India del Sud 2006


racconto di viaggio agosto 2006 di Carlo

LONTANO / VICINO, distanziamento / coinvolgimento
Il timoniere del barcone (una kittawallam, questa bella imbarcazione in solido legno scuro fatta con lo stile e le arti tradizionali e coperta con una bellissima costruzione in paglia intrecciata), con la sua pelle nerissima sui lineamenti “indoeuropidi”, e con la sua “gonna” bianca, il dhoti, e con i suoi bei baffoni fiorenti, se ne sta lì placido alla guida tenendo con una mano l’ombrello per farsi appunto un po’ d’ombra, e guarda l’orizzonte. Siamo in Kerala, nell’India del Sud, e stiamo scorrevolmente navigando con tutta tranquillità per le backwaters, l’intrico di “valli”, canali, rami dell’antico fiume, che stanno dietro la costa, su un vastissimo territorio, subito all’interno. Ad un primo sguardo, è una scena che si può vedere nei suoi tratti caratteristici, guardando da una grande distanza culturale, quale può essere quella dello sguardo nostro, un po’ sbigottito, essendo arrivati ieri, catapultati in questo mondo dell’altrove grazie alla rapidità dei trasporti con i moderni jets delle rotte aeree intercontinentali. E tuttavia dopo qualche ora di questa calma navigazione silenziosa ecco che adesso a ben guardare c’è semplicemente il pilota del “nostro” barcone, che essendo in pieno sole si ripara facendosi ombra; lo si vede oramai con uno sguardo più “da vicino”, più familiare, poiché ora ci si è abituati a quella estraneità del primo momento, a quella scena inusuale. Si chiama Veera, e lavora in questa cooperativa di barcaioli che gestisce i trasporti fluviali.
Ma tuttavia, tutt’intorno c’è questa vegetazione lussureggiante verde smeraldo, tipica di un paese che sta più vicino all’equatore che al tropico, una vegetazione che come accade in certe immagini esotiche è una vera e propria esplosione di verde incontenibile, prorompente, che si manifesta sotto splendide forme vegetali, ma soprattutto alberi di mango, palme da cocco, fiori rossi o gialli, ma comunque sgargianti.
E ciononostante dopo un po’ di ore di questo panorama più o meno simile, ci si acquieta la curiosità dello sguardo, e si constata che ci sono sempre solo e nient’altro da vedere che palme, palme, palme sul bordo dell’acqua limacciosa. Non viene catturato lo sguardo come all’inizio, non si è più inchiodati là ad ammirare increduli e ad occhi spalancati, la realizzazione per pura magia dell’immaginario orientaleggiante, condito con quadretti esotici, con un po’ di reminiscenze di Kipling e di Salgari, con quell’esotismo, quel gusto del favoloso, quelle aspettative che hai quando vai a vedere i paesi tropicali… e che lì, nelle backwaters del Kérala, sono proprio così come te li aspettavi (e forse forse proprio questo, oramai smaliziati come siamo, non te lo aspettavi più veramente…).
Quando si incomincia a distogliere lo sguardo, allora il tuo sguardo non è più uno sguardo “da lontano”. E più si è vicino, e più ci si può poi ri-allontanare, e più tutto ti appare nei suoi reali contorni che pur mischiando usuale e inusuale conservano proprie specifiche caratteristiche che ti consentono di cogliere l’inusuale con uno sguardo di nuovo “da lontano”, o meglio ora direi “ampio”, che riesce a mettere insieme nella cornice tutta una molteplicità, una complessità, ora sufficientemente vagliata non essendo più distratti dall’insolito o dall’inatteso. Quindi reinquadrato l’insieme, ci si potrà di nuovo avvicinare perché ora più consapevolmente si vuol vedere più da vicino come stanno le cose. E così dopo aver dato uno sguardo all’uno, si potrà vedere di che molteplicità esso è composto, e a quel punto poi ritornare spostare la visione dalla molteplicità all’uno.
E in questo continuo movimento di distanziamento e di coinvolgimento, in questo continuo riaggiustare la messa a fuoco del nostro binocolo, sta tutto il senso del viaggiare come forma del conoscere per comparazioni e quindi per similitudini e differenziazioni.
Ecco, ora si vede la “normalità”, si cominciano a percepire gli individui con i loro costumi, e i loro usi, ed essi divengono anche persone. Nel timoniere vedi un lavoratore con i suoi problemi sindacali, oppure costeggiando lentamente, dal barcone vedi una madre con la sua famiglia a carico, un impiegato di un negozio, che esterna invidia o astio per quel che accade in altri negozi differenti dal suo, una contadina legata al suo orizzonte di vita ristretto sempre identico… una donna che lava i panni e un’altra che pulisce le sue pentole, alcuni che lavano se stessi. Si comincia a capire il Paese e la sua gente.
Ma già non ci rendiamo più conto che siamo arrivati ieri mattina !??… E ora stiamo qui a parlare con questo timoniere e gli altri della barca, grazie al fatto che oltre al malayalam sanno un pochino di inglese, facendo domande su quel che ci sfila dinnanzi agli occhi man mano che il barcone procede lungo le coste del canale… Interessandoci di questioni e di gente di cui sino a pochissimo addietro non ce ne importava nulla o quasi, o di cui comunque ignoravamo tutto o quasi…
E’ così: il tempo si è dilatato. Essendo alcunché di elastico e flessibile si è dilatato in proporzione allo spazio percorso. Ieri mattina è oramai qualcosa, o tutto un complesso di cose, che sta in una dimensione lontanissima, e noi adesso siamo immersi nell’altrove, e questo ci pare accada già da tantissimo, tanto intensi sono gli stimoli che riceviamo, tanto intensa e partecipata è l’esperienza che ne facciamo, tanto coerente è l’insieme in cui ci troviamo, tanto lontano è ora divenuto ciò che era il nostro contesto abituale ! E questa lontananza si tramuta in lontananza temporale: qui il tempo scorre più lento, e una giornata equivale ad una estensione lunghissima.
Ed è perciò che ci sembra già possibile ri-volgere uno sguardo più da vicino…

UN GRAN CROCEVIA DI GENTI E LINGUE
Cochin, 1° agosto 2006- L’attuale Stato meridionale del Kérala si estende lungo la costa ovest fin quasi alla estrema punta sud, ed è delimitato da belle catene di monti verdi e ricchi di flora e anche di fauna (andremo a visitare il bel parco naturale di Bandipur, ma più famoso è quello di Peryiar). Subito alle spalle delle spiagge della costa, ci sono le backwaters, cioè quell’intrico di canali navigabili in mezzo a una lussureggiante vegetazione, di cui vi parlavo la volta scorsa, e che appunto si visita con le cosiddette houseboats, ben attrezzate, su cui si può imbandire una tavola ricca di frutta tropicale e pesce fresco, e su cui si può dormire in pulitissime camere da letto (con toilette), e star via navigando all’interno anche per giorni.
La storia della costa, nota come costa del Malabar, e in particolare di Cochin, o Fort Cochin (ora Kochi), è una storia molto antica di contatti e scambi con il resto del mondo: si pensi solo che già nel IV secolo av. C., un greco di nome Megastene fu qui come rappresentante degli interessi commerciali degli Ioni, come venivano qui chiamati i greci e macedoni (storico e geografo fu inviato dal diadoco alessandrino Seleuco Nikator, più volte in missione tra il 302 e il 292 av.C.). Megastene giunse fino a Madurai attraversando la fitta jungla, come ambasciatore presso la corte del Raja Chandra Gupta (dai greci poi storpiato in re Sandracottos), quando Madurai era un lontanissimo centro di esportazione di spezie rare e di pietre preziose. (Chissà cosa raccontò quando ritornò indietro… purtroppo non abbiamo un suo “Milione”…). Poi, a quanto racconta Plutarco nei “Moralia”, Menandro (il re alessandrino della Bactriana che regnò da Kabul sino al fiume Indo dal 163 al 150 circa a.C.), era giunto sin qui per incontrare un grande monaco, il venerabile Nagasena, e sembra che fosse divenuto buddhista col nome di Milinda (come attesta l’importante testo che riferisce dell’ incontro, e che è divenuto un’opera di grande autorità per il buddhismo dell’epoca, è intitolato: Milindapanha – le domande del re Milinda, si veda la trad.it. a c.di M.A.Falà, Ubaldini editore, Roma). Poi la dinastia Murya (fondata proprio da Chandragupta) estese il proprio regno sino al nord, cacciando i dominatori alessandrini dai territori lungo il fiume Indo.
Inoltre, si sa che l’apostolo Tommaso venne a predicare qui subito dopo la morte del Maestro, e che dunque questa fu la prima comunità protocristiana del mondo fuori dalla Terra d’Israele. C’è persino una favolosa leggenda secondo cui l’ultima volta che diedero sollievo a Gesù sulla croce, detergendogli il volto e dandogli da bere qualche goccia con una spugna bagnata posta in cima a una pertica, in realtà gli avrebbero dato un potente anestetico o sonnifero, per cui dopo poco si irrigidì e sembrò come morto (con battiti cardiaci lentissimi e temperatura corporea in rapido raffreddamento). Quindi, corrotto il centurione di guardia al sepolcro, nottetempo scoperchiarono la tomba e lo portarono in salvo in un nascondiglio nella sua Galilea, poi da qui lo misero in salvo su una imbarcazione che salpava per i porti commerciali più lontani che gli ebrei conoscessero, cioè appunto la costa del Malabar (forse dunque accompagnato da Tommaso). Ho visto in un libro sulla storia delle comunità cristiane nella costa occidentale, una foto di una lapide tombale in cui vi è una iscrizione in aramaico che dice: qui giace Jeshu ha-Notzrì (Gesù il nazareno), qui deceduto all’età di 60 anni. Non ricordo il nome della località, ma o è nel Kerala o poco più a nord. Comunque Didymos Judas Thomas è attestato che fosse in questi territori costieri nel 52 d.C. (cfr. J.-Y.Leloup, Il Vangelo di Tommaso, Roma, 2005). In effetti in quegli anni si formò una piccola comunità di indiani seguaci della Torah, noti come Nazranis (più tardi aderiranno alla Chiesa Siriaca, poi nestroriana -quindi dichiarata eretica nel 431). Pensate che i pochi fedeli della chiesa siriaca attualmente esistenti, e sparsi in tutto il vicino e medio oriente, ancor oggi parlano l’aramaico!
Poi con la distruzione del Grande Tempio di Gerusalemme da parte dell’imperatore Tito nel 69/70 d.C. diversi ebrei andarono a Cranganore (allora Kadungallor) dove appunto c’erano già degli empori di conterranei. La storia della presenza ebraica nelle coste meridionali dell’India ha continuità nel tempo: è attestato un Thomas Cana nel IV sec. d.C. a Thrissur; e poi nel 962 risulta che il raja di Kadungallor concesse a Joseph Rabban di stabilire una “colonia” permanente, nominandolo capo della sua comunità.
Secoli dopo, nell’epoca della espansione mercantile e marinara europea, giunsero i primi portoghesi, il famoso Vasco de Gama, passando oltre la punta sud dell’Africa, doppiato il capo di buona speranza giunse nel 1498 a Calicut, aprendo una nuova rotta commerciale, e il grande navigatore Cabral sbarcò nell’anno 1500 una guarnigione a protezione dei commerci di spezie, e Alfonso de Albuquerque fondò qui nel 1503 la prima fortezza europea in India (Fort Cochin). Qui Vasco, nominato vicerè delle Indie, morì, e vi fu sepolto nel 1524. Insomma i portoghesi si insediarono stabilmente in questo tratto di costa (e a Goa), come attesta il bel Palazzo Mattancherry da loro qui edificato nel 1557. Ebrei di origine iberica costruirono qui il primo tempio vero e proprio in muratura, Paradesi Synagogue, considerata la prima sinagoga d’oriente, essendo del 1568, che in seguito a varie guerre dovute alle rivalità con gli olandesi per la supremazia commerciale, fu poi  distrutta dai portoghesi. I missionari di Lisbona, sia non riconobbero quegli indigeni “nazariti” come dei cristiani, sia disprezzarono i locali fedeli della chiesa siriaca, e da ligi controriformisti, con la presenza di Francesco Xavier nel 1542, vollero che quelli sostituissero la loro “croce fiorita” e che aderissero alla chiesa romana, cosa che provocò in loro molta avversione. Essendosi poi stabilizzato un lungo dominio olandese, di cui resta il bel Dutch Palace, e varie abitazioni, la sinagoga fu ricostruita nel 1662 e poi abbellita con un pavimento di mattonelle cinesi acquistate a Canton da Ezekiel Rahabì nel settecento. Gli ebrei dell’India (divisi in sefarditi, di origine iberica, e in indiani ebrei, o Bené Israel, dagli altri chiamati con spregio  “neri”) si trasferiranno poi nel secondo novecento quasi tutti nello stato d’Israele. Tanto che ora girando per le stradine del vecchio quartiere coloniale, ci dicono che ne siano rimasti diciannove, tutti vecchi…
Insomma una comunità molto antica, che ci fa dischiudere pagine di storia da noi ignorate. Si pensi a quei lontani tempi, in cui qui già si incontravano genti dei più diversi e lontani popoli. Nell’VIII sec. d.C. giunsero qui degli zoroastriani dalla Persia, detti poi Parsi (oggi presenti, e potenti, a Bombay e nel Gujarat. Si pensi al famoso Tata). A Kochi ci sono ancor oggi resti della presenza di pescatori cinesi, a “China Vala”, dove ci sono le Fishing Nets, grandi reti da pesca a bilanciere introdotte all’epoca di Marco Polo nel XIII secolo.
In realtà i contatti con il nostro mondo mediterraneo iniziarono ben prima, come dicevo già più sopra, e oltre ai motivi di incomprensioni e di scontri, non mancarono  coloro che -come Menandro- rimasero affascinati da questo paradiso tropicale e dalla sua antica civiltà. E dunque aggiungo altre due favolose storie d’oriente, riferendovi che Pentaenus, scolarca alessandrino, visitò il paese, e si dice che conoscesse bene le filosofie dell’Advaita Vedanta, che apprese conversando con i dotti conoscitori di Kalyan delle sacre scritture vediche. Un altro personaggio interessato a conoscere e capire, fu, molto più tardi, proprio un italiano, il gesuita Roberto de’ Nobili che si stabilì nell’attuale Tamil Nadu dal 1605 al 1656, vestiva in color zafferano, e visse come un asceta hindu a Mylapore (vicino a Madras). Parlava tamil e sapeva discutere con i bramini in sanscrito, tanto che ne avrebbe convertiti alcuni al cristianesimo. La gente e le personalità preminenti locali lo rispettavano, poiché secondo le usanze tradizionali osservava le regole di purità rituale nei cibi, e nei contatti interpersonali (ma tuttavia fu poi sottoposto a inquisizione come sospetto…).
Sarebbero tutte storie da trarne romanzi degni di Kipling e di Salgari.
Insomma un gran crocevia di presenze diverse; già molto tempo prima dell’epoca del colonialismo inglese, qui dunque c’era un melting pot di genti e una babele di lingue, da far “invidia” alle metropoli del nostro attuale mondo “globalizzato”.
Oggi il Kérala (che conta quasi un 20% di cristiani), è uno stato tra i meglio organizzati dell’India e tra quelli in più rapido ed ordinato sviluppo. Oramai da più di mezzo secolo qui hanno governato i comunisti e le sinistre, perciò è molto frequente vedere bandiere rosse con falcemartello lungo le strade (dopo l’interruzione di una legislatura con al governo i neoliberisti di centro-destra, le sinistre rinnovate hanno di nuovo vinto le elezioni). Qui sono molto forti le organizzazioni sindacali, e si è radicata una rete di cooperative in molti settori dell’agricoltura e dell’artigianato. Tutti sono alfabetizzati, c’è una buona assistenza sanitaria e i servizi sociali sono efficienti. Ci sono in prevalenza prezzi fissi e onesti, e si contratta poco. In generale c’è molta dignità. Sarà stato un caso ma non si è mai avvicinato un bambino, o un mendicante, che ci avesse chiesto l’elemosina, se non in cambio di qualche piccolo prodotto o di qualche servizio. Oltre alla lingua locale malayalam, moltissimi parlano inglese, e ciò facilita i nostri contatti con persone generalmente gentili e corrette. Il turismo è in notevole sviluppo, sia per le belle spiagge, le montagne, la vegetazione e i paesaggi, i parchi naturali, le riserve faunistiche, sia per la buona organizzazione di centri di cure ayurvediche, di scuole di yoga, e per le attività culturali (in particolare di musica e danza classica).
Purtroppo la danza kathakali, l’ho vista soltanto in televisione, anche se forse in quel modo l’ho potuta apprezzare anche maggiormente, grazie al commentatore. Questi spiegava che si tratta di una antica pantomima, specifica solo del Kerala, per cui si raccontano favolose storie tradizionali, attraverso la danza, con movimenti emblematici, e con un vistoso trucco (i danzatori tradizionalmente erano tutti uomini) e un abbigliamento dai significati simbolici.
La prossima volta che verrò in Kerala mi piacerebbe poter assistere a delle lezioni in una scuola di kathakali; e anche visitare un centro di meditazione che dà insegnamenti basati su una antica saggezza tramandata oralmente, fondato e gestito da una donna, una guru mata, che dispensa calorosi e affettuosi abbracci a tutti coloro che vanno ad incontrarla (indipendentemente da gerarchie di caste, e di fuori-casta, e “intoccabili”), e sono assai numerosi, perché qui è molto venerata ed è amorevolmente chiamata da tutti Amma, Madre.

