è il Boat Noodle Restaurant, ad un blocco da Sothearos Blvd).
Visitiamo il complesso del palazzo reale, il museo annesso, i cortili ed i templi all’interno del perimetro. E’ una città nella città. La Pagoda d’Argento (così chiamata per il materiale di cui è fatto il pavimento, in realtà un po’ ossidato e malridotto) è senz’altro affascinante, e protegge un buddha che secondo me vale da solo la visita della Cambogia, il più bello e inquietante che abbia mai visto. E’ a grandezza naturale, interamente d’oro, giada e tempestato da migliaia di pietre preziose, gli occhi sono due diamanti grossi come nocciole.
La nostra sistemazione in città è il J-Hotel, pulito e conveniente, con un piccolo casinò annesso per chi voglia farsi spennare un po’. Per spostarci, viaggiamo spesso come passeggeri dei moto-taxi, un’esperienza tipo sport estremo. Una delle attrazioni dei dintorni sono i poligoni abusivi, dove si spara con kalashnikov, lanciarazzi ecc.. Surreale il menù in uno di questi posti, dove fra le bibite ci sono anche i prezzi di bombe a mano, M-16 e lanciagranate.

17 agosto – Phnom Penh
Oggi andiamo a vedere Choeung Ek, uno dei campi di sterminio dei Khmer rossi. La guida ci accompagna all’ossario, dove ci sono migliaia di teschi accatastati. Camminando sul sentiero, vediamo che affiorano dalla terra ossa e brandelli di vestiti, molte fosse non sono ancora state scoperte. Su alcuni alberi, delle macchie scure indicano dove veniva spaccata la testa dei bambini. Insomma, un luogo dal silenzio impressionante e dal passato che grava ancora, non trova pace. Più tardi, non contenti di atrocità, andiamo al museo del genocidio Tuol Sleng, un ex edificio scolastico in cui i seguaci di Pol Pot perpetravano le torture più agghiaccianti. Delle foto alle pareti ritraggono le vittime, migliaia, e alcune delle aule sono state lasciate come vennero trovate, con i letti di ferro a cui venivano legati i prigionieri, le macchie scure sul pavimento, muri che trasudano urla e orrore. All’uscita, alcuni mutilati ci chiedono senza insistere qualcosa per mangiare, e anche noi facciamo un breve pranzo nel grazioso ristorante fuori.
Il pomeriggio lo passiamo allo stadio a vedere un paio di incontri di boxe cambogiana, il biglietto costa mezzo dollaro e vale la pena. Metà dello spettacolo è fatto dal pubblico, che urla e si dimena per incitare il proprio campione su cui ha scommesso, l’orchestrina suona musichette ipnotiche al ritmo delle quali avviene il combattimento. Essendo gli unici occidentali e alti in media una spanna in più, la gente ci guarda con molta curiosità. Ci sediamo in una specie di tribuna d’onore, davanti ad un qualche politico locale, ed infatti dopo un po’ ci chiedono gentilmente di spostarci. In serata, solita partitina a biliardo in qualche locale sul lungofiume; al ritorno, chiedo di poter guidare un tuk-tuk. Ma non sono proprio sobrio, e prendo in pieno un cordolo con la ruota sinistra, rischiando il ribaltamento del mezzo. L’autista mi guarda sconsolato e riprende il suo posto.
Questo paese trasuda acqua da tutte le parti, dagli onnipresenti corsi d’acqua, dalle pareti delle case, dai volti scuri della gente. I sorrisi delle donne cambogiane sono a mio parere i più belli dell’Indocina, larghi, un po’ squadrati, e gli occhi hanno una luce diversa, ma forse è solo una mia impressione. E’ un popolo coraggioso, che vuole dimenticare il suo passato e ricominciare dalle sue nuove generazioni. Bambini che giocano nudi nella spazzatura. Un battello, lo vedo ora dalla mia terrazza, naviga lentamente controcorrente. In strada passa di tutto, motorini carichi di pollame, trattori chopperati, risciò, bonzi in tre su una moto. Phnom Penh é una città che non si dimentica.