FAVOLOSE STORIE D’ORIENTE
Pensate che il termine moderno di serendipity, oggi tanto in voga, è sì inglese, ma in realtà deriva da Serendib, nome arabo per le coste della punta sud dell’India e di Sri Lanka-Ceylon,  nome molto usato dai mercanti arabi che trafficavano portando le spezie e i tessuti  da lì a Baghdad, e a Damasco. In effetti nella puntata in cui vi ho parlato della storia della costa del Malabar e dei commerci e contatti con vari popoli di terre lontane, mi ero scordato di menzionarvi i rapporti con la Persia e con i Paesi arabi, che furono intensissimi per tutto quel periodo che noi chiamiamo medioevo, ed oltre.
Il nome di Serendib è menzionato in “Simbad il marinaio”, che è più esattamente “Sind-bad”, ciclo di racconti favolosi, incluso poi anche ne “Le Mille e Una Notte” * relativo al periodo attorno al Millecento, (ma presente già nelle “Mirabili cose dell’India” del sec.x redatto in persiano-farsi), in effetti Sind significa genericamente “India”, ovvero sta a indicare tutte le terre al di là del fiume Sind (o Hind, che il “nostro” Alessandro Magno voleva conquistare ma che non raggiunse). Il nome Sinbad sta anche per “il saggio navigatore”, che per metafora sarebbe quel che noi chiamiamo un filosofo, e viene dal nome di uno degli antichi Sette Savi indiani: il saggio Sindbad. Questi è menzionato nel Kalì wa Dimna, testo antico perduto, trad. in arabo nell’ VIII-IX sec., e poi in greco bizantino nell’ XI come historikòn Syntipa tou philosòphon, storia di Suntipa il filosofo, dove sono riportati i racconti relativi ai Sette Savi dell’India. Il nome Sinbad dunque fu attribuito come epiteto ad un vero saggio navigante, cioè a uno straordinario marinaio le cui avventure dal significato allegorico, sono raccontate in quel ciclo di storie che vi dicevo prima.
In Età Moderna il termine serendipity fu coniato dallo scrittore inglese Sir H. Walpole nel 1754 per riferirsi a ciò che accade a coloro che scoprono fortunosamente cose che non stavano cercando. Egli formulò questo neologismo dopo che lesse una antica novella persiana tradotta in italiano da Cristoforo l’Armeno, e pubblicata a Venezia nel 1557 col titolo Pellegrinaggio di tre giovani figliuoli del re di Serendippo. In cui si raccontano le avventure di tre prìncipi indiani che mettendo a frutto straordinarie doti di osservazione e perspicacia, riescono a scoprire verità su fatti e cose a loro sino a quel punto del tutto ignote, attraverso una serie di indizi inattesi in cui si imbattono durante il loro viaggio, e provocando bonariamente i loro informatori in argute chiacchierate in cui vari temi vengono toccati come per caso. Tale racconto fu preso come parabola del percorso di ricerca, per indicare appunto la capacità di cogliere inaspettati segni indiziari in un cammino intrapreso inizialmente per altri fini.
Ma ritorniamo alle origini, e troviamo prima del coraggioso e avventuroso marinaio, e del grande e leggendario filosofo antico, la figura emblematica di un precettore! Dunque dovete sapere che il saggio Sindbad era il precettore del figlio di un re, di un raja della costa del Malabar, o di Ceylon,  e si racconta che egli lo proteggesse assegnandogli il compito di osservare il silenzio per una settimana come prova o esercizio spirituale contro le tentazioni della parola. Come si spiega questo? Il principe dovette compiere questo esercizio di grande difficoltà, poiché quando vide certi segni, che interpretò come indicanti un pericolo imminente, corse a raccontare tutto al suo buon precettore. In effetti poi succede che la matrigna tenta di sedurlo, ed essendo stata respinta dal giovane principe, lei che è la maharani, la regina, lo accusa poi pubblicamente presso il marito di tentato stupro, chiedendo la sua messa a morte. Allora sette saggi di corte interpellati, raccontano al raja, una storia a testa al giorno, in cui con molta arguzia lo intrattengono sui pericoli delle decisioni affrettate, e sugli intrighi donneschi, alludendo in modo assai sottile ed ironico a quanto accaduto. Storie cui la maharani ne contrappone ogni volta altrettante di segno opposto. Dopodichè il giovane principe alfine parla e rende testimonianza contro la matrigna provando la sua innocenza.
Si delinea qui il ruolo protettore e paterno del precettore, che conosce la disposizione ingenua e naif del giovane, ma anche la facilità che ha a parlare senza riflettere. Inoltre il precettore è anche un saggio che  conosce il fascino che esercitano le apparenze, e il rilievo dei sentimenti e delle emozioni nella formulazione di giudizi, nonché i funesti frutti dell’ira in personaggi potenti.
La forma narrativa è quella in cui si esprimono nelle culture antiche in modo comprensibile e accessibile concetti e problematiche complesse. Il genere letterario è quello tipico con struttura a cornice che contiene una o più serie di conti di “forma semplice” (cfr. A. Jolles, trad.it. Mursia editore).
Ricorre qui il tradizionale tòpos sui secondi fini dei consigli femminei, di cui bisogna che il potere patriarcale impari a diffidare, e dunque su quell’astuzia ritenuta tipica delle donne. Il tema è ricorrente, e trova la sua prima formulazione nel rotolo della Torah, “Bereshìt” (=in greco Ghénesis, il libro iniziale della Bibbia), nella storia di Joseph figlio di Jacob e della moglie di Potifar, il ministro del Faraone (e qualcosa di non molto dissimile si legge pure in Erodoto, quando nelle sue Historiai, I.8, racconta una leggenda della Lydia, già riportata da Archiloco nel VII sec.av.C., su come la moglie del re fece uccidere il marito e regnò assieme al suo amato Gige, storia che oggi tutti conosciamo perché menzionata nel film “Il paziente inglese”, e che ha delle affinità con la vicenda micenea di Klytemnaistra e Aga-Amemnon, tutte storie che poi un po’ rifuse da Shakespeare ritornano sotto altre forme nell’Amleto).
Ma questa versione del saggio Sinbad del Sud dell’India, mi piace molto, se permettete, perchè valorizza il ruolo educativo del buon precettore…
*cfr. di M.-C. Leuzzi, “Le mille e una notte di Shahrazàd”, in History of Education and Children’s Literature,  II/2, Edizioni Università di Macerata, dic. 2007, pp.403-409, n.13

ALL’ ASHRAM
7 agosto
Dopo aver attraversato al mattino molto presto la linea divisoria tra lo Stato del Karnàtaka e il Tamil Nadu (=il Paese dei Tamil) con un treno in seconda classe, siamo scesi a Vellore Junction, dove c’è una spettacolare fortezza del 1500. Di qui quattro di noi (cioè Annalisa con Ghila, e Paolo con Loredana), hanno deciso di andare verso la costa, mentre io con Michele, e con Marco-Lucia-Antonio-Enrico, abbiamo preso una quattroruote in affitto e ci siamo diretti verso una cittadina con un famoso tempio antico, sotto un monte sacro, dove Marco & Co. erano passati due anni fa, e che tanto era loro  piaciuto e rimasto impresso, per cui volevano ora rivedere e conoscere meglio il luogo.
Si attraversano zone con una vegetazione veramente splendida, zone con grossi massi lisci, ovoidali, di varie forme, che a volte accatastati compongono grandi colline. Sono affascinanti, con un color marroncino sbiadito, o rosato-giallognolo, o sul rossastro, che cambia con il cambiare dell’illuminazione solare. Vediamo anche belle montagne, e, sempre di passaggio, altre fortezze, e bei templi, e pure una lunga muraglia medievale che attraversa i campi per miglia. Dopo circa quattro ore arriviamo nella cittadina di Tiruvannamalai. Scendo per comperare un asciugamano e delle forbicine al mercato, e poi proseguiamo lungo i declivi della montagna adiacente, il monte sacro dell’Arunachala (=dell’immutabile Aruna). Si dice che basti o esser nati a Thiruvarur, o morire a Benares (Varanasi), o anche solo rivolgere il pensiero all’Arunachala, là dove è sorto il grande Shiva,  ovvero dove si è manifestato originariamente su questa Terra, per poter avere aiuto al raggiungimento della moksha, la liberazione spirituale…
Ecco che verso mezzogiorno entriamo nell’ashram, che sta proprio esattamente dall’altra parte del monte rispetto alla cittadina, in una zona tranquilla con un vicino paesetto campagnolo. Il cartello all’ingresso dice “Self Knowledge Village – est.1983 – Suddhananda Ashram”. Con quest’ultimo termine si indica un ritiro spirituale, ovvero un centro di meditazione. Letteralmente vorrebbe dire: luogo di impegno. E questo è dedicato alla ricerca della conoscenza di sé, fondato nell’83 dallo swami  (=reverendo) Suddhananda.
Com’è un ashram? posso dire com’è questo. All’ingresso è bello, dopo un vialetto alberato ci si ferma dinnanzi alla ricezione, dove c’è un grande alberone ombroso, e oltre c’è un semplice giardino, e un tempietto circolare.
C’è subito silenzio, appena l’auto spegne il motore, e l’aria è asciutta e ventilata. Dalla ricezione ci viene incontro una signora molto affabile dall’aria giovanile, che attendeva il nostro arrivo, si chiama Lakshmi. Veniamo accompagnati poco più oltre dove ci sono delle piccole casettine in muratura, ciascuna consistente in un vano con due brande e un bagno con lavandini, doccia e water. E’ un po’ come nel Lodge del “Parco Naturale di Bandipur”, dove siamo stati l’altro giorno passando sulle montagne dal Kerala a Mysore, solo che è un po’ più spartano e più piccolo. “Gestite il vostro tempo come desiderate -ci dice Lakshmi- lì cè il tempio, e laggiù una sala di meditazione, potete girare tutt’attorno, il nostro terreno è ampio, ed uscire ed entrare a piacimento. Alle 6 un thé aromatico, alle 8 prima colazione, alle 12.30 il pranzo, alle 16 un altro thé, e alle 19.30 la cena.”  Ci ritroviamo subito con tutto il giorno a disposizione, e per il momento ci mettiamo in osservazione dell’ambiente e del paesaggio, e ci godiamo il silenzio.
Gli elementi costitutivi di questo piccolo ashram, che possono risultare subito attraenti, sono semplici, ed essenziali. Riguardano l’ambiente naturale e l’ambiente umano. Per il primo, come già detto siamo in campagna (pur vicino alla cittadina), alle pendici del monte di cui si gode una bella prospettiva, c’è una bella vegetazione e un bel giardino curato, ci sono delle risaie, dei campi coltivati, si vedono e sentono uccelli vari e scoiattoli, nel cielo le nuvole corrono per la brezza, la sera vedremo stupendi tramonti, e di notte c’è pure una bellissima luna luminosa… Per il secondo: atmosfera tranquilla, rilassata, rapporti gradevoli e cortesi, poca gente, sistemazioni spartane ed essenziali, ma ben inserite nel contesto, ci si può mettere con la sedia davanti all’ingresso della casetta sul prato, e stare lì a leggere o a pensare. Non c’è sporcizia, solo polvere, non ci sono brutti insetti, neanche mosche, solo un po’ di zanzare, sulle pareti dei gechi, e piccolissime raganelle in bagno. Cibo genuino non troppo piccante, acqua  buona e fresca, in abbondanza, da un pozzo artesiano, con loro depuratore. Lo swami che c’è qui, Sashwatananda, è abbastanza giovane, sorridente, un tipo di buon umore; lei è una persona estremamente gradevole. E dunque si possono fare piccole conversazioni distese. Si guarda il monte e se ne ammira la bellezza essenziale, si accetta il fresco che la pioggia ogni tanto apporta. Tutto qui, …e non è poco! Nella camera ci sta ben poca roba, e comunque non si saprebbe dove metterla, ma ti puoi fare la doccia, e così ti cambi con vestiti puliti, gli altri li lavi e li appendi alla corda che c’è fuori, agganciata a un albero, e dopo poco sarà già tutto asciutto, anche gli asciugamani, grazie al venticello che spira tra gli alberi e alla temperatura elevata ma secca. Siamo in una pianura che è un altopiano, e il terreno è sassoso. Chi vuole legge o scrive come sto facendo io ora, ma spesso ci si distrae a guardarsi attorno, o se volete ci si concentra a seguire con lo sguardo una ranocchia, o ad osservare uno scoiattolo, o un uccellino, o una lucertola, o il cane, la gallina, o i gattini, o si ascoltano i corvi gracchiare, o semplicemente si vaga posando via via lo sguardo sul panorama circostante. Se si apprezza questo, tutto è bene.
Ora ci chiamano: deen – deen, suona la campanella del pranzo. Dieta “pure veg”, cioè vegetariana pura, ossia senza uova (né pesce). Tutti (ovvero oltre a noi quei pochi che ci sono) si avviano verso lo spiazzo-mensa. Si tratta molto semplicemente di uno spazio aperto pavimentato, sotto un colonnato che sostiene una tettoia. Ci si mette a sedere per terra su delle stuoie di paglia intrecciata. Ma chi vuole (come me e un altro) si siede sul muretto basso tra le colonne. Si mangia come nel sud, con le mani, o meglio con la sola mano destra. Io chiedo un cucchiaio e subito mi viene dato. Arrivando si prende un piatto di alluminio con i bordi, una ciotola e un bicchiere, sempre di alluminio, e si va a lavarli ai rubinetti, con la cenere, o con della polvere di pomice e delle spugnette. Poi si sta in fila indiana e si passa dinnanzi a un tavolo basso con su i pentoloni, e ci si fa dare, o si prende, qualche mestolo di ciò che c’è.
Assieme a noi sei, ci sono per pranzo anche quelli che vivono qui, cioè, oltre a Swami-ji Sashwat e alla dolce Lakshmi che già abbiamo visto, anche quelli che ci lavorano (per le pulizie e il mantenimento, e per la costruzione delle parti nuove), quelli che sono qui temporaneamente o come ospiti. Nello spiazzo pavimentato ci sono pure Seeva, un bel cagnone, una gatta con due gattini, un gallo, a volte una gallina, e tutt’attorno corvi, cornacchie, scoiattoli, uccellini, e ogni tanto una cagnetta. Inoltre di là in cucina c’è la cuoca, suo marito, le due bimbe, una di 4 e un’altra di un anno, e tre ragazzi inservienti. Tra gli ospiti c’è un bel vecchio con la barba lunga bianca, avvolto in un telo azzurro e uno bianco. Mi dicono che ha più di ottant’anni. Io vedo in lui la figura di Socrate… Poi c’è uno sulla cinquantina vestito con un telo arancione, ha la barba un po’ nera un po’ grigia, e gli occhiali con la montatura spessa. Lakshmi ha detto che non è uno swami, e nemmeno un sannyasi, ma semplicemente un hindu, credo voglia dire con questo che è un fedele, e nient’altro. Ed è l’unico oltre a me che si siede sul muretto, su un cuscino (io sono invece l’unico ad usare un cucchiaio).
Socrate (ma d’ora in poi -dato che in effetti non è Socrate- lo chiamerò Socrate-ji, perchèil suffisso -ji si aggiunge al nome in segno di rispetto; per es. quando parlano di Ghandi, o usano il titolo di Mahatma, cioè il Grande Spirito, oppure dicono Ghandiji), dunque Socrate-ji è arrivato presto in sala-mensa, e siccome “l’hindu arancione” non c’era, si è seduto sul muretto, ma appena ha visto che stava arrivando, si è alzato ed è andato a mettersi per terra sulla stuoia; chissà quale significato ha questo suo atto? forse c’è dietro una gerarchia, un motivo di casta? C’è in verità anche un altro che sta seduto anziché accovacciato, ed è uno che ha l’aria di essere un poveraccio, si mette sempre in disparte da solo, un po’ lontano, nell’altro spiazzo adiacente… chissà? forse è quest’uomo è di casta bassa, o un “paria”, un intoccabile?  Quando tutti “loro” (e noi sei) ci siamo serviti, o siamo stati serviti, si servono le donne delle pulizie, che si siedono un po’ più in là (la “sala” è piuttosto ampia), e poi alla fine gli stessi inservienti e la famiglia della cucina, con le loro due bimbe piccole.
In cima alla “gerarchia” locale, certo ci sono Swamiji Sashwatananda, e Lakshmi. Lui è simpatico, e lei mi piace molto, per come si muove, per come parla, per la serenità che mostra di avere. Ha un bel viso, nonostante i brutti occhiali, deve avere circa sui 48 anni, porta bene con grazia i suoi semplici ma bei saree di cotone.
Poi sopraggiunge “l’americana bianca” con la sua particolare andatura, il corpo ben diritto, con il suo sorriso permanente ma sincero, il suo bel saree arancione. Ringrazia tutti gli “inservienti” e tutti gli altri con gentilezza, ma senza proferire parola, e se ne va, un po’ eterea, portandosi il suo vassoio nella sua casetta. Evidentemente sta praticando l’esercizio del silenzio, perché ho notato che non parla mai con nessuno per nessun motivo in nessuna occasione, ma si fa capire lo stesso. Credo stia qui da parecchio tempo…
Intanto il cagnone Seeva va a mangiare dal secchio degli avanzi, poi si fa avanti la cagna, ma lui la caccia con qualche ringhiata molto eloquente, e lei se ne va con la coda tra le gambe. La gallina passa attraversando un po’ altezzosa la sala mentre noi mangiamo, e i gattini si rincorrono veloci giocando, poi si fermano a pietire cibo perché loro non riescono a prenderlo dal secchio. I corvi guardano e commentano, e il gallo attraversa dandosi delle arie.
L’ottantenne Socrate-ji di solito prende solo del lassi (yoghurt acido liquido) nel suo piatto, e così farà quasi sempre, a volte fa mettere un pochino di cibi solidi ma nella piccola ciotola, oppure mischia il lassi con del riso, ma il tutto in piccole quantità. Poi va a lavare il suo piatto, e se ne va portandolo con sé, con molta dignità.
Arriva Swamiji (che anche gli altri giorni giunge dopo aver fatto lezione da qualche parte), e commenta, e chiacchiera e scherza. Prende un po’ in braccio la piccola di un anno, e fa conversazione di là in cucina. Lakshmi da informazioni a tutti, e si informa di noi.
Al tramonto andiamo in fondo al terreno dell’ashram, attraversando delle risaie con bellissimi uccelli e specie di aironi, e altri tipo fenicotteri, e andiamo sul terrazzo della casa di meditazione, per ammirare il passaggio dalla luce alla sera. O facciamo due passi fuori dal cancello verso il paesetto. Già dalla prima sera lungo la strada si moltiplicano quelli che allestiscono dei tendoni, o degli altarini, e certi cantano, oppure certi mettono su musicassette con nenie ripetitive che si sentono sin in camera.
Chiediamo come mai queste attività e scopriamo che domani sarà la prima luna piena d’agosto e che quindi arriverà molta, molta gente, e rimaniamo un po’ sorpresi.
Andiamo a dormire sulla nostra branda di legno rigido, e Michele, stanco per la giornata  è preso subito da un profondo sonno. Di notte invece io fatico a dormire, sono attraversato da pensieri sull’India, su questo Sud di tradizioni dravidiche, su cosa è un ashram, che senso ha venerare una montagna, su cosa rappresenta simbolicamente questo antichissimo dio che è Shiva, e mi chiedo se è l’influsso della luna piena che mi agita, o sono forse dei minerali, magari delle forze magnetiche che stanno nella composizione geologica del monte, a comunicarmi questa irrefrenabile attività mentale, e devo, devo scrivere, e scrivo queste note di diario, e varie disparate riflessioni. Tutto al buio assoluto, non vedo nulla ma devo scrivere lo stesso… Domani sarà meglio comperare una pila, in modo che senza disturbare Michele potrò (se dovrò) scrivere ancora ma almeno vedendo la pagina del quaderno… mi acquieto, o meglio crollo di sonno, ad un’ora certamente piccola.