18 agosto – Kuala Lumpur – Malesia
Oggi, con un volo da Phnom Penh, siamo arrivati nella capitale della Malesia. Dopo aver pagato una cifra astronomica al tassista che ci ha portati in città, troviamo alloggio nel peggior albergo di chinatown, quattro letti in una stanza squallida, bagni in comune. Capiamo subito che la Malesia non è economica come il resto dell’Indocina. In serata abbiamo giusto il tempo di fare un po’ di foto sotto le Petronas Tower, che si spengono circa verso le 23:00 lasciandoci in una triste penombra poco fotogenica. Dirottiamo allora in una delle vie più caotiche della città, la Sultan Ismail, che pulsa di vita notturna. La città ricorda le scenografie alla Blade Runner, la popolazione è del tutto eterogenea, malesi, cinesi, indiani, musulmani, ma in giro si vedono poche facce occidentali. In un locale, al cui centro della pista c’è un acquario con due squali dentro, facciamo le ore piccole prima di tornare al nostro tugurio.

19 agosto – KL – verso la costa – Kuala Selangor
Risveglio della camerata, malumori di chi se ne vorrebbe andare da Kuala Lumpur. Passiamo la mattinata nel giardino ornitologico, un immenso parco coperto da reti in cui volano innumerevoli e coloratissime specie di uccelli. Dopo una colazione abbondante fra tucani e fenicotteri, ci dirigiamo verso l’inevitabile servizio fotografico diurno alle Petronas. Sembra davvero esserci poco altro da vedere in questa città.
Alle tre di pomeriggio, con un colpo di mano, fermiamo un tassinaro e gli diciamo di puntare verso Kuala Selangor, una cittadina sulla costa con diverse cose interessanti da vedere.
La prima è il vecchio forte portoghese, dove fra le mura ed i cannoni arrugginiti vive una numerosa colonia di scimmie, dei macachi i cui cuccioli sono di un color giallo vivo. Si può arrivare in cima alla collina anche con un trenino turistico, ma è di una tristezza infinita, la salita non è molto impegnativa; una bella passeggiata è molto meglio. Stiamo attenti a schivare i bisognini delle scimmie che vediamo saltare da un albero all’altro. Il panorama sul mare è molto bello, mi ritrovo a fantasticare su storie di pirati, arrembaggi e sandokanate varie. Al ritorno dalla gita al forte, conosciamo due ragazze, un’olandese ed una laotiana, che si aggregano a noi. Ceniamo assieme e decidiamo di andare a vedere le colonie di lucciole che abitano lungo il fiume. Alla stazione degli autobus non c’è anima viva, mancano solo i cespugli che rotolano. Senza perdere coraggio, entriamo in un internet point nella piazza, per chiedere informazioni al giovane gestore malese, Roy. Fortunatamente parla un po’ di inglese, ma non sa se ci siano mezzi pubblici che arrivino fino al fiume di notte. Con molta disponibilità, chiama un suo amico, Texas, il quale si offre addirittura di accompagnarci lui. Dopo una mezzoretta di macchina, arriviamo al fiume, dove prendiamo due sampan che si inoltrano nel buio sulle acque scure e placide. Lo spettacolo delle lucciole è notevole, popolano a milioni gli alberi lungo le rive, pulsando come luminarie. Il silenzio è rotto solo dal fruscio della vegetazione e da qualche rana che gracida. Quando torniamo a riva, Roy e Texas ci chiedono se abbiamo sonno. Alla nostra risposta ovviamente negativa. ci portano prima in un luna park nelle vicinanze, e poi in un bar karaoke vicino al porto. Fra un piatto traboccante di polipi piccanti, una cantatina, balli e fiumi di birra, ci divertiamo come dei ragazzini. Frase conclusiva della serata, di Andre rivolto a Roy: ” I send an email to you when I put my foot on the italian pocodio”. No comment. Ora solo il ventilatore sopra di noi agita la notte, fuori scroscia la pioggia. Il dio dei viaggiatori è con noi, basta non perdere mai la speranza di trovare gente amichevole.

22 agosto – Palau Langkawi
Dopo l’ennesimo viaggio della speranza in pullman, con non poche difficoltà logistiche, traghettiamo sull’isola di Palau Langkawi. La giornata in cui arriviamo il cielo è nuvoloso, il mare mosso e torbido, l’umore non alle stelle. Noleggiamo una macchina, visti i prezzi convenienti, una decina di euro a testa al giorno. In giro per l’isola pochi turisti occidentali. le donne sono coperte dal velo da testa a piedi, noi le abbiamo ribattezzate scherzosamente Cattivik, se il velo è nero, o uova di Pasqua (Cattivik colorati).
La giornata di oggi, però, è stata ricchissima di avvenimenti. In mattinata, siamo andati a vedere le meravigliose cascate al centro dell’isola. Sono alte un centinaio di metri, cinte dalla vegetazione lussureggiante, e formano un laghetto principale e diverse pozze di acqua cristallina. Ci rilassiamo nell’acqua fresca, sotto il getto d’acqua, mentre alcune scimmiette ci guardano curiose mentre spolpano dei grossi frutti arancioni. Dopo un pranzetto veloce in un bar lungo alla strada, torniamo in albergo, dove ci accordiamo con Crocodile per un tour delle isole. Crocodile è il nostro nuovo tour operator, un malese scatenato, biondo e col fisico da californiano in trasferta. Ci imbarchiamo per un pelo. La barca guizza fra le isole verdi, l’acqua è turchese e il clima non potrebbe essere migliore. Nella prima isola in cui attracchiamo, facciamo il bagno nella laguna salmastra, e poi camminiamo lungo il sentiero che gira tutto il perimetro dell’isola, regalando scorci da cartolina. Nell’isola successiva, ci fermiamo nella rada per vedere le maestose aquile, simbolo dell’isola, che volteggiano su di noi e si buttano a capofitto nell’acqua per pescare. Infine, nel pomeriggio inoltrato, approdiamo sull’ultima isola, la più bella. Qui ci tuffiamo e a pochi metri da riva c’è una splendida barriera corallina, non saprei elencare tutti i pesci che vedo, ci sono anche un paio di cernie scure enormi che si lasciano avvicinare.
Sulla barca, al ritorno, sentimenti alla Corto Maltese. Serata alla Reggae House, complessino dal vivo e Tequila Sunrise, e poi tutti a nanna.

23 Agosto – Palau Langkawi
Oggi è la giornata in cui ci lascia Andre, per cui pianifichiamo un programma poco impegnativo a zonzo per l’isola. La mattina gironzoliamo per lo Snake Sanctuary, un giardino-rettilario in cui, a dire il vero, i serpenti sono tenuti in condizioni un po’ tristi. Ne stuzzichiam

24 Agosto – Palau Langkawi
Giornata naturalistica. Ci imbarchiamo di buon’ora per Coral Island. Il viaggio è piacevole, mi stravacco ad abbronzarmi su una sdraio, sul ponte della nave, con l’mp3 di Marco. L’isola è molto suggestiva, forse un po’ troppo affollata nei ritrovi, ma sott’acqua ci si sente liberi, fra grossi pesci variopinti, coralli e mille altre creature. Passeggiamo nella foresta, e poi ci dedichiamo a nutrire squali pinna nera, alcuni dei quali lunghi un paio di metri. Ci avventuriamo nell’acqua fino alla vita, e agitiamo pezzi di pesce sott’acqua. Centinaia di pesci colorati si azzuffano per cibarsi, ma scappano quando arriva qualche squalo. Ci raccomandano di tenere le dita a pugno, consiglio che adottiamo, e presto siamo letteralmente circondati di pinne minacciose. A quanto pare sono inoffensivi per l’uomo. Sarà, ma quando iniziano a nuotarci intorno a decine non è che siano proprio rassicuranti. Fortunatamente, torniamo a riva con tutti gli arti attaccati. Decidiamo di andare a pranzare, al sicuro sul pontile. Il viaggio ce l’ha proposto il nostro amico Crocodile Dundee, e anche stavolta non ci siamo pentiti.
Cena opulenta a base di pesce (a furia di vederne vivi ci era venuto appetito), con musicista francese che canta anche Bella Ciao. Se c’è una cosa che però manca a Langkawi è la vita notturna, per cui andiamo a letto alle 11 come dei bravi ragazzi. Domani parto solitario verso le isole thailandesi, visto che io ho voglia di mare, mentre Luca e Marco hanno deciso di andare a Chiang Mai, nell’estremo nord. Sono indeciso fra quelle sul versante occidentale (Phuket, Koh Phi Phi) o le altre, principalmente Koh Samui. Credo che, se la notte non mi porterà consiglio, domani tirerò una moneta.