DARSHAN
A pranzo ci dicono che siamo fortunati perchè proprio oggi arriva swami Suddhananda qui nell’ashram, e poi ripartirà domani. E questo è un altro evento eccezionale non previsto, della nostra permanenza qua. Restiamo in attesa di poterlo vedere, e magari facesse un discorso, sarebbe interessante poterlo sentire. Intanto che lavo il mio piatto, mi pare di sentire delle voci che non conosco, venire da in fondo al sentiero. Vado a vedere, e se fosse arrivato adesso? Intravedo due figure con abito arancione-giallo, sono là dove stanno costruendo il nuovo tempio, e forse sarà lui che è andato là per vedere a che punto sono i lavori. Lo scorgo che è dove c’era la statua coperta, che ora è visibile, e sta parlando con chi lo ha accompagnato. Mi avvicino, capisco quale è lui (avrà circa 50 anni), e lo saluto. Mi invita ad entrare a vedere anch’io la statua appena “scoperta”. E’ molto strana e interessante. Quando finisce di parlare con i suoi, approfitto e gli chiedo qualcosa sulla statua, sulla sua particolare postura. Mi dice che si tratta di Lord Dakshinamurty, ma io non ho idea di chi rappresenti. Risponde che è la prima incarnazione di Shiva, ed è nella forma del primo insegnante. cioè? è Lui -dice- che ha dato i primi insegnamenti, le prime leggi del cosmo, la prime regole della vita. Ma, mi ricordo che due anni fa nel Rajahstan avevamo imparato il nome della dea dell’educazione e delle arti, non è dunque Saraswathi? E’ differente, mi risponde, She is the Goddess of Learning, lei è la dea dell’apprendere, mentre He is the  God of Teaching, lui il dio dell’ insegnare. E’ straordinario: già a quei tempi arcaici della civiltà umana in India avevano disgiunto i concetti dell’apprendimento e dell’insegnamento! Intanto sopraggiungono gli altri, che sono un po’ sorpresi di vedermi conversare con Swami-ji Suddhananda. E dunque gli chiedo se magari in serata quando avrà terminato i suoi impegni sarebbe disponibile a spiegarci più distesamente i significati simbolici di quella rappresentazione statuaria, e intanto gli presento gli amici. Ci dice di essere contento di incontrarci, e di essere volentieri disposto a fare una conversazione con noi verso le 6 p.m.
Figurarsi come siamo tutti entusiasti, una occasione molto rara e imperdibile, e oltretutto ci saremo solo noi. ..
Nel pomeriggio lo vedo passare parlando con l’ “americana” che conversa con lui normalmente…., è forse finito per lei il suo periodo del silenzio?
alle 18 in punto ci facciamo vedere, e ci fa segno di seguirlo nella bella casa che sta lì accanto. Ci sono due belle colonne in legno molto vecchie, a forma di cono rovesciato, e dentro un patio di legno intarsiato, pure molto vecchio. Dice di aver salvato questi elementi architettonici dalla distruzione in un villaggio di campagna, e che rappresentano esempi della arte tradizionale che oramai non si realizzano più. La sua casa dunque è in realtà una sorta di museo di bellezze locali. In sala c’è una stupenda statua antica in legno duro (tek?) levigato. Gli chiedo se si tratta di Nataraja, il Re della danza che avevo visto nel museo di Ahmedabad nel viaggio scorso. Mi dice che Nataraja è una manifestazione di Shiva sotto forma di chi dirige la danza cosmica dell’universo, mentre questa è Tribikram, una manifestazione del Dio Vishnu. E’ bellissima, e il movimento della danzatrice è reso in modo straordinario. Siccome non ho ben capito il nome me lo faccio scrivere (e anche quello della statua là fuori vista a mezzogiorno) da swami Sashwatananda con cui oramai sono un po’ più in confidenza; e lui scrive Lord Tribikram incarnation of Bishnu, con la bi, evidentemente loro non avvertono una gran differenza nel fare la traslitterazione dall’alfabeto tamil tra v e b. Ci sono anche altre statue, ma ci colpiscono i bellissimi affreschi che dice di aver fatto eseguire da bravi artisti come copie fedeli di opere nello stile tradizionale dello stato dell’Orissa (dove c’è la “casa-madre” della Fondazione di Suddhananda). Vi sono raffigurati per es, un elefante, e in un altro una barca, composti interamente da figurine graziose di danzatrici, che danno una notevole impressione di movimento all’insieme. Tutto molto colorato, tranne un affresco che è in bianco e nero. Anche nel tempietto circolare ci sono dei magnifici retabli in legno con bassorilievi, e una bella statua al centro. Anche in sala-mensa c’è un piccolo ma grazioso affresco ad una parete. Insomma s. Suddhananda è un amante dell’arte e delle cose belle, e questa casa di fatto è più che altro il museo che c’è nell’ashram, e che lo arricchisce con questi pezzi stupendi.
Saliamo di sopra, e ci sistemiamo nella terrazza costruita sopra il tetto. Da qui c’è la più bella vista del monte sacro, dell’Arunachala. Ci dice che il punto e la prospettiva dove fare la casa e come orientare la terrazza, l’ha scelta lui. Anche molto bella è la vista sull’ashram, dato che siamo appena un po’ sopra il livello degli alberi, e si spazia  con gli occhi per tutta la piana, con le silhuettes delle altre colline circostanti e la vegetazione tropicale: questa serata è splendida. Già ieri sera c’era una luna piena veramente maestosa, con attorno un alone azzurrognolo-violetto con strisciate di arancio tenue, e ora c’è un cielo terso, e nell’aria pulita c’è una piacevole brezza continua, piena d’ossigeno.
Ci sediamo in cerchio, e lui ci dispone rivolti verso l’Arunachala che tiene alle sue spalle.
Inizia a dire qualcosa, ed è subito un discorso intrigante anche se non si coglie ancora bene dove voglia andare a parare. Racconta di uno che voleva sentire gli insegnamenti di un maestro che stava su una montagna lontanissima. Giunto là, gli chiede quali sono i suoi insegnamenti, e lui risponde, “di esser gentile col prossimo, di non causare sofferenza”. Allora l’aspirante allievo gli dice, “ma ho viaggiato a lungo, e mi dici cose che le sa un bimbo di quattro anni, non potresti dirmi di più?”, e il maestro risponde, “quelle cose che tutti sanno a 4 anni nessuno a 40 le applica”. Quanto è importante questo! E’ per questo che vivere diviene fonte di grandi conflitti esteriori e interiori. Invece di cercare grandi cose in libri, conferenze e altre fonti, perché non riflettiamo sul fatto che troviamo tanto difficile praticare quel che consideriamo esser giusto? Diceva Duryodana all’epoca del Mahabharata, rivolgendosi a Lord Krishna: “Oh Signore, io so cos’è giusto, ma spesso non sono interessato a farlo, e io so cos’è ingiusto, ma non riesco a trattenermi dal farlo”. Il problema  è questo, che ognuno sa cos’è giusto, ma non sa come agire correttamente, facendo quel che è giusto ed evitando di fare quel che è sbagliato, ingiusto. E ciò è dovuto al fatto che abbiamo la mente ingombra di troppi pensieri.
L’automobile non ha la capacità di muoversi di per sé, è l’autista che la fa muovere. Se tu vai in una direzione e fai certe cose, non è l’auto che ci è andata da sé. Così il nostro fisico, è la mente che lo fa muovere verso una direzione. Con i sensi attenti, noi assorbiamo continuamente impressioni e le registriamo nella mente. Queste impressioni sono il contenuto della nostra mente e generano pensieri. Il fisico (e in particolare il cervello) è come un registratore che registra continuamente. Se vuoi riflettere su quel che è stato memorizzato, sui tuoi pensieri, le tue idee, le impressioni che sono il prodotto delle registrazioni, non puoi farlo se non fermi il registratore, riavvolgi il nastro, e poi lo ascolti con attenzione. Cerca di calmare la continua produzione di pensieri, di associazioni di idee, nate dalla necessità di classificare le impressioni ricevute. Per imparare a pensare è meglio non esser confuso da troppi pensieri. Per ogni cosa che mi da pena, o mi agita, corrisponde un pensiero nella mia mente; se non vi fosse quel pensiero, la cosa di per sè non mi turberebbe. I pensieri sulla mia infanzia, il mio paese, i miei genitori, non esistono nella tua mente e non ti creano alcun sentimento piacevole né alcun tormento! e così è viceversa. Distinguiamo dunque tra i pensieri e il pensare. I pensieri ti fanno fare cose anche assai sbagliate. Spesso confondi un oggetto, o un’altra persona, con i tuoi pensieri al proposito. A volte si crede di amare o odiare qualcosa o qualcuno e ci si comporta di conseguenza, sinchè non ci si accorge che le nostre aspettative erano errate. Eravamo convinti di amare la nostra fidanzata, mentre amavamo in realtà quel che credevamo di trovare in quella persona, o viceversa. Quando poi, cambiamo idea al riguardo, il rapporto non ci sta più bene … l’auto sembra essere fuori controllo e ci fa sbattere contro un ostacolo. Ma siamo noi che  abbiamo diretto l’auto sino a quel punto…
Dice di fargli ora noi qualsiasi tipo di domanda, e allora Michele gli dice che cosa non ha ben colto di un esempio che aveva appena fatto. Di lì inizia un suo lungo discorso, fitto di metafore, esemplificazioni e similitudini, in un inglese chiaro con una pronuncia molto più accessibile della solita parlata indiana. Un discorso che essendo molto piano e scorrevole rischia di apparire più elementare di quanto forse non siano i suoi contenuti (lo penso, perchè prima di venire mi ero letto varie pagine da sue pubblicazioni che io e Marco avevamo comperato appositamente in ricezione).
Esiste il mondo ed esistono delle mappe che lo descrivono, ma le due cose sono incommensurabili, tuttavia è in quello spazio intermedio che noi viviamo cercando di orientarci con la mappa di cui disponiamo mentre stiamo andando in giro con la nostra auto in zone che non conosciamo….
Ora è tutto rivolto a Michele e ai ragazzi, e fa frequenti riferimenti critici verso la cultura diffusa nelle società dei consumi, e dei comportamenti massificati. Forse pensa che quelli siano i temi più adatti per dei ragazzi. E’ didascalico, ma ci mette una verve, e fa frequenti battute di spirito, per cui catalizza fortemente l’attenzione.
Il suo discorso in generale è stato indubbiamente stimolante oltre che interessante, in sostanza un pressante invito ad accrescere la consapevolezza, il senso critico, le nostre conoscenze, e l’abitudine all’autoanalisi.
Nel frattempo giungono altre persone, indiane, e poi una grande famiglia, arrivata con un taxi da lontano. Evidentemente si è già sparsa la voce della sua breve presenza a Tiruvannamalai. Il capofamiglia si prostra dinnanzi a lui in un gran inchino, e poi gli bacia la mano (come potrebbe accadere da noi con un monsignore, o un sant’uomo). Ma lui ci dedica molto altro tempo, e in totale sta a parlare con noi più di un’ora e mezza! Poi ci invita a lasciarlo parlare con chi è arrivato, con cui inizia subito ad interloquire in tamil. Lo salutiamo, e gli chiedo se ci potremo vedere ancora prima che riparta. Dice di tornare pure domattina se dopo questa conversazione abbiamo da chiedergli delle cose. Lo ringraziamo moltissimo per la sua disponibilità, ma dice che gli hanno fatto piacere le curiosità e le domande che abbiamo espresso, e a quel punto si ricorda della mia richiesta a proposito della simbologia presente nella statua. Allora dice che la cosa più importante è la postura della mano destra, che sta appunto a simboleggiare il suo essere insegnante. Tiene il pollice e l’indice a cerchio, perché queste due dita potrebbero anche reggere una sorta di rosario, mentre le altre tre dita stanno ben ritte e unite. Queste fanno riferimento al forcone tridente di Shiva, e quindi a creazione, distruzione, e rigenerazione, ma anche alla prossimità, e all’unità sostanziale di passato, presente e futuro, solo formalmente distinti, mentre pollice e indice, indicano la circolarità e la continuità quasi senza soluzione dell’essere. Inoltre questa postura della mano rivolta verso l’alto e con il palmo rivolto verso i discepoli (l’umanità), è appunto una figura allegorica dell’insegnamento spirituale, ma anche fa riferimento ad una semplice ma importante tecnica di meditazione. Ma è anche tante altre cose, però ora ci congeda.
E’ già sopraggiunta l’oscurità notturna, ed è oramai molto vicino il momento della campanella per la cena.