Risveglio brusco e imbarco all’ultimo minuto sul traghetto che mi porta a Satun, in Thailandia. L’ufficiale di frontiera conta spaesato i visti, le pratiche sono abbastanza veloci. Fortunatamente, un francese silenzioso con trolley va a Koh Samui, per cui mi aggrego. Con 750 baht posso raggiungere l’isola, e poi decidere se avventurarmi a Koh Pangan o Koh Tao. Tragitto con minivan fino ad Hat Yai e Surat Thani. Il traghetto per l’arcipelago partirà stanotte, per cui mangio in un ristorantino al porto, brodo di riso e pollo. La barca ha un aspetto un po’ antiquato, ma ha un suo fascino, l’idea che si avventuri nella notte dell’oceano coi suoi legni cigolanti e i suoi bulloni arrugginiti. Al primo piano vi è la stiva e i motori, al secondo, su un pavimento di legno, una distesa di materassini dall’aria vissuta, su cui stendo il sacco lenzuolo. Famigliole thai, bonzi, qualche farang, una ventina. Scelgo una postazione d’angolo, con un oblò che si affaccia sulle tenebre e da cui fumo l’ultima sigaretta prima di sdraiarmi. Dormo bene, il mare è una distesa d’olio ed il rumore del motore si attenua durante il viaggio.

26 Agosto – Koh Samui
Entriamo nel porto all’alba, il cielo appena rosa all’orizzonte, un gruppetto di tassisti mattutini cantilena le destinazioni. Come al solito i falang si consultano, si formano i gruppetti che si sparpaglieranno per l’isola. La mia meta è Chaweng Beach, e sembra che ci vada anche qualche faccia simpatica. Con me, sul songthaew, un gruppetto di canadesi, tre ragazze e quattro ragazzi, con cui simpatizzo. Arriviamo che chiareggia, i canadesi fanno colazione da un Burger King, mentre io, fuori, scambio qualche informazione con dei pisani recuperati in strada. Loro, prima di qua, son stati dieci giorni a Phuket e hanno preso praticamente solo pioggia, per cui probabilmente ho scelto la costa giusta. Qua mi consigliano un resort, il Chaweng Garden, dove trovo una doppia a 500 baht. Uno dei canadesi è spaiato, sembra una persona per bene e decidiamo di prenderla insieme, soprattutto perché l’alternativa è andare a cercare un altro posto, visto che molti hotel sono pieni. Il bungalow, in un complesso fra le palme, è abbastanza pulito e ordinato, ad una ventina di metri dal mare.
Il gruppo di canadesi è attivissimo, decide di prendere un taxi collettivo per fare un giro dell’isola ed io mi faccio tirare in mezzo, anche se mi proietterei volentieri in spiaggia a farmi fare un massaggio mentre sorseggio un cuba. Andiamo a vedere l’ennesima cascata, da cui ci tuffiamo, ed un gruppo di scogli dalla curiosa forma di genitali. Dopo una foto collettiva sulla cappella di roccia, ci dedichiamo ad un pomeriggio nei negozietti di artigianato, dopo di che mi faccio il meritato riposino. Cena luculliana in riva al mare, crostacei e pesce, vino bianco non dei migliori, collane di fiori. Con le canadesi fumo il narghilè, distesi sulle stuoie, fra i cuscini, guardiamo i palloni di carta con la lampada dentro alzarsi nel cielo e farsi portare via dal vento. Conosciamo due ragazze californiane, con cui ci diamo appuntamento all’Happy Bar, salvo poi scoprire che ce ne sono almeno 4 di posti con quel nome, un paio dei quali di dubbia fama. Nottata etilica a vagare da un locale all’altro, la vita notturna si concentra in un paio di posti facilmente raggiungibili. Finiamo sulla spiaggia ad aspettare l’alba, le ragazze fanno il bagno, Monica mi invita nell’acqua ma io preferisco aspettare sulla sabbia tiepida. Fumiamo con un thai che si è unito al gruppo, ci spiega quali zone dell’isola secondo lui sono le migliori per comprare o per fare il bagno, eccetera. Non male, come primo giorno a Koh Samui. L’isola è bella, bikini farang sulla spiaggia, buona la possibilità di alloggiare e fare acquisti a prezzi onesti, gente tranquilla; alla sera la movida è frizzante, finalmente, dopo il ritiro spirituale nella musulmana Malesia.
Frase del giorno : “Where the fuck is the third Happy Bar?”