CHI E’ GURU ?
Michele mi chiede: ma che cos’è che fa di un guru, un guru? giusta domanda ora che siamo qua, e che abbiamo l’occasione di conoscere da vicino un guru. Correttamente Marco gli risponde che è innanzitutto è il fatto che ci siano molti che lo considerano tale, e poi il fatto che ha fondato una sua “scuola” che molti seguono, e continuano a portare avanti il suo impulso, e dunque è uno che è riconosciuto guru per il fatto che è divenuto un punto di riferimento.
Poco prima io gli avevo detto che secondo me due sono le possibilità; 1- o è un creativo, uno che dice cose originali e interessanti, che è dunque molto colto o  intelligente o saggio; 2 – o/e è uno che esercita un fascino, che ha carisma, che ha “una marcia in più”, insomma che ha una forte personalità. Le due cose poi potrebbero darsi singolarmente, oppure sommarsi, e in quest’ultimo caso si tratterebbe di un personaggio veramente eccezionale.
Ma a ben pensarci il primo requisito non è sufficiente, perché in questi casi (cioè di persone che raccolgono attorno a sé altre persone) per essere lui un guru, non è detto che basti dire cose di grande originalità o proporre un proprio punto di vista interessante, perché se non ci fosse altro, basterebbe leggere i suoi scritti. E invece qui non si tratta eminentemente di un fattore intellettuale, non è in primo luogo il fattore razionale (cioè dei ragionamenti che egli svolge) quel che più conta. Nel caso del guru stiamo trattando di un personaggio che si impone sul piano spirituale; è sul terreno della spiritualità che si afferma un guru come qualcuno che diventa come si diceva, un punto di riferimento, uno che va dunque ascoltato e sentito dal vivo, per cui si cerca il contatto diretto con lui. Siamo di fronte ad una figura sociale che si è strutturata nell’ambito della cultura orale. Soltanto, o soprattutto, di persona si avverte la sua energia, la sua carica, il suo carisma, l’influsso della sua presenza, e della sua capacità di comunicare e di creare una atmosfera. Costui è qualcuno che viene dagli altri avvertito, percepito nella sua eccezionalità come un Guru. Che a tanti altri poi piaccia o non piaccia, poco conta. Ovviamente se fosse solo ed esclusivamente presente questa componente, allora vi potrebbero essere anche casi di “falsi” guru, di manipolatori delle emozioni e della emotività altrui (e ciò avviene anche in occidente chiaramente, sia pur con nomi diversi: predicatori, beati padri, ecc., comunicatori abilissimi, gran istrioni, uomini di spettacolo, incantatori astuti delle masse ovvero del grande pubblico). E  poi facevo a Michele il paragone con il grande artista, cioè la forte personalità autenticamente creativa, originale, e innovativa. Egli è grande e unico nella sua opera, lì da qualcosa che altri non riescono a dare. Ma poi nella quotidianità è un individuo comune, come tanti altri, anzi a volte è bizzarro, o di pessimo carattere, ovvero “strano” e difficile da reggere nei rapporti interpersonali. Per questo in molti casi è difficile “riconoscerlo”. Eppure in molti casi, ciò nonostante, si avverte che è un personaggio straordinario, si percepisce che ha dentro di sé un mondo straordinario da esprimere. Quanto poi alla interpretazione che l’artista stesso sa dare a parole della sua stessa opera, di cosa intendeva, del significato che lui vi attribuisce, oppure della sua complessiva concezione dell’arte, beh, in quel campo può pure darsi che non sia particolarmente interessante (se non per uno psicologo dell’arte, per uno studioso dei processi creativi, per chi è interessato a comprendere le personalità eccezionalmente dotate su certi aspetti….ecc).
Ma certo è difficile cogliere tutti gli aspetti che concorrono a fare di qualcuno un guru ovvero un maestro spirituale, o anche un maestro d’arte, uno che nel suo campo sia riconosciuto in vita come uno che si stacca dalla media e ha un contributo, qualcosa di straordinario da portare agli altri (e questo anche in caso non si concordi con lui). Molte dunque sono le componenti che si intrecciano, e difficile è dire in generale quali siano necessarie, quali sufficienti, quali siano da considerare eccellenti… ecc. Inoltre giocano fattori storici e culturali specifici.
Ci vuole comunque legittimazione da parte di altri per poter diventare un guru. Quindi prima di darla di conferirla questa legittimazione a qualcuno, prima di dire “per me ecco questo è il mio guru, di cui avevo bisogno”, è bene guardare in sé stessi e chiedersi che cosa ci si aspetta dall’avere un maestro, e che cosa dunque si proietta eventualmente su una figura esterna di questo tipo!
Ma comunque saper riconoscere uno spirito superiore, una grande personalità, è un pregio, perchè in effetti ci sono veramente uomini/donne eccezionali, ed è un privilegio poter esser loro accanto anche solo per un tratto, si può prendere moltissimo, Ci dirà l’ “americana”, che anche dopo essersi allontanati, finché c’è questo “ponte”, questo trait-d’union, supererai l’individualismo, l’egocentrismo, e vivrai nella copula vivificante, e continuerai ad acquisire le sue vibrazioni e la sua energia.
Certo, anche se poi si corre il rischio di un processo di tranfert perchè si stravede per loro, si incomincia a temere di perderli, si diviene dipendenti psicologicamente, non si è più in grado di fare da sé stessi. Ma accompagnarsi ad una personalità straordinaria per un tratto di cammino, e con autodominio di sé. basato su una minima autocoscienza, e dunque con un minimo di distacco critico, sia pure senza troppo scetticismo nichilista, è una gran cosa, un grande arricchimento. E in questo fortunato caso è probabile che nasca un sentimento di affetto, in un legame reciproco. Ognuno riconoscerà una parte di sé nell’altro e viceversa.
Ma sempre ricordando che la priorità sta nel rivolgere la riflessione a sé stessi, nelle fasi iniziali occorre innanzitutto riflettere su di sé. Chiedersi: perché senti la necessità di un guru? dopo di ché devi sentirne la necessità, lo devi veramente volere, devi metterti ad andare in ricerca, comparando, finché lo riconoscerai (o ti parrà di), o ti lascerai prendere. E poi domandarti, in cosa ha fatto crescere la tua autonomia? e in cosa no? Andrebbe tenuto sempre a mente che da parte nostra la delega, la legittimazione, potrebbe esser ritirata in qualsiasi momento.

SECONDO DARSHAN
L’indomani mattina riprendiamo i discorsi, sistemandoci nel terrazzino laterale più piccolo, che è quello in cui c’è la sua brandina dove dorme all’aperto. E per iniziare gli porgo un po’ sfacciatamente la domanda-dubbio di Michele: che cos’è che fa di una persona un guru? (ho letto che il termine in origine aveva questi significati: “colui che disperde le tenebre”, e anche “colui che rimuove l’ignoranza”; e che quindi si intende “che è carico di saggezza”).
Quando siete assieme, se tu sei studente -dice Suddhananda a Michele- lui è guru, cioè nella misura in cui tu sei studente, l’altro è guru, ma se tu non mi ritieni tuo insegnante, io non lo sono. E’ come per marito e moglie. In questo caso sono insegnante nella misura in cui ti so dire che cos’è un maestro. Ma, per esempio, se chiedo io a te chi sei, tu forse mi rispondi dicendo il nome che porti, proprio come designeresti questo come un lettino, o quell’uomo che c’è là come un autista. In questo caso ti contesterei: non dirmi queste cose. Né p.es. che sei italiano, ma dimmi caso mai che hai la cittadinanza italiana; così è per la professione tua, o per un ruolo sociale che tu hai; e così è per la tua fede religiosa. In quei casi, non mi staresti rispondendo chi sei, ma solo dicendo quali sono i tuoi vari attributi…
(parentesi. E intanto io penso: forse una volta era più plausibile (?): dimmi cosa e come mangi, e ti dirò chi sei, mostrami come ti vesti, fammi sentire come parli, e ti dirò chi sei, dimmi chi frequenti, o che mestiere fai, o chi sono i tuoi famigliari … eccetera. Una volta queste cose erano una introduzione valida per cercare di conoscere una persona, c’erano mondi di vita separati e ben caratterizzati da identità collettive con propri usi e costumi… c’erano ambienti ben marcati e qualificati… ma non è un po’ così ancora adesso? specie in India?).
Invece -continua Suddhananda- colui che ti pare ti indichi la via per migliorare la autoconoscenza di te stesso, quello è guru. Non sono il libri, le autorità,…a poterti dire chi sei! ma è l’esistenza stessa. I nomi sono solo convenzioni. Le scienze, sono relative, storiche. Chi indica, insegna, come trovare chi sei, è un guru, un Master. Quelle che ti apre sono conoscenze valide sempre. Quel che tu hai, e io ho, quel che tu hai acquisito, e quel che ho acquisito io, sono diversi, ma non quel che siamo noi in quanto esseri umani. I contenuti dell’insegnamento della self-knowledge sono semplici, non necessitano adattamenti particolarmente complessi. La conoscenza di sé, implica anche conoscenza del mondo come luogo di manifestazione del divino, perchè esso è pure in te.
Ora prendiamo in considerazione la versione antica indiana della Trimurti cosmica: 1. Brahma è il creatore, la sua versione femminile è Saraswathi, cioè education as learning, l’educazione intesa sotto l’aspetto dell’apprendimento; 2. Vishnu è il substainer, colui che mantiene,  perpetua l’ordine cosmico per una certa durata nel tempo. Le sue incarnazioni sono state Rama, e Krishna. Il suo aspetto femminile è Lakshmi, cioè prosperità, abbondanza, benessere; 3. Shiva sta per changer, il modificatore, colui che introduce i cambiamenti, e le norme di essi, la sua parte femminile è Shakti, ovvero power, inteso come energia, le di lei manifestazioni sono stati Parvati, Umma, Durga o Kali, e Devi (da non confondere con Amadevi, che invece è la “Madre” di Vishnu, che cavalca la tigre). Questa è la Trimurti, cioè l’Assoluto nel triplice volto supremo con cui si manifesta a noi.
Dunque, tutto ciò che si forma, per un istante di sospensione si preserva, poi si dissolve in quanto si modifica, si trans-forma. E ciò incessantemente, e questa meta-morfosi, questo movimento, questa attività, è Vita.
Così è per l’uomo (nei più antichi testi sacri che si conoscano, i Rig Veda, questa è la massima aspirazione che può avere l’umanità: “concedici o Dio di continuare a vivere attraverso i nostri figli e discendenti…!”), come per tutte le altre specie e forme del vivente su questa Terra.
La materia e l’antimateria, la luce e i buchi neri, l’essere e il non-essere, l’esistenza e la morte. Il tutto è la Vita cosmica. Energia = vibrazione, movimento. Lord Shiva è Nataraja, il re della danza.
Insomma -dice ancora Suddhananda- Lord Dakshinamurty, quello della statua che c’è là nel tempio (cioè education as teaching, l’educazione intesa sotto l’aspetto dell’insegnamento), ci indica, ci da innanzitutto questa istruzione: senza conoscenze non puoi creare nulla. Inoltre chi crea qualcosa, necessita anche wealth, prosperity, deve essere ricco di know how, chi cambia ciò che è stato predisposto, necessita di power, cioè di capacità.
L’uomo a sua volta è un microcosmo, ed in questa misura è come dio, in quanto è parte di Dio, dell’Essere cosmico. Guarda ad es. le tue stesse mani, se le studi vedrai che hanno dello spazio entro di sé. Ciò che ci sostiene in esistenza, “ce l’abbiamo in dotazione già gratis”: aria, terra, acqua, fuoco, sono attorno a noi, e in noi, a disposizione!. Brahma-Vishnu-Shiva sono ovunque, anche se è qui o là che si manifestano. Il Tempo, è ovunque, lo Spazio, è ovunque, e così pure la Coscienza suprema: non si muovono solo i corpi solidi. . . .ma anche lo spirito, l’ineffabile realtà.
La Coscienza divina è ovunque. Cominciamo dalla percezione del bello. Nel momento in cui tu prendi coscienza che ascolti della musica, sei compenetrato dalla musica, e “pensi” che bello! ti senti libero, stai con te stesso. Questa è già self-knowlege, pensi che bello, perché in quel momento senti dentro di te questo, in quanto in quel momento tu sei bello, e bella è la tua mente libera. Partecipi così della Coscienza divina, dello spirito cosmico.
Amore, compassione, eccetera, aiutano molto a procedere in questa direzione. Quando desideri, ami qualcuno, ti senti felice. Ogni oggetto del desiderio, ogni oggetto d’amore, è tale fintanto che ti da soddisfazione, altrimenti, lo lasci. Ma allora sei disperato per la perdita. Questo perchè non puoi vivere solo per conto tuo e isolato. Se si incontrano due oggetti di soddisfazione e si completano, in primo luogo provi che ha soddisfazione in te l’amor di sé, e se lo senti anche nell’altro, questo ti da la pienezza del Sé. Ma c’è interdipendenza totale, indissolubile, non si può fare a meno dell’altro. Sempre si cerca la completezza, a partire dalla realizzazione del Sé. Non è dunque il “perché” ciò che dovrebbe stare a fondamento dell’amore, se dici ti amo perché sei…, allora quello è solo innamoramento come infatuazione; mentre amo “affinché” noi si diventi qualcosa di più bello e di migliore, allora è amore. C’è anche ignoranza nell’amore, e c’è misunderstanding, fraintendimento, quando ami per ciò che gli altri tuoi simili hanno e non per ciò che sono, e se tu valorizzi solo ciò che hai, ciò che ti hanno dato, attribuito, i tuoi attributi, e non conosci ciò che sei, allora da qui viene l’ignoranza che c’è nell’amore, e si accresce la sua componente negativa, distruttiva.
Dopo una breve pausa, che crea come un momento di sospensione… in seguito a questo fiume di concetti che ci ha comunicato, di punto in bianco, gli chiede Marco: “Quale religione più si avvicina a una concezione o intuizione giusta di Dio?”. Subito Suddhananda inizia a dire che ciò è legato a quanto diceva prima. E’ quasi incredibile il fatto che spesso si sente praticamente chiedere: “ma Dio chi è, dove sta, com’è?” Come se si trattasse di un oggetto di fronte a noi o all’universo. Comunque in effetti tutte le religioni del mondo dicono molte cose straordinariamente giuste e belle sulla divinità, e -ciò che è importante sottolineare- ciascuna apporta qualcosa di specifico. Per cui direi che tutte assieme ci possono aiutare, e nessuna è da ignorare. E’ bene conoscerle tutte e apprezzarle una per una. Se prendi un foglio di carta di un quaderno, e lo dividi a metà in orizzontale e poi ancora in verticale, quanti rettangoli ci vedi? c’è chi dice quattro, chi cinque, chi sette o addirittura nove… Così è per le religioni, in fondo sembra che dicano cose simili, ma non è così, ciascuna di loro è uno sguardo particolare, chi prende in considerazione il numero massimo di punti di vista, è forse quello che sa dire di tutti e di ciascun rettangolo, altrimenti si ha una visuale limitata. Sono però tutte parziali, anche perchè pensano a ciò che vogliono definire, come a un oggetto esterno, altro da noi. quante più caratteristiche del divino si contemplano, tanto più completo sarà il quadro che ne traiamo. Come in tutti i campi, maggiori le nostre conoscenze, e tanti più i punti di vista considerati, tanto più ampio sarà il nostro sapere. Bisogna conoscere, confrontare, elaborare. Tutte le visioni religiose sono espressione di ciò che l’uomo nella varietà delle culture cui ha dato vita, ha concepito e colto del divino. L’errore di ciascuna fede esclusiva, è di dirsi l’unica vera, di rifiutare gli altri apporti.
Ma a me pare (dico io) che questa apertura è tipicamente rispondente alla cultura indiana. Lo stesso cosiddetto “hinduismo” è assai composito e complesso. Perciò l’uomo formatosi nel contesto della cultura e in particolare della spiritualità indiane, contempla più facilmente di noi possibili plurimi aspetti, facce, manifestazioni del divino (come della realtà della vita), cui dare più nomi, e forme. Dal caritatevole e protettivo Vishnu, alla terribile e inflessibile Kali. Ciò può predisporre ad una maggiore apertura e disponibilità ad accogliere altre eventuali varietà accanto alla propria (ma mi sembra sia così anche in altre culture asiatiche). Noi forse siamo ancora nipotini della controriforma e poi della razionalità cartesiana, oltre che figli del positivismo…
Non mi sono spiegato bene? chiede Suddhananda. Domanda, non aver timore o vergogna, chiedi qualsiasi cosa, una cosa qualsiasi apre molte strade. Metti alla prova l’altro e te stesso, perchè solo così si convalida, si constata se quel che pareva stare assieme si rompe o se sostiene la messa alla prova. La conoscenza stessa viene dal tentativo di distruzione delle nostre conoscenze assodate, il cambiamento poi si produce ma solo se c’è questa sfida, altrimenti si è acquiescenti e si vive nell’accettazione di ciò che ci è dato. Sempre emerge nel discutere, nel confronto, qualcosa di universale. Ad esempio, “io” è universale, è una nozione che è invariabile, a chiunque, a qualunque individuo si applichi. Si è soggetto prima di ogni altra determinazione. C’è solo Nameless, tutto quel che inizialmente è indistintamente ciò che è senza nome, e “io”, o meglio -in un primo momento- si ha la sensazione di esser il soggetto di ogni azione verso l’esterno.
Allora, torniamo alla domanda di prima. Chi è mai Dio? dove sta, dov’è Dio? Ecco, tocca l’infinità, cioè Dio, se puoi… Tutto ne è parte, e nulla ne sta a parte. Chi sei? dove sei? Per rispondermi puoi per es. toccarti il naso, va bene, tocca il corpo, dove indichi? l’insieme del corpo, di ciò di cui è composto, in effetti è già una determinazione più generale del solo naso, per dirmi chi sei, dove sei. Così per indicare Dio puoi indicare ovunque, anche verso di te, per rispondere alla prima domanda. Chi distingue, disgiunge, creato e creatore, già sta facendo una ideologia parziale, parcellizzatrice. Dov’è l’infinito, l’infinità ? Dov’è il nostro Mondo? tu stesso ne sei una parte, ne fai parte, tocca te stesso, indicati pure. Non sei un alieno che si trova fuori posto. Ecco, questo è un inizio di ricerca dell’Universale. La divinità è infinita, il divino è nell’infinità, è ovunque. Tu ne partecipi.”
Dunque abbiamo avuto da lui questo secondo darshan (=letteralmente punto di vista, o visione, o sguardo divino), ovvero una udienza diretta con un guru, durante la quale con semplici esempi ci ha indicato una via da percorrere su cui fare ricerca. Ci salutiamo, gli chiedo di scrivermi una dedica sulla mia copia di un suo libro, e infine ci abbracciamo.

RICERCA SPIRITUALE
Certo un viaggio in India può essere fatto anche sotto la dimensione della ricerca. Può essere una ricerca intesa nel senso di confrontarsi con l’altro, con usi, costumi, mentalità, cultura, civiltà diverse dalla nostra, o/e nel senso di imparare tante cose nuove perchè siamo curiosi di sapere e perchè ci sentiamo cittadini del mondo, o/e nel senso di ricercare se qui si trovano indicazioni di percorsi spirituali da intraprendere. Perciò molti viaggiatori leggono e studiano le filosofie e le religioni della storia indiana, prima e durante (e dopo) il viaggio.
Cosa si impara dedicandosi allo studio?: si sa che si tratta di un tipo di attività che ci fa sapere cose nuove, ci fa capire qualcosa di più su certi temi, ci aiuta a saper analizzare e a comparare, può affinare il nostro senso critico.
Mentre è meno facile dire cosa si impari dedicandosi a coltivare la nostra spiritualità, e cogliere spunti di riflessione e di introspezione. Si potrebbe dire che ci aiuta a scoprire e conoscere una nostra dimensione interiore che avevamo trascurato, oppure che ci rivela qualcosa di ignoto, o che ci fa rendere conto di nostre esigenze e bisogni inappagati o conculcati.
In ogni caso si misura il senso di questa attività con un metro specifico, che è quello della trasformazione. Possiamo valutare l’importanza delle pratiche e degli esercizi spirituali, osservando in quale misura essi possano produrre in noi un mutamento, un cambiamento nel nostro usuale modo di considerare le cose, gli eventi, e i nostri moti interiori. La trasformazione è una buona cosa se ci cambia nel senso di farci divenire maggiormente attenti a non creare situazioni di tensione, a non causare sofferenze, a disporci ad essere più comprensivi verso gli altri, e in definitiva ad essere più compassionevoli. Ma anche a dar luogo ad una maggiore pace interiore, e a diminuire in noi l’aggressività, i conflitti interiori, e a non lasciarci condizionare da paure.
Perciò bisognerebbe cercare di essere più consapevoli di noi stessi, e imparare a guardare con maggior distacco emotivo a ciò che ci accade attorno. Per poter valutare le cose con maggiore obiettività, per poter capire le situazioni, oltre ad imparare ad essere più comprensivi, necessitiamo di conoscere più elementi possibile, di comparare le idee e i punti di vista, e anche fare il maggior numero di esperienze noi stessi, per poterci calare in altre dimensioni del vissuto. Inoltre è importante, anzi essenziale, coltivare l’onestà, anche verso noi stessi, e la disponibilità a comprendere gli altri, ma anche ad accettare gli altri per come sono (e ad accettarci noi stessi!). Bisogna sviluppare una mente aperta e il saper ascoltare. In sostanza si dovrebbe cercare di vedere le cose sempre sotto una prospettiva ampia, come dall’alto, non troppo interna ad un particolare, ma memore di un quadro generale.
Tutto ciò rappresenta una grande sfida, e richiede esercizi di autocontrollo e di autoanalisi continui e non facili. Richiede nel contempo sensibilità e spirito critico. Attenzione a non cadere in pregiudizi e opinioni fomentate dall’emotività. Certo ci può spingere verso un allontanarci dalla massa e ciò può comportare anche aspetti spiacevoli, per cui potremmo venire fraintesi, e soprattutto può generare in noi in un primo momento un sentimento errato di autostima eccessiva, che ci condurrebbe completamente fuori strada.
In definitiva la ricerca spirituale, e dunque la pratica quotidiana di una simile concentrazione su alcuni elementi che si ritengono importanti per stare meglio con sé e con gli altri, pur con la fatica che può implicare, è produttrice di serenità e di saggezza. Ma è anche una forma di intelligenza della vita.
A questo punto di riflessione però va aggiunto che un ricercatore per poter progredire sul sentiero del perfezionamento spirituale ha necessità di una guida che lo accompagni. Nella tradizione indiana si contemplano due tipologie di sapienti che possano svolgere questo ruolo. Uno che spieghi e illustri gli insegnamenti contenuti nelle sacre scritture, che si impegni nella diffusione di quelle conoscenze, e che sia riconosciuto come una persona esemplare che sia impegnata interamente nel far progredire il proprio discepolo in modo del tutto disinteressato, cioè senza ricercare anche fama e prestigio per sé. Costui viene denominato un Acharya, una sorta di precettore-mèntore.
Un’altro modello è quello del guru. Il termine come abbiamo visto, significa “colui che rimuove le tenebre dell’ignoranza”, ed è qualcuno che ha acquisito un buon grado di autorealizzazione, intesa quale conoscenza di sé, e realizzazione del Sé nella propria persona (Jnani), per cui sa come condurre un ricercatore verso la consapevolezza e la pace interiore. Se quest’uomo di saggezza è un samnyasin completo cioè un autentico e totale “rinunciante”, allora sarà un vero Guru in grado di esser da guida a ricercatori già solo con il proprio esempio. La sua iniziazione la può svolgere con il discepolo anche solo con uno sguardo oppure con una sola parola, in questo caso si tratta di una straordinaria personalità dalla cui semplice presenza emana una eccezionale sensazione di beatitudine, di serenità e di pace. Costui risveglia nel discepolo le sue capacità, le sue potenzialità, il suo proprio maestro interiore ovvero il maestro universale che è in ciascuno di noi, jagad-guru. Dopo di ché ciascuno essendo stato posto in grado di regolarsi da solo, può esser maestro di sé stesso. Diceva Krishnamurti: “sii luce a te medesimo”. Per cui di fatto i modelli sono tre.
La conoscenza di sé non è qualcosa che si può instillare in qualche modo, per cui non si può comunicare con la sola istruzione, per quanto avanzata. Nella Bhagavad Gita (sacra scrittura) Lord Krishna, la manifestazione del divino in terra sotto aspetto umano, dice: “cerca di comprendere la vera natura di questa conoscenza avvicinandoti ad anime illuminate. Se renderai loro i servigi che si aspettano, e li interrogherai con animo aperto e con cuore puro, costoro che vedono la Verità te la indicheranno”. E continua dicendo che un vero Jnani, cioè uno “realizzato”, se continua a vivere nel mondo è solo per amore del prossimo, per cui la liberazione dello spirito dai condizionamenti può esserci anche in vita e non solo come certi dicono dopo la morte. Ma queste personalità straordinarie sono veramente delle rarità, e pertanto si riconoscono immediatamente. Mentre un vero mèntore e un vero maestro saranno difficili da riconoscere, tuttavia se individuati, potranno essere di grandissimo aiuto sino ad un certo stadio del percorso, e saranno veramente degni di tale nome se sapranno rendere l’allievo in grado di conoscere sé stesso, e di procedere da sé con i propri mezzi, scegliendosi la propria strada.

IL CERCHIO DEL FUOCO
mercoledì 9 di agosto ’06
C’è la prima luna piena d’agosto, ecco cosa c’è. Qui a Tiruvannamalai è già da ieri che stanno continuamente convergendo grandi quantità di gente, gente da ogni dove, gente di ogni tipo, gente che arriva con ogni mezzo.
Nel Tamil Nadu ci sono i grandi templi dedicati ai quattro elementi, e il tempio in onore di Shiva è innanzitutto dedicato all’elemento fuoco, l’elemento distruttore-cambiatore, mutevole e cangiante. Esso fornisce luce, calore, e quindi vita, che permette di vedere, di contrastare l’oscurità e il freddo, e avere il cibo cotto e digeribile. Perciò Shiva è dio di salvezza, perchè garantisce che dal decadimento e dalla distruzione possa prodursi una trasformazione e dunque consente spazio a che si ritorni circolarmente ad una nuova creazione, garantendo la perennità della vita. Nel tempio c’è una colonna dorata che trapassa il soffitto, e fa entrare la luce, abbagliante nell’oscurità della sala, e là dove i raggi penetrano la dissipano, proprio come a sua imitazione tenta di fare un guru, la prima manifestazione di Shiva in effetti quella di colui che impartisce le istruzioni fondamentali. La sua colonna di fuoco e di luce senza fine né inizio (come la dea arcaica greca Hestia) lo fa apparire agli occhi degli shivaiti come superiore a Brahma e Vishnu, gli altri volti della Trimurti, ma il suo 1° insegnamento è quello di combattere i pericoli dell’ egocentrismo, tipico di chi assume un punto di vista del tutto individuale. La singolarità è mortale, impermanente. Dal simbolo della colonna cosmica di fuoco e luce vitale, deriva il simbolo fallico del Linga che si erge a spandere vita nell’universo (Tejo Lingam). Nelle raffigurazioni esso è indissolubilmente rappresentato incastonato nella yoni, nella vulva universale che lo accoglie, e dove avviene la trasformazione dovuta al calore. Questo grande tempio in effetti è dedicato proprio al lingam del Signore del Monte d’Oriente, Arunachalashvara.
E’ questa la notte in cui si commemora l’apparizione del grande dio Shiva sulla Terra, è la festa del fuoco.
Probabilmente deriva da una antica festa del culto di Surya, il dio del Sole, di cui Aruna era il cocchiere che conduceva il carro del Sole appunto nella sua traiettoria celeste (si pensi all’arcaico dio Helios greco, e al suo auriga Fetonte). Ma il culto del fuoco (atr o atar) è ancestrale, poi divenuto tra gli ariani e poi gli iranici, una manifestazione del Signore della Vita (Ahura Mazdan), e lo si ribadirà nel testo sacro “Avesta”, che sta a fondamento della religione iranica riformata da Zatathushstra nel 2° millenio a.C. (e ancor oggi seguita in India dai fedeli Parsi).
Oltre alla celebrazione nel grande tempio shivaita, la festività viene ricordata in decine di piccoli o grandi fuochi che la gente accende in vari posti, in altarini improvvisati lungo la strada, o in più o meno piccoli tempietti. Quando un braciere viene acceso, c’è subito un gran accorrere di persone, che pregano, cantano, danzano attorno, si genuflettono, ed è sempre un momento di emozione generale. Certo è vero che il fuoco ha una capacità di attrazione, di ipnotizzazione quasi, sprigiona un grande fascino, non si può non ammirare il suo continuo trasformarsi pur rimanendo il medesimo, si prova un senso di rispetto per la sua forza, i suoi poteri distruttivi, ma anche piacere per la luce e per il calore che emette, mentre si compie il mistero della trasformazione di ciò che arde da uno stato solido ad uno stato aereo, e tutto si fonde poi con l’atmosfera circostante.
L’altra consuetudine che rende particolarissima questa mid summer night, è la processione del Girivalam, cioè il rito collettivo di camminare, possibilmente a piedi nudi (ma eventualmente anche con delle calze) tutt’attorno al monte. E il perimetro dell’Arunachala è di 14 kilometri. Questo giro di massa nel buio è straordinario, anche grazie alla potente luna piena “ferragostana”. Si compie ad un passo un po’ spedito, e possibilmente senza parlare, anche se poi in realtà alcuni intonano più o meno sommessamente dei canti o cantilene, o recitano preghiere, o anche si scambiano sussurri. Però è un camminare meditativo e con consapevolezza.
L’aria è calda come lo può essere nel sud dell’India, la folla è tale che pur essendo la strada larga come una nostra statale a due corsie, sembra piuttosto di stare in un bus pieno zeppo all’uscita delle scuole, e si va, si va, si va, fitti fitti con prossimità di corpi. Chi non è un podista ci mette tre ore e mezza/quattro di cammino senza sosta. Alla fine arriviamo dove siamo partiti (cioè al cancello del nostro ashram) che siamo letteralmente “un po’ stanchini” (come ebbe a dire Forrest Gump), e un bel po’ sudaticci, e pure un pochettino allucinati. Il magnetismo e l’energia che in questa nottata di luna sprigiona dall’Arunachala è straordinario, e infonde forze e vigore. L’atmosfera e la prossimità della massa, contagia. L’ambiente è da film felliniano, o da immaginario orientalista del tipo fosco e misterioso, con accompagnamento quasi continuo delle più diverse, ma assai simili, nenie e musiche ripetitive e dai toni bassi. Aa-ru-u-naaa-cha-laaa.
Il tutto trasmette una sensazione di un rito ancestrale, primitivo, e un po’ misterioso. Intanto sul ciglio della strada conto che in uno spiazzo ci sono una trentina di pullman, e più avanti in un simile grande spiazzo, pure sono più di trenta, e continuano ad arrivare e a partire. In realtà questa gente che gira e che noi vediamo, è solo una sezione del grand tour, l’anello è permanente, ma composto da persone sempre diverse che si alternano, che deviano e se ne vanno, e che arrivano e si aggregano. E noi siamo dentro a questo girone dantesco che celebra in parte gli inferi, le potenze magmatiche del sottosuolo, in parte l’ardere nell’aere dell’elemento fuoco con i suoi numerosi falò, e i suoi bracieri, in parte il calore stesso, in parte il monte con la sua potente e pesante struttura di grandi massi e pietre, con la solidità, e con l’energia che emana, in parte l’apparizione del divino che si manifesta, e in parte il suo contestuale dettare le leggi cosmiche, e in parte la funzione trasformatrice del dio, che rinnova, modifica, è in ogni manifestazione, e non cessa il movimento, rapido o sia pure lentissimo, di tutto ciò che è, e infine la presenza inaccessibile della luna con la sua luce di riflesso, con il suo essere una fonte fredda, alta nel cielo stellato, femminile, rassicurante, sorridente, ma complice, simbolo della pura energia, della luce che riflette il fuoco del grande braciere solare. E così si gira, si gira, seguendo gli altri e facendo da riferimento per quelli dietro che ci seguono. Ci sono dei sadhu con i lunghi boccoli di capelli corvini, pieni di unguenti e di ceneri, ci sono tutti quelli con il volto dipinto con i segni e i colori shivaiti, ci sono i pellegrini con il loro alto bastone, i monaci con la tunica arancione, quelli a torso nudo, quelli tutti vestiti della festa, quelli giovani e vigorosi, e quelli lenti e anziani. Ai bordi sono stati eretti santuari temporanei, ma anche stands di fondazioni religiose, oppure tende per dare da bere e da mangiare, o lunghe file lungo i margini, di vecchi con grandi barbe accovacciati per terra o a gambe incrociate che attendono una elemosina, e anche storpi, malati, bisognosi. Uomini, donne (tutte con numerose trecce e ghirlande di fiorellini freschi e profumati tra i capelli), giovani, vecchi, invasati e compassati, di tutte le pelli, nere, marroni, bianche, mulatte, e di varie lingue dell’India. Gente arrivata da chissà dove con un carretto, con un asinello, con un pullman, con il treno, in auto, o a piedi.. ..
Rientriamo spossati e ci buttiamo sul lettino rigido, continuando a sentire lontano la folla che gira e le musiche, ma anche  continuando ad avere quei suoni nella testa e quelle immagini sfocate negli occhi, e ciò nonostante, ci addormentiamo di botto, desiderando un profondo e denso sonno ristoratore…
Ma sento l’Arunachala, la montagna incantata, che mi sprona, mi stuzzica, mi vitalizza, mi incita, non mi lascia stare. Ho comprato una torcia a pila ieri, ma fa una luce appena fievole, e serve a poco (tanto poco quanto è costata). E per di più con questa luna piena di mezz’estate. Sono veramente nel bel mezzo dei mid summer night dreams, e scrivo, scrivo queste note. O forse è solo perchè ho gambe e piedi un po’ dolenti, la branda è un po’ troppo dura, e bocca e stomaco sono un po’ impastati per il cibo pure vegetarian per me inusuale, e poi il caldo, e le zanzarine, mi opprimono….ecc…??
Lord Shiva è Dionyso.