29 agosto – Koh Phangan – Full Moon
L’isola di Koh Samui si presta ad essere girata facilmente in scooter. Fra le attrazioni, un buddha dorato gigantesco (e un po’ pacchiano, con lucine tipo luna park), il Butterfly Garden (un parco racchiuso da reti dentro cui volano migliaia di farfalle) e molte spiagge lontane dal turismo di massa, magari meno adatte al bagno ma senz’altro affascinanti.
Stanotte siamo stati a Koh Phangan. Siccome ieri pomeriggio tutti fervevano per via della luna piena e del Full-moon party, pur non essendo un grande amante del genere decido di unirmi a loro. Al porto, ci recupera una speed-boat, siamo un gruppetto nutrito, ovviamente tutti falang. La barca è una scheggia nella notte, limpida e luminosa per via della luna, solleviamo grosse creste di schiuma bianca dietro di noi. Una ragazza inglese scopre di soffrire il mare, per fortuna si allontana. Da lontano, avvistiamo le luci della festa. Sono curioso di verificare quante leggende su questa festa siano vere. La spiaggia, nel buio, luccica di centinaia di chioschetti, neon, ragazzine ubriache, impianti stereo, mangiafuoco. Ci sono zone in cui la musica è pompata, altre dove si può far riposare i timpani e osservare i giocolieri o la gente che balla seminuda ricoperta di vernice fosforescente. Coi canadesi faccio un patto di aiuto-controllo reciproco, ripromettendoci di non perderci di vista. Bisogna dire che non girano solo ettolitri di alcol, per cui cerchiamo di tenerci alla larga da situazioni spiacevoli. Un poliziotto ispeziona il mio zaino, e mi augura gentilmente di divertirmi. Tutta la notte abbiamo ballato, riso, soprattutto bevuto parecchi bucket di lamencoke; credo di aver cambiato tre volte le ciabatte nel corso della serata. Ci ritroviamo all’alba, a sonnecchiare sulla spiaggia, praticamente sotto un woofer. Io sono dipinto di roba fluorescente peggio di quelli che pigliavo per il culo quando sono arrivato. Centinaia di persone, barcollanti, aspettano con l’acqua fino alla vita l’arrivo delle spead-boats. Silhouettes nere contro il cielo rosa e arancio, come animali migratori verso la prossima festa. Devo ammettere che mi sono divertito, anche se questo genere di feste non rientra nella pura filosofia routard, ogni tanto è giusto prendersi una pausa e godersela un po’. Delle lampade-mongolfiere di carta annuiscono, mentre si sollevano lente dalla spiaggia su cui si trascinano gli ultimi e già si smontano i baracchini e i sound system.

30 agosto – Koh Samui
Giornata finale sull’isola. Stamattina i canadesi sono partiti, ho intravisto nel sonno Ryan che mi faceva un cenno di saluto. Avrei voluto salutarlo meglio, ma il dormiveglia mi ha sopraffatto. Quando sono uscito, noto che sulla porta c’è una busta con dei soldi. C’è una lettera di Rehzad, uno dei canadesi, che dice a Ryan che ha deciso di partire all’improvviso, e gli rende i soldi che il mio compagno di stanza gli aveva anticipato per una gita. Non posso fare altro che tenerli, sono circa 15 euro. In spiaggia, sotto una palma, mi faccio fare un massaggio mentre sorseggio un cuba, che mi scioglie un po’ di stanchezza per questi ultimi 51 giorni in Indocina. Passo la serata facendo una passeggiata, fra bancarelle e locali, o a giocare a biliardo con le ragazze dei go-go bar, ovviamente fortissime. All’alba, inglesi ubriachi e ladyboys che vagano per la strada. Un pitbull con una collana di fiori. Sentimenti da fine della festa, devo dirigermi verso nord per raggiungere Bangkok, dove Luca e Marco mi racconteranno come è andata fra le montagne del nord.


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