PELLEGRINAGGI
Intorno al monte intanto continuano ad esserci gruppi che fanno il giro. Sono e siamo ancora un po’ intorpiditi dalla camminata di ieri sera e io anche dalla nottata mezza passata sveglio e agitato. Chi di noi ce la farebbe ad immergersi ancora in quella corrente umana? Leggo su un foglio illustrativo, che fra sei mesi, sabato 17 febbraio, la notte di Shivaratri, notte di luna nuova del mese lunare di Phalgun (febbraio-marzo), si celebra la festa per la fusione di Shiva e Pàrvati, la coppia divina da cui si manifesta l’energia del cosmo. Mi sembra che vi sia una sorta di complementarietà tra queste due feste ai poli opposti dell’anno.
“Questa celebrazione dell’atto creativo che dà vita all’universo viene vissuta in uno spirito di totale, festoso abbandono dai fedeli, e trova il suo più naturale luogo di celebrazione a Varanasi (Benares), l’antica Kashi, la città sacra vivente più antica del mondo. La benevolenza della coppia divina che garantisce la liberazione dal ciclo delle rinascite si festeggia con una notte di purificazione (Yoga) e di ebbrezza (Bhoga), la cui indissolubile complementarità, quintessenza dello spirito di Kashi, viene rappresentata in un antico rilievo del tempio di Kardameswara, dove accanto al guru immerso nella recitazione dei mantra, il discepolo prepara il bhang, l’inebriante mistura che è tradizionalmente consumata da tutti i devoti”.
Chissà se potrò andarci? mi intrigherebbe molto, ma temo che non potrò…
Oggi comunque abbiamo compiuto la salita a piedi scalzi sull’Arunachala (in un’ora e mezza “soltanto”), l’altro rito collettivo che si compie in questa occasione ferragostana. Ma incredibilmente sul sentiero sassoso della salita non c’era nessun altro, a parte un paio che scendevano, forse era anch’essa da compiersi ieri? siamo andati assieme a uno che ci faceva da “cicerone”, ci spiegava alcune cose della vecchia sapienza campagnola, per cui ci mostrava le varie erbe e le loro proprietà, ci diceva cosa si può fare con il legno dei vari alberi, o ci parlava degli insetti, degli usi o delle credenze relative a certe pietre, ci mostrava i punti panoramici, e ci illustrava i momenti della vita di Sri Ramana Maharshi (o Maharishi a seconda delle traslitterazioni).
Ma ciò che è stato più emozionante di altre cose, è che quando già il sentiero si è addentrato nel bosco, abbiamo visto un anacoreta ! uno che si è ritirato, insomma un eremita! è uno che se ne sta lì nel boschetto in una capanna di paglia raffazzonata malamente a una certa distanza dal sentiero, e vive lì da solo, da 28 anni! …Ma quando mai, dove, come, si potrebbe fare un incontro così in Europa, e in generale in occidente?
Ci siamo avvicinati, e lui ben contento ha dato le benedizioni a ciascuno di noi, facendo con una pastetta rossa un segno sulle nostre fronti mentre diceva delle frasi rituali. Certo, si potrebbe pensare che lo ha fatto perché così poi gli abbiamo dato una moneta ciascuno, e con quella forse manderà il suo kela (il ragazzo al servizio del saggio “santone”, ritratto in “Kim” da Kipling, e nell’ indimenticabile film degli anni ’50 con Errol Flynn) a comperargli del lassi fresco da bere… ma sembrava sinceramente contento di incontrarci, e comunque non ci ha chiesto nulla. È tradizione in India dare un obolo ai sadhu, ai pellegrini, perchè possano sostentarsi nel loro peregrinare. Ma al di là di ogni possibile considerazione, è un personaggio fuori dal comune, e dunque un incontro eccezionale. Certo che tutti abbiamo sentito parlare degli eremiti, ma quando mai ne ho visto uno se non in fotografia? Per me è la prima volta, e forse resterà l’unica. Quindi indimenticabile, se non altro perchè è stato emozionante vederlo lì, nel suo posto, accanto alla sua cenciosa capanna nel bosco.
Mi vengono in mente Yoghananda, o Shivananda, o Cinmayananda, anche loro come Ramana Maharshi, erano “usciti”, e poi ritornati nel mondo, per parlare a tutti noi. Sono vicende incredibili, e da queste profonde introspezioni in solitudine, certi riescono a trarre grandi riflessioni. Tanto più che avevamo appena sentito raccontare di quando Maharshi si era ritirato in una grotta -che poi abbiamo visitato- dove visse dal 1899 al 1916. Dopodichè ha dato vita a fondazioni sociali che operano in molti settori, dalla sanità agli ospizi per anziani, a aiuti agli emarginati.
Insomma mi veniva da pensare all’eroe platonico della famosa grotta nella quale gli pareva di avere delle allucinazioni, e al fatto che dopo esser riuscito ad uscire ebbe l’emozione di veder le stelle, ma soprattutto poi al coraggioso suo voler rientrare e scendere negli anfratti reconditi e oscuri, alla sua lotta per comunicare con gli ex compagni, e cercare di dire loro che quelle laggiù erano tutte illusioni, ombre, correndo il rischio di esser preso per folle e di offendere oneste persone e irritare chi profittava della situazione.
Lì nel buio totale della grotta, ho avvertito le presenze di alcuni che stavano silenti in meditazione, di cui non si sentiva nemmeno il respiro, e che stavano come fuori dal tempo.
Scendendo dall’Arunachala con il sentiero di sassi, si entra nell’ashram da lui fondato, lo Sri Ramanasramam, un grande centro, in questi giorni affollato da pellegrini che necessitano cibo e acqua, e che ospita anche alcuni occidentali. Ed ho avuto la fortuna che l’addetto aveva proprio in quel momento riaperto fuori orario la bella libreria per dare delle cose a uno di sua conoscenza, e così ho potuto guardare alcuni libri di e su Maharishi. Ho poi comperato un libro oramai introvabile che è una buona sintesi fatta nel 1959 da S.Cohen sulla scorta delle sue registrazioni delle conversazioni-interviste da lui avute con Maharshi stesso, e appena ristampata proprio da pochi mesi, ma in sole mille copie, dopo 16 anni che era esaurita l’ultima edizione…! Subito dopo di ché il libraio ha chiuso… e non avrei più avuto la possibilità di ritornarvi…
Stando lì i miei pensieri non potevano non andare a mia nonna materna Fede Paronelli, che negli aa.Trenta già sapeva di Maharshi, quando era la redattrice della rivista “La Ricerca Psichica – luci e ombre”, e facevano venire ospiti ogni tanto alcuni indiani nella sede di Milano a illustrare le tecniche yoga o a parlare delle correnti del pensiero indiano (credo che tra questi abbia incontrato personalmente Krishnamurti; lo dissi a quel sikh suo adepto, da cui eravamo stati a cena a Gurgaon, e lui mi disse che in effetti proprio in quegli anni K. era andato anche a Milano).
Chissà se il “nostro” Suddhananda è stato anche lui in isolamento come un totale “rinunciante”? Come Francesco d’Assisi. Oltre a viaggiare in Europa e negli Usa, ha il suo ashram, i suoi seguaci, e poi può usufruire di quella bella villetta-museo, ma in effetti non ha di suo che la brandina sul terrazzo… Comunque lui con la sua posizione di carattere razionale e dialogante, non indica nulla cui abbia senso rinunciare, ovvero non la concepisce (mi pare) come una condizione per iniziare una via di ricerca spirituale, o anche solo per approfondire il proprio sapere… come d’altronde, credo, neppure un grande personaggio come Krishnamurti. Certo ci sono vie differenti, e anche assai divergenti…. ma forse per certi aspetti potrebbero essere considerate complementari; ognuno potrebbe anche in questo caso parlare dei suoi rettangoli…, come direbbe Suddhananda (vedi la 7a puntata di questo diario), e così si avrebbe infine una visione un po’ più d’insieme di quello che l’uomo ha via via considerato conoscenze importanti che è riuscito ad acquisire sia nel cercare di conoscere il mondo in cui vive, sia nella ricerca del Sé, per capire il tutto nel suo complesso, multiforme, mutevole insieme.
La realtà di ciò che vorremmo capire, è forse nient’altro che ciò che secondo scienze sappiamo essere tale obiettivamente e concretamente? O forse essa è solo ciò che per ciascuno di noi è entrato nel proprio vissuto, quel che ci appare e su cui ci regoliamo secondo le esperienze, dunque il vissuto con tutte le implicazioni psicologiche ed emotive, con le quali interagiamo con il mondo circostante ed interiore, quindi la nostra “lettura” e simultanea interpretazione di essa così come la conosciamo ed esperiamo? non posso che sospendere la mia risposta perché non saprei che dire…
“Non avrai altra realtà al di là di questa!”, ovvero di ciò che è ed è stata per tutta la durata della tua vita durante la quale di fatto non hai avuto accesso ad altro. Allora la “realtà” obiettiva, quella concepita “in sé e per sé” soltanto, è una pura astrazione, è uno dei grandi modi escogitati dall’intelletto per tentare di “comprendere” l’incomprensibile? In effetti come si potrebbe negare che “non avrai altra realtà fuor che quella che avrai esperito nella tua vita”? E ciò riguarda ovviamente anche le determinazioni di spazio-tempo in cui siamo immersi. Di questo discutono tra loro i saggi?
O no?

UN DONO
Stamane si parte, ed è un dispiacere, non vorrei doverli salutare… 0cercherò di convincermi che è un arrivederci. La mattina inizia con una sorpresa: Lucia e Marco ci portano alle sei e mezza il caffelatte nella nostra casetta in un thermos…! alle otto andiamo in sala-mensa, così mi congedo da “Socrate-ji” che sfodera il suo sorriso esprimendosi con lo sguardo, e si lascia persino fotografare!… E intanto penso, chissà se l’americana è già stata qua a ritirare la sua razione, vorrei proprio dirle almeno due parole. . . ed ecco compare in quel momento, eterea quasi solo sfiorando il suolo. Vedo che è incerta nel prendere o meno un sughetto, e che chiede di che cosa si tratta. Approfitto di un momento di rallentamento nel prendere su i panetti idly dal tavolo, per dirle che partiamo e che sono dispiaciuto di non averla potuta conoscere, e aggiungo che ora le parlo perchè l’ho sentita parlare, e le chiedo se forse è finito il suo periodo di osservanza del silenzio ? Si ferma stupita, e mi risponde che può parlare in caso di necessità. Ironizzo sul fatto che chiedere di un sughetto possa essere ritenuto una necessità, e allora le dico che avrei voluto fare conversazione in questi giorni, ma non volevo disturbare la sua scelta del silenzio. Ma siccome oramai le sto parlando, volevo prima di andar via dirle che l’ho osservata, e che mi ha affascinato il suo sorriso aperto e genuino, il suo modo lento di incedere, e quella sua calma interiore che traspare e irradia serenità. Allora lei mi dice, rivolta anche a Michele: venite a consumare la colazione nella mia camera, e là converseremo (forse non voleva farlo in pubblico?). Dico rapidamente a Marco che sta arrivando in quel momento, e che ha già chiamato l’auto, che mi aspettino per la partenza, ma che voglio assolutamente cogliere questa opportunità.
La sua camera è arredata con cura, con foto di guru, libri, ventilatore con striscioline colorate, cuscini, drappi. Le chiedo pertanto se è qua già da tanto tempo e quanto ha intenzione di fermarsi, ma mi dice che ora è il momento di consumare la colazione assieme in silenzio, dopo parleremo. Ed in un primissimo istante mi sento fremere perché mi pare uno spreco di quel poco tempo che abbiamo a disposizione mentre già sta arrivando la macchina che avevamo richiesto…
Invece questo inizio silente permette che si crei una atmosfera distesa e serena. Intanto mi guardo meglio attorno, osservo i volti delle foto e si sentono gli uccellini che cinguettano. Le nostre presenze sono molto concrete e si avverte il corpo dell’altro, il respiro. E’ stato bene che ci fosse questo momento di sospensione.
Rifletto sulla comunicazione nel e tramite il silenzio. Il silenzio in un contesto di incontro, nella prossimità dell’altro, fa sì che ognuno avverta fisicamente la sensibilità dell’altro: esso è scambio di vibrazioni, di energie. Il silenzio può essere per certi versi anche più eloquente di tante parole, che sono imperfette e ambigue, sono sempre passibili di fraintendimenti, mentre ciò che ci si comunica stando accanto in silenzio è partecipe della verità. Nel silenzio si conosce sé stessi, la propria disposizione spontanea ad accogliere il silenzio,  o le proprie resistenze, e si apprende molto del compagno, o accompagnatore, taciturno, ma direi dell’ “interlocutore” in questo caso.
Consumiamo la colazione; io in verità sono distratto e non mangio quasi nulla, l’atto del masticare e del deglutire mi sembra un atto dovuto, di cui un po’ mi vergogno, come di cosa stridente con la pace meditativa di questa atmosfera. Quindi lei si alza e lentamente va al lavandino a lavarsi i suoi piatti. Torna e i suoi occhi hanno uno sguardo dolce quasi interrogativo. Le dico che essendo stati ieri all’ashram “Sri Ramanasramam”, che ci è molto piaciuto, ho riconosciuto ora qui la foto di Ramana Maharishi, mentre non conosco chi sia l’altro con quella bella barba e quel viso da saggio. Lei allarga il suo consueto splendido sorriso smagliante, e gioiosa dice che sono i suoi grandi Maestri, i cui spiriti sono calati in lei, e che lei si sente sempre in fusione spirituale con loro. Premette, prima di aggiungere altro, che la Mente è unica e trascende le manifestazioni di forme corporee individuali. E quindi dice che in questo Paese (vuole dire qui a Tiruvannamalai e dintorni? o nel Tamil Nadu? o in India?) si può avere accesso all’insegnamento di un guru di grandissimo respiro e alta levatura spirituale. Chiedo chiarimenti, e chi sia? E’ qui vicino, dice, ed è… mi pare che dica qualcosa come hatha-Veda Krif ??, o forse era Padma Vedegrith…? sicuramente conteneva il termine Veda, ma non colgo il nome, è un suono indistinto e come una parola misteriosa che lei pronuncia sottovoce con riverenza. E subito aggiunge, per rispondere alla mia domanda di prima, che è già venuta in India molte volte nell’ultima dozzina d’anni, e che si è fermata ogni volta diverso tempo, ascoltando molti diversi insegnamenti, ed è stata a Rishikesh alle falde dell’Himalaya (forse da quel Shivananda, da cui erano andati nel ’68 i Beatles?), e anche qui nel sud, mi pare anche dallo yogi Maharishi Mahesh (?). Ora ha potuto ottenere un visto per una permanenza di due anni e mezzo senza dover uscire e rientrare. E’ stata a trovare il suo guru, e poi è venuta qui per starsene tranquilla, cosa che nell’ashram di Sri Ramana Maharshi -che è effettivamente molto bello- non sarebbe stato possibile per il continuo andirivieni di pellegrini e visitatori. Quando poi Swami Suddhananda ritornerà e qui verrà anche qui tanta gente,  lei andrà altrove. Ma dove?, chiedo. Non lo sa, ci penseranno i suoi Maestri a disporre le cose che saranno meglio per lei. Quel che accadrà accadrà. Parla molto lentamente, e ci sono spazi tra una frase e l’altra. il tempo in questa stanza sembra essersi incredibilmente dilatato…..
Intanto penso: se ora mi chiede io chi sono, cosa potrei dirle in sintesi? non certo la professione, o la nazione, come ci diceva ieri Suddhananda… forse potrei dirle di alcune cose che faccio, di quali cose mi interesso. Ma allora potrei dirle soltanto che nelle ultime settimane mi sono interessato del tal argomento, oppure che negli ultimi giorni ho fatto dei giri curiosando su questo e quello, andando di qua e poi di là e ricevendo vari stimoli a certe mie riflessioni… Sono impreparato, è evidente. E intanto penso anche che tutto ciò naturalmente riguarderebbe in realtà soltanto la mia routinaria vita diurna, mentre invece sono ben consapevole che viviamo in due dimensioni temporali, in due forme o modi, la solare e la notturna. Ecco dunque, perché non parlarle del momento notturno-onirico che in queste ultime notti è stato così tanto intenso ?
Vengo “risvegliato” dal fatto che lei chiede se abbiamo avuto un darshan, cioè se abbiamo sentito Swami-ji Suddhananda e cosa ne penso. Le dico che non mi è parso una personalità sconvolgente, ma che ci sono state molte cose interessanti tra quelle che ha detto, e che è molto bravo a fare esempi che ad un primo ascolto sembrano semplici ma che possono essere “letti” a più livelli. E’ molto contenta di questa mia  ultima osservazione, e mi vorrebbe dire molte cose al proposito delle interpretazioni a più livelli, ma che ha capito dal fatto che guardiamo fuori dalla finestra, che il tempo manca.
Dice, riguardo al rapporto con veri Maestri spirituali, che anche dopo essersi allontanati da loro, finché c’è questo “ponte”, questo link o trait-d’union, supererai l’individualismo, l’egocentrismo, e vivrai nella copula vivificante, e continuerai ad acquisire le sue vibrazioni e la sua energia. Ripenso alle riflessioni che avevamo fatto l’altro giorno tra noi e con Suddhananda su chi è un guru… un vero maestro di vita.
Le dico che quando l’ho vista la prima volta intenta in un momento di introspezione sul muretto esterno della casa di meditazione, io ero venuto laggiù per vedere il tramonto, e siccome era molto bello (anche se “purtroppo” non così splendido come la sera prima…), sono tornato di corsa fino alla nostra casetta, e lì ho perso un sacco di tempo per cercare frettolosamente la macchina fotografica che chissà dove l’avevo ficcata. Poi ritorno veloce al meditation center, le faccio un cenno di saluto discretamente (ma mi pare che lei non se ne sia nemmeno accorta), e una volta salito sulla terrazza constato che sono giunto un po’  tardi, ma lo stesso forse sono quasi ancora in tempo per prendere una bella foto… ma ecco… le pile sono scariche… E ho pensato che tutto ciò era un po’ una metafora della vita… cercare freneticamente di cogliere l’attimo fuggente, di fermarlo, ma anche proprio di possederlo, prenderlo, per portarselo sempre con sé, e in un certo senso dunque dominarlo… non è in sostanza una amara ironia?
Dal suo sorriso mi sembra che le faccia piacere sentirmi dire questo. Le dico che lei ha la capacità e disposizione rara di saper gioire di cose semplici. Il suo sguardo ora mi pare divenga compassionevole. Ci congediamo con affetto, e dice che per lei è stato un dono averci lì oggi. Allora Michele le risponde che lui ha veramente gradito questo incontro e che in realtà  è per noi che l’essere stati con lei è stato veramente come un dono. Lei subito aggiunge che già lo sapeva, e che è certamente così, perchè il dono è tale solo quando la gioia è reciproca, altrimenti non si tratta di un vero dono. C’è una unità indissolubile tra i due vissuti, e sono due aspetti del medesimo, il dare e il ricevere, ed è proprio la gioia che se ne prova quel che tiene unite le due facce.
Purtroppo ci chiamano a gran voce e dobbiamo scappare. Allora rapidamente mi dice che posso mandarle mail presso l’ashram di Swami Suddhananda, a nome Jñanam, che significa appunto Self Knowledge, conoscenza di sé ma anche della realtà del  divino, quindi la conoscenza del Sé. Le chiedo qual è il suo nome originario, e mi dice che il suo cognome è Cristan, di origine italiana, il suo bisnonno era proveniente dalle Dolomiti di Belluno. Le dico che è una coincidenza sorprendente, che ho una casa proprio in quell’area, e che un giorno le racconterò anche come l’ho trovata e il significato che vi ho attribuito.
Ma ormai usciamo dalla sua stanza….dobbiamo partire, e saliamo di corsa sull’auto, dove gli altri hanno già provveduto a mettere i nostri bagagli, e partiamo con ancora il suo volto gentile negli occhi, e con la determinazione a cercare questo guru della foto, e andare al suo ashram. Certo che incontri così si fanno solo in India…
E durante il viaggio verso la costa, in mezzo ad un bellissimo panorama, mi attardo a ripensare all’incontro, e ai pensieri che mi erano sopravvenuti, e che avevo come messo in stand-by. Ma mi coglie un gran sonno, e inizio a mescolare il sognare e il pensare. Nella “vita dei sogni” non mi pare di aver mai detto, né che mi abbiano mai chiesto chi sono, nel senso di definirmi attraverso quel che faccio… là raramente ci sono di queste… come potrei dire?… univocità…
E’ anche per questo che è impossibile rendere quella complessa e intricata cosa che è la nostra identità in una semplice definizione. Quello stimolo del maestro swami Suddhananda mi ha intrigato e invischiato. E’ davvero deleteria, direi devastante culturalmente questa abitudine di pensiero, indotta dal costume, che prevede di definirsi con un titolo, una referenza magari geopolitica, o un mestiere. Ma sto per scivolare nel sonno, nonostante la testa ballonzoli e sbatta sul finestrino… e la figura della dolce Jnanam mi accompagna… come una Beatrice.
E’ proprio vero che con i grandi Maestri si dialoga anche quando non ci sono, anche quando sono già scomparsi (ad es. gli autori dei grandi libri della nostra vita), attraverso i loro messaggi, o mietendo e raccogliendo dal loro esempio, dalle loro opere, e che se queste ci hanno lasciato un segno dentro, sono divenuti effettivamente parte di noi stessi. Questo è proprio un elemento di jñana-yoga, unione mediante conoscenza, unione per via conoscitiva. E poi ripenso alla comunicazione silenziosa, e alla vibrazione serena che compenetrava il nostro breve dialogo denso di aspettative in cui eravamo come protesi l’uno verso l’altra. Se non ci fosse stato l’ardire del mio atto di parlarle in mensa, questa azione da karma-yoga cioè che ha innescato una serie di cause-effetti densa di significatività, che ha accresciuto la mia conoscenza e prodotto una unione di spirito con lei, non ci sarebbe stata e non avrei ora scritto queste righe né fatto questi pensieri. Voglio proprio, devo, andare a cercare e trovare quel suo Maestro dal nome impronunciabile. E tutto ciò è stato possibile perché c’era stato sin dall’inizio un sentimento di bhakti, di amore spirituale che mi ha attratto verso di lei. Sono poi questi i tre grandi marga, i cammini, i percorsi, le vie, del sentiero della consapevolezza, triplice e uno (trimarga). E lei ne è stata la messaggera, la divina figura che appena sfiora il suolo, eterea,  che mi ha iniziato…
Ma oramai dormo proprio, e mi sogno di quando ero piccolo e mio padre gran viaggiatore, guidava per ore anche di notte, e io mi rilassavo protetto dal guscio dell’auto con dentro la mia famiglia viaggiante, e poi mi invadono i ricordi di mia mamma pianista che suonava Chopin inebriando tutta la casa, e poi mi sogno di mio nonno che faceva lo scultore… e del suo incasinatissimo atelier pieno di creta, di bozzetti incompiuti, di statue, attrezzi… dove sentivo palpabilmente nell’aria la sua tensione verso il riuscire a cogliere il movimento, la torsione, la spirale, le forze, i corpi….corpi di creta, o di gesso, poi fusi nel bronzo… sì lui l’avrebbe ritratta con la leggera tunica svolazzante e con un piede scalzo appena sollevato dal suolo…
Fra tre/quattro ore saremo sulla costa, a Pondicherry, e andremo all’Ashram del grande Aurobindo, e poi ad Auroville, la città internazionale dell’utopia fatta realtà, e là inizierà un nuovo capitolo, là inizierà tutt’un’altra storia…
il caldo rende oramai il mio sonno densissimo.

A PONDY
24 ore di intervallo a Pondicherry, in cui ci ricongiungiamo, ci troviamo e ci raccontiamo reciprocamente, e tutto ci pare un po’ strano venendo dalla calma arcadica di un ashram di campagna. Giriamo nel traffico che ci pare assai rumoroso e puzzolente di miriadi di moto, motorini, motorickshaw, biciclette, carretti, ecc (mentre in realtà non è del tutto così, è un po’ come dappertutto nelle città indiane, anzi forse forse un tantino meno disordinato…), finché di sera tutto rimane paralizzato per un totale intrico che blocca ogni direzione…
In definitiva il traffico è come una immensa arena di confronti e di rivalità tra le psicologie degli autisti, con gran tensioni, e risoluzioni in tempi brevissimi frutto di contrattazioni tramite interpretazione di minimi segnali, e necessari compromessi realistici istantanei. E di fatto così è per ogni dove oggigiorno.
La cittadina non sarebbe male, ma ci pare poco verde. Certo la vegetazione veramente rigogliosa del sud-indiano, viene -come d’altronde ovunque nel mondo- radicalmente spianata ed eliminata per far posto alla civiltà urbana. Per prima cosa  la nostra moderna civiltà dell’asfalto deve vincere la battaglia contro il regno vegetale. Poi si cerca di spingere ai margini, si regolamenta, e infine si rinchiude e segrega il mondo animale. E così alla fine la specie eletta e dominante, cioè quella umana, può crearsi il proprio spazio esclusivo, la propria grande tana a parte, e crearsi un ambiente del tutto artificiale fatto a propria immagine e somiglianza. e questa è la città, il traffico, l’industria, la politica, la lotta tra istituzioni e delinquenza,  i conflitti vari, e l’inquinamento… ecc. Che belle cose! Così ci accade di pensare a questo bell’albergo con personale gentile, dove abbiamo trovato posto, come ad una sorta di (falso) luogo di ritiro, di silenzio, e di sollievo. Anche se Annalisa e Ghila che ci accolgono, non sono riuscite a dormire per il frastuono incessante, 24 ore su 24, di una festività terminata solo oggi.
Ma dico queste cose in gran parte perchè ho sentito molto il salto, il confronto, e l’ho preso male. Qui nel sud dell’India invece certi processi sono ancora solo incipienti, e da noi invece sono giunti a livelli molto più sofisticati che hanno stravolto le ns vite e ci hanno estraniato dal contesto naturale. Ma qui sui giornali, in televisione, si danno più che altro notizie dei vari altri stati indiani, o limitrofi, dell’Asia, ma poco si dice, e dunque poco si sa a livello popolare, sulla lontana Europa (e praticamente quasi mai alcunché sulla nostra piccola Italia).
Insomma il giorno dopo partiamo volentieri, anche se invece stavamo già per riconciliarci un poco con la cittadina.
Partiamo dunque per un “viaggio” di appena mezz’ora/tre quarti d’ora per andare a stabilirci qualche giorno ad Auroville, là dove hanno cercato di concretizzare il sogno sociale di Sri Aurobindo (1872-1950) e della sua compagna spirituale.
Aurobindo era un bengalese, che fu considerato tra i padri fondatori della lotta per l’indipendenza indiana. Egli si rifugiò nel 1910 come perseguitato dalla polizia inglese a Pondichéry, cioè in quella che allora era una piccola énclave francese (sino al 1954), dove fondò un ashram, e si ritirò dagli impegni politici, per dedicarsi allo yoga, alla meditazione e alla filosofia.
A Pondy giunse poi  Mira Al-fassi, di padre turco e madre egiziana, una donna colta nata a Parigi (per cui cittadina francese), che lì era cresciuta e aveva studiato, e poi era stata qualche anno in Giappone, la quale infine divenne la compagna spirituale del grande maestro, e poi dal ’26 direttrice dell’ashram, con l’appellativo che l’ha resa famosa: la Mère. Vissuta fino a 95 anni (1878-1973), ha dato una impronta decisiva all’ashram di Pondy e alle sue iniziative sociali e educative, e ne ha fatto un centro internazionale di diffusione del pensiero del maestro, che ha raggiunto molti ambienti europei ed americani, con cui poi si sono stabiliti frequenti e proficui contatti. Per cui è stato anche un tramite di diffusione per la conoscenza in occidente della spiritualità indiana in generale.
Nel 1968 si è dato inizio nella campagna circostante la periferia di Pondy, alla fondazione di una città di tipo nuovo, in base agli ideali sociali di Aurobindo. Cinque anni dopo la Mère morì. Col tempo i legami tra la nuova sperimentazione e l’ashram si sono allentati, poi il governo centrale indiano ha scorporato il territorio del villaggio da  quello del territorio di Pondicherry,  includendolo nello stato del Tamil Nadu. Oggi Auroville è una realtà ancora in crescita, e nel contempo, oramai consolidata. E’ là che vogliamo andare per capire meglio di che si tratta, anche se è qui a Pondy che tutto è iniziato. Nei giorni scorsi Annalisa con Paolo e gli altri, erano andati in visita all’ashram e hanno preso alcune informazioni e pubblicazioni. Io intanto stavo leggendo un romanzo della Desai proprio sulla figura della Mère (ma che è molto critico al riguardo).
L’ascetismo (sannyasa) non fu mai accettato da Aurobindo come una via valida, pertanto i membri del suo ashram furono indicati non come dei “rinunzianti”, ma piuttosto come sadhak, dei ricercatori spirituali il cui intento è trovare i mezzi per rendere universale la coscienza che il divino è presente in noi e nel mondo fisico. Uno degli obiettivi “politici” divenne quello di fomentare l’idea dell’unità del genere umano, ed un tramite imprescindibile è la diffusione di una pratica consapevole della meditazione, dello yoga, e della concentrazione, come via di un perfezionamento insieme fisico, mentale e spirituale che faciliti la conoscenza dell’unione tra il divino e la materia. In effetti il primo passo per Aurobindo sta nell’ esercitare le proprie capacità di concentrazione, bisogna imparare a valorizzare l’importanza del saper porre attenzione e del riflettere su ciò che si fa nel quotidiano, giocando, studiando, e lavorando, per giungere ad una autodisciplina, o sadhana, che ci aiuti nel liberarci da pregiudizi e resistenze che stanno alla base sia di opinioni di tipo particolaristico, che più in generale di una visione dualistica della realtà vivente. Di qui l’impegno per l’eguaglianza tra tutti gli esseri umani, uomini e donne, indipendentemente dalle nazionalità e dalle fedi in cui sono cresciuti. Di qui le varie iniziative di carattere sociale, o per l’istruzione generale di cui l’ashram si fece promotore. Le sue difficoltà inizialmente vennero proprio da questa dichiarazione di non appartenenza ad alcuna chiesa, ad alcuna idea nazionalista, e dalle critiche che nei confronti di esse si portarono avanti nell’ashram. Dalla maggiore consapevolezza e dall’incremento delle potenzialità mentali, fisiche e spirituali di ciascuno, può scaturire secondo Sri Aurobindo e la Mère una umanità rinnovata e superiore a quella odierna.
Questa tensione verso un superamento delle nostre più diffuse limitazioni, è per Aurobindo la spiritualità: “La spiritualità non è un’alta intellettualità, né un idealismo, né una tendenza etica della mente, né una purezza ed austerità morale, né una religiosità o un fervore emotivo ardente, o esaltato, e nemmeno un insieme di tutte queste eccellenti cose. (…) Nella sua essenza la spiritualità è il risveglio alla realtà interiore del nostro essere, allo spirito, al sé, all’anima -che è altra cosa dalla mente-corpo-, è una aspirazione interiore al conoscere, sentire, essere, per entrare in contatto con quella realtà più vasta che pervade l’universo, ed è al di là di esso, e che abita anche il nostro stesso essere; è una aspirazione ad entrare in comunione con questa realtà, per unirsi ad essa, e che come risultato dell’aspirazione, contatto, unione, ci sia un rivolgersi, una conversione, una trasformazione di tutto il nostro essere, una sua crescita o cammino verso un nuovo divenire, per un nuovo essere, un nuovo sé, una natura rinnovata”. (citazione che ha costituito il messaggio augurale trasmesso dall’ Ashram il 15 di agosto del 2006 in occasione della celebrazione dell’ anniversario della nascita di Sri Aurobindo).

LA CITTA’ DEGLI UTOPIANI
Ci sistemiamo la mattina del 13 agosto nella Guest House centrale di Auroville. Io e Michele siamo in un piccolo sotto-tetto cui si accede con una scaletta interna in legno, molto ripida, ed è un po’ un problemino alla notte andare in bagno, che è di sotto, ma fuori, per il fatto che bisogna andar giù, assonnati e con la pila in mano… e poi tornar su (possibilmente senza perdere il sonno).
Ma ci piace moltissimo, e poi dà proprio sulla “piazzetta” centrale dove c’è un grande albero banyan, che è il punto di ritrovo di chi vuole fare incontri e chiacchierare.
E’ tutto molto semplice e alla buona, comunque per sei euro e mezzo a testa al giorno, hai la stanza, i tre pasti, acqua potabile fresca, servizio lavanderia, e uso bicicletta; inoltre ti chiamano un motorickshaw o un taxi (a tariffe controllate), oppure se vuoi con un euro al giorno hai una piccola motoretta.
Così facciamo lavare tutto quanto, e andiamo in giro per la cittadina a vedere le cose più notevoli. Le distanze sono abbastanza grandi da non poter girare tutto a piedi.
Cambiamo i soldi ad un ottimo tasso di cambio, perchè stiamo solo quattro, cinque giorni, stando di più ti consigliano di aprire un conto. Infatti loro vorrebbero che circolassero meno soldi possibile. Ad es gli aurovilliani non prendono uno stipendio, ma gli vengono accreditati in conto circa 80 euro al mese (questa si chiama “manteinance” ed è eguale per tutti, qualsiasi lavoro facciano), e ognuno dà il suo numero nei negozi o nei servizi, e l’importo gli viene detratto dal conto. Al proposito quando si progettava la fondazione della città, la Mère (o Mother, come oramai si dice) fu perentoria: “il denaro non sarà qui il sovrano signore”. Certo non è gran che come cifra, anche se qui ha una capacità d’acquisto molto maggiore che da noi, ma comunque consideriamo che non ci sono tasse, non c’è da pagare l’affitto perché hanno la casa in assegnazione perpetua, l’assistenza sanitaria, istruzione, cultura e sport gratuiti, bici in uso, e moto e scooter in uso a prezzo simbolico; inoltre per gli aurovilliani ci sono particolari minimarket, e magazzini in cui possono avere a prezzo di costo i generi di prima necessità. I servizi di trasporto per anziani, malati o persone con handicap, sono gratuiti (con speciali veicoli elettrici a emissione zero). Non resta poi molto da spendere. Comunque ci sono problemi di mancanza di capitali, e certamente per un euroamericano che voglia venire a stabilirsi qui, lo standard di vita è molto più basso e quindi consigliano di venire con un proprio gruzzoletto, oppure facendosi mandare regolarmente un aiuto dai paesi di provenienza. Per es. degli italiani che si sono trasferiti qui coi bambini, hanno realizzato il più possibile prima di partire, vendendo quello che avevano, e poi magari hanno tenuto l’appartamento dove abitavano, e lo affittano, e si fanno mandare i soldi per bonifico; altri sono potuti andare in pensione anticipata, e per quanto minima qui è già una bella cifra; altri più giovani ricevono qualcosa da casa quando hanno qualche necessità particolare. Comunque in genere chi è residente è anche assai sobrio e ben poco consumista. Si tratta certamente di una scelta ideologica, una scelta di stile di vita.
I prodotti di Auroville, alimentari, stick aromatici, saponette, abbigliamento, borse, sono di ottima qualità (soprattutto per il mercato indiano), e godono di buona considerazione, tanto più che sono venduti a prezzi onesti, pertanto la produzione va piuttosto bene e i profitti vengono utilizzati per incrementare i servizi sociali, e lo sviluppo generale.
Tutta la gestione e amministrazione è come si dice molto trasparente. La gente che viene dai paesi economicamente più sviluppati, porta anche know-how, e molti sono intellettuali, o hanno una buona specializzazione, e socializzano le loro conoscenze ed esperienze.
Auroville vuole essere anche la sede per attività sperimentali e per la ricerca applicata in vari settori, con lo scopo poi di portare all’esterno le proprie acquisizioni, e così è appunto in agronomia, in campo ecologico, e in vari settori dell’artigianato. Inoltre il livello dell’istruzione è piuttosto buono.
La cittadina dunque, pur avendo il numero di abitanti che ha un nostro paese di provincia, ha la vivacità culturale (biblioteche, cineteche, festival, ecc), e i servizi, di una città. Questo si deve anche al fatto che si ritiene la varietà culturale una ricchezza, e inoltre per favorire l’integrazione nella vita sociale e la cooperazione, si considera importante che ciascuno possa ritrovare qui la presenza della propria civiltà d’origine (informazioni, usanze, cultura…). quindi vi sono continuamente iniziative e spettacoli, o corsi pubblici in cui si ha accesso a film, testi, musica ecc. di vari paesi, e vi sono, e si stanno costruendo, vari centri culturali “nazionali”. Ciò in vista del fatto che non si perda la propria identità che è preziosa proprio nell’acquisire quella nuova di aurovilliano impegnato a favorire l’unità dell’umanità. Naturalmente c’è molta tolleranza e compresenza di comportamenti e abitudini le più varie, e molta libertà di espressione. L’obiettivo ideale sarebbe di poter avere qui a vivere stabilmente almeno un paio di famiglie in rappresentanza di ogni paese del mondo. Certo in generale la cultura dell’India è prevalente, inoltre sono molto presenti pure i tibetani, e oltre a queste componenti ci sono poi francesi, inglesi, tedeschi, olandesi-scandinavi, e i nordamericani, ma nel totale c’è un po’ di tutto. Interessante anche il continuo viavai di visitatori e di turisti da ogni dove.
Il grande banyano sotto cui ci si siede alla Guest House a conversare e a prendere il thé, è quasi una metafora di Auroville, perché è come un grande individuo con molte braccia, che ci circonda e protegge, ed è lui che crea l’atmosfera raccolta che da il tono al nostro soggiorno. E’ qui che si sta a chiacchierare, e che si ascoltano le storie degli altri viaggiatori, e ci si scambiano le opinioni e le impressioni su Auroville. E’ veramente stupendo e non mi stancherei mai di ammirare e fotografare questo venerabile anziano “Signore del luogo” (deus loci). Sapete com’è un banyano, dai suoi rami cadono delle liane che toccando terra mettono radici e formano un nuovo albero-figlio che resta attaccato al tronco primario, e così via occupando un territorio sempre più vasto. Diviene come una foresta di colonne, sottopassaggi, ponti… Quello al centro della città, vicino al Matrimandir è oramai estesissimo, e ci si cammina sotto per un po’. Annalisa dice che però le pare nel contempo anche un po’ inquietante perchè finisce per inglobare tutti gli arbusti e le piante che incontra. Con la sua lentezza comunque inesorabile si muove e amplia la sua “supervisione” (un po’ da godfather). Ciò nonostante continua ad affascinarmi, pur con questo suo risvolto dominante – patriarcale, perché in realtà poi non riesci più bene a capire quali sono i figli e quale il corpo d’origine. Anzi ora che lo guardo sotto quest’ottica a me pare paterno, anzi …come un nonno…

AUROVILLE, 2
Tutto era iniziato con una aspirazione espressa dalla Mère nel 1954, quando scrisse, “un sogno. Dovrebbe esserci un qualche angolo della terra in cui nessuna nazione abbia il diritto di dire: è mio! Un luogo in cui ogni uomo di buona volontà, con una sincera aspirazione, possa liberamente vivere come cittadino del mondo”. Ispirati dall’universalismo predicato da Aurobindo e dalla Mère, vari giovani di vari paesi vennero qui, a una dozzina di kilometri dalla periferia di Pondicherry, a lavorare per dar vita alla città utopica:  Auroville. Per me c’è una assonanza con “città d’oro”, e penso alla Città del Sole di Campanella (invece l’assonanza fu forse ricercata con il francese Aurore, giocando sull’ambivalenza tra l’inizio di aurora e di Aurobindo). Stilarono una Carta fondamentale, in cui si diceva che “la città non sarebbe appartenuta a nessuno in particolare, bensì all’umanità nel suo insieme”. Satprem, un vicino collaboratore di Aurobindo scrisse una lettera aperta agli studenti di tutto il mondo, che allora iniziavano il movimento di contestazione: “Questo è il tempo della Grande Avventura. Il mondo è chiuso solo i robot vanno sulla luna, e le nostre frontiere sono dappertutto ben controllate: a Roma come a Rangoon gli stessi funzionari dello stesso Sistema ci sorvegliano, verificano le nostre teste e frugano nelle nostre tasche. Non c’è più spazio per l’avventura nel mondo. La libertà è dentro, lo spazio è dentro, e così la trasformazione del nostro mondo attraverso il potere dello spirito (…) se avremo il coraggio di scendere nei nostri cuori, allora tutto diverrà possibile”. Alla cerimonia di fondazione, il 28 febbraio 1968, vennero qui “rappresentanti” da quasi tutti gli stati dell’India, e da 124 paesi del mondo, con un pugno di terra del loro paese e la versarono in un’urna a forma di loto, attorno a cui si riuniscono ancor oggi ogni anno il giorno del compleanno di Aurobindo. La cerimonia di fondazione avvenne sotto l’egida dell’Unesco che riconobbe nell’esperimento un alto valore simbolico. Nell’anno in cui morì la Mère, si contavano 322 aurovilliani, oggi sono quasi duemila, di una quarantina di nazionalità diverse (un terzo sono indiani), di ogni classe sociale. Il piano urbanistico della cittadina è stato progettato per uno sviluppo sino a 50 mila abitanti, ed assomiglia ad una ruota con cinque raggi attorno a un perno, ma come se fosse in movimento, quindi con una torsione dei raggi stessi, vista dall’alto è quasi una galassia a spirale. Queste zone con abitazioni sparse, sono immerse in un contesto naturale di vegetazione, tanto che girovagando per la cittadina quasi non ci si accorge di essere in un centro urbano, ma pare di girare per sentieri che si inoltrano nei boschi. Grande è il rispetto per l’ambiente, e grande l’attenzione a fare ricorso solo a fonti di energia “alternative” (sole, vento, acqua, …) e comunque rinnovabili e non inquinanti. Già più di un quarto delle costruzioni non sono collegate alla rete elettrica nazionale dato che utilizzano pannelli fotovoltaici, inoltre vi sono una trentina di grandi mulini a vento che alimentano le pompe d’acqua, un centinaio di pompe solari, si contano una settantina di cucine collettive solari, e la grande cucina centrale utilizza per la cottura dei cibi il vapore prodotto da un pannello solare concavo del diametro di 15 metri. In questi trent’anni nei milleduecento ettari del territorio, che inizialmente era abbandonato e brullo, sono stati piantati più di due milioni di alberi da frutta e da legna. Per l’irrigazione, e per evitare l’erosione e la aridità, sono stati inventati metodi originali di contenimento delle acque piovane, e di rigenerazione del suolo, per cui il territorio ora è estremamente florido. Nel territorio, e nei campi agricoli che lo servono, non si usano fertilizzanti o prodotti chimici, ma solo metodi organici per lo sviluppo di una policoltura intensiva. Tutto ciò che attualmente esiste è stato costruito dal nulla. . .
Il centro geografico è un grande maestoso albero banyan, che rappresenta l’unità nella molteplicità, ma a pochi passi vi è il centro ideale e il perno di questa polis, che è costituito simbolicamente da un grande globo dorato, e a poca distanza vi è l’urna con tutte le terre del mondo, e attorno un anfiteatro per le riunioni generali. Questo centro spirituale, che non appartiene a nessuna religione ma è aperto a tutti, è il Matrimandir, Tempio della Grande Madre Universale. A questo proposito la Mère espresse nel 1970 questa indicazione: “Sri Aurobindo ha insegnato che è nella Materia che il divino si manifesta: Egli ha insistito sulla comprensione del concetto di Madre Creatrice. Il Matrimandir deve esistere per insegnare all’umanità che non è sfuggendo al mondo o ignorandolo che gli esseri umani realizzeranno il divino nella vita. Non voglio che diventi un luogo religioso, non voglio assolutamente dogmi, né regole, né riti.”
Il Matrimandir è come sostenuto tutt’attorno da grandi petali contenenti ciascuna una sala di meditazione e concentrazione, e all’interno ha una sala con una sfera di cristallo. Qui si vede sulla destra l’urna con le terre del mondo.

AUROVILLE, 3
Andiamo a visitare i luoghi notevoli della cittadina. Tutto qui ad Auroville ha un valore ed un rinvio di tipo simbolico, non si tratta solo di una concezione urbanistica (si pensi per es. alla città di Le Cobusier, Chandigarh, capitale del Punjab, o a Gurgaon nell’Haryana, o Ghandinagar nel Gujarat) ma della realizzazione di elementi simbolici. I nomi dei rioni (Sincerity, Bliss, Horizon, Existence, Grace, Invocation, Gaia, Progress, Fraternity, Transition…), e le loro destinazioni prevalenti (Auroville è zonizzata), l’architettura del “municipio”, della Biblioteca, della sala riunioni, del centro di cultura, eccetera, materializzano determinati simboli che stanno alla base, sono di fondamento, sono irrinunciabili, nella ideologia che pervade questa polis. Perciò hanno la priorità, vanno stabiliti inizialmente, prima di procedere ad una costruzione e alla sua collocazione, poi viene il resto. Un po’ come accadeva per la fondazione di città nell’antichità.
Dunque dopo il Visitors Centre, con esposizione e vendita dei prodotti locali, foto sulla storia della città, video sul matrimandir, eccetera, visitiamo la cucina solare, la Town Hall che con la sua bella architettura fronteggia il matrimandir ed ha dietro ad una grande vetrata una grande sfera scomposta e aperta, con attorno i vari piani degli uffici che vi si affacciano, poi la Bharat Nivas la casa delle culture dell’India, con l’Auditorium, in mezzo a un bel parco di cactus, agavi, fichi d’india, fiori colorati tropicali, ecc., il centro culturale Sàvitri Bhavan, con tutte le opere di Aurobindo, video, registrazioni sonore delle interviste o dei discorsi di lui e della Mother, biblioteca, riviste, sala conferenze, tutto in cemento vivo, con molto movimento nella parte strutturale, e grandi spazi aperti illuminati, e al centro il capolavoro di Aurobindo, il poema epico “Sàvitri”, in una edizione di gran lusso rilegata e con incisioni, esposto su un pubblico leggìo, poi il Padiglione della cultura tibetana, e  il centro di progettazione architettonica e urbana, poi vediamo delle scuole, campi sportivi e altro…
Girando ci fermiamo alla bella bakery, la panetteria dove c’è sempre pane fresco alla francese, torte, quiches, paste e dolci, appena sfornati, e si può stare nel bar all’aperto lì accanto a consumare bevendo spremute di frutta, sotto l’ombra di bei alberoni, e fare conoscenze, o ascoltare conversazioni in varie lingue. Diamo una occhiata a un magazzino del servizio “Pour Tous” per gli aurovilliani, dove vanno e vengono vecchi sessantottini con lo scooter a fare rifornimenti di latte, e generi vari.
Girovaghiamo un po’ per i sentieri sterrati in mezzo al bosco, che sarebbero le vie, dove è molto facile perdere l’orientamento dato che si assomigliano moltissimo tra loro.
Il 15 agosto, che è l’anniversario della nascita di Aurobindo, e dunque festa per la città, ci alziamo alle 04 a.m. per recarci al Matrimandir, e lì assistere alla celebrazione dell’arrivo dell’alba. Procediamo con le pile nel buio totale, camminando tutti in silenzio e assonnati, e via via convergono masse di gente di tutti i tipi, moltissimi indiani dei dintorni, o arrivati appositamente con pullman al parcheggio, e poi a piedi, e anche non pochi turisti. Semplicemente si sta nell’anfiteatro ad attendere i primi chiarori dell’alba, sentendo i cinguettii o i fischi dei vari uccelli o scoiattoli man mano che si svegliano, fin quando viene acceso un grande falò, vengono diffuse musiche sommesse e poi un discorso della Mother in inglese, quindi con la luce il globo del matrimandir diviene tutto dorato e luminoso, e a quel punto la riunione si scioglie. Il tutto è suggestivo nella sua semplicità essenziale. Si esce passando accanto, o sotto, al grande venerabile alberone banyan.
Queste comitive di indiani giunti coi pullman mi colpiscono, perché questo non è un luogo hindu, e non è nemmeno un luogo con una denominazione di una religione, o di una nuova religione, ma loro vengono qui perchè vi riconoscono un luogo di spiritualità, perché si celebra un grande saggio, uno Shri, un sant’uomo. E questa è una caratteristica dell’India: li abbiamo visti l’altr’anno a nuova Delhi fare la fila per entrare nel grandioso tempio Bahai a forma di fior di loto, o alla Global Pagoda buddhista, o in un famoso tempio Jain, o Sikh, o tibetano, oppure per vedere la grande moschea rossa moghul della vecchia Delhi, o il santuario di Alì a Bombay; vanno a vedere gli Hare Krishna, a sentire i guru, di cui non necessariamente condividono il messaggio, l’ideologia, o il credo. E’ una forma di rispetto e riconoscimento del fatto che si tratta di qualcosa di venerabile e dotato di una sua sacralità. Questa è anche una curiosità per le varie forme e tematiche della spiritualità (si vedano ad es. le rubriche fisse di spirituality su quotidiani come il “Times of India” o lo “Hindu Times”, o altri, in internet), ed è una particolarità una peculiarità della cultura e della civiltà indiane.
Solo in India potevano sorgere Auroville, il Centro Tibetano di Dharamsala, potevano aprire i più disparati e contrastanti Ashrams, ecc…..
Vi ricordate che fine fece la comune internazionale costruita da Osho nell’Oregon, quando la democratica e tollerante società americana requisì tutto ciò che era stato costruito in quelle lontane e appartate foreste del nord-ovest, cacciando con le fucilate della Guardia nazionale tutti i residenti dopo una feroce caccia alle streghe, con morti e feriti, e poi rase al suolo tutto quanto e lo incendiò…? Solo l’India li accolse.
Ma ve la immaginate voi una città come Auroville in Italia? o che lo stato italiano sollecitasse l’interessamento dell’Unesco per valorizzare una esperienza del genere conferendole valore simbolico? sì possono esserci piccole iniziative qua e là, ma nel silenzio dei mezzi d’informazione, perchè non piace che si mettano sullo stesso piano le più disparate religioni, che si esalti un ideale di fusione interconfessionale per un obiettivo di una umanità unita, o cose del genere. In India si può.

LASCIANDO AUROVILLE
La filosofia di Aurobindo nasce sul terreno culturale della generazione fiorita negli anni Venti/Trenta del secolo scorso, e ha temi e motivi in comune con altre filosofie di quel tempo, ma si caratterizza per l’accento posto sugli aspetti fisici-corporei. I suoi esercizi di meditazione/concentrazione di tipo yogha, mirano a produrre nell’individuo un effetto psico-somatico che Aurobindo pensava potrebbe portare ad un perfezionamento dell’essere umano. Cioè pensava che potesse produrre addirittura una trasformazione a livello cellulare stimolandone le attività e le reti connettive. Comunque l’accento posto su certe pratiche yogha, lo concepiva volto a potenziare le possibilità latenti della nostra stessa costituzione organica. E’ ritenuta una via di perfezionamento che mira alla promozione della perfettibilità della nostra specie, con l’aiuto di un contesto sociale di tipo non-conflittuale.
Nelle chiacchierate sotto il banyano della Guest House, ci dicono che è per questo che ad Auroville si coltivano molto gli studi e le pratiche del massaggio, ricorrendo ad un sincretismo di scuole differenti, pur di raggiungere una maggiore conoscenza della persona e una più ampia gamma di risultati, stimolando l’individuo da più punti di vista, ma sempre nel rispetto della psicologia del singolo. E poi è da qui che dall’ashram originario è scaturita questa attenzione al sociale, ai prodotti, all’urbanistica, all’architettura, che contraddistingue Auroville.
Ma i 1800 cittadini aurovilliani, non saranno poi destinati a divenire una casta dominante, che vive grazie al lavoro dei contadini e degli operai poveri dei paesini attorno, e alle rendite inviate loro dai paesi d’origine? Fattostà che indubbiamente questo tipo di esperimento, e soprattutto questo particolare ambiente di vita, e l’aver strutturato queste condizioni del vivere e della socialità, risulta attraente per un certo tipo di pubblico. Inoltre un visitatore occidentale che ritrovi qui una atmosfera perduta, tipo anni settanta/ottanta, un certo spirito di avventura, il piacere di costruire qualcosa di nuovo, unico, ambiziosi progetti che ti fanno sentire protagonista di una sperimentazione di grande respiro…, può percepire tutto ciò come gradevole e accattivante. Ci si ritrova alla sera a parlare di queste idee, di queste illusioni, di questi obiettivi di lungo periodo, in un contesto esotico, a discutere di grandi tematiche, a raccontarsi dei propri viaggi e scambiarsi le proprie riflessioni. E’ simpatico vedere in giro ex giovani ed ex ragazze con lunghi capelli grigi o bianchi, che se ne vanno intorno con il motorino o lo scooter. Perché ogni tanto c’è pure da andare fuori, nel mondo circostante, nei paesi attorno, o in città a Pondicherry, che sta a un quarto d’ora dalla polis degli utopiani, in una cittadina che ancora risente abbastanza della impronta europea che la Francia si impegnò a dare a questo suo piccolo lontano “stabilimento” della Compagnia francese delle Indie.
Non diventerà una “riserva” di interesse turistico? non staranno gli onnipresenti volti e simboli di Aurobindo e della Mother, diventando marchi commerciali per prodotti di qualità e di un certo stile? Non si ridurrà un po’ tutto a qualcosa che se impresso su una T-shirt la rende più vendibile ai curiosi di passaggio? Certo una cittadina con le sue problematiche non solo economiche ma anche sociali, non è (e non può essere) un grandissimo ashram. Nel paesino degli aurovilliani, tutti si conoscono e il giornalino delle News parla degli eventi di quel piccolo mondo, di cui forse i ragazzi divenuti adulti si stuferanno. Gli aurovilliani -passata per motivi d’età la generazione dei fiori e delle grandi alternative- chi saranno? chi saranno gli attuali ragazzini nati qui per i quali tutto ciò è normale, e le avventure dei padri sono un noioso ripetersi di frasi retoriche? Questi figli sembrano assomigliare tanto, e vogliono assomigliare, a quelli delle lontane società d’occidente, o delle metropoli in sviluppo della nuova India (ma forse solo a livello esteriore). Saranno essi i degni custodi inflessibili delle regole auree della repubblica platonica? Ma forse qui sarebbe più ottimista ricordare il guru Narayana (1854-1928) che fondò una società di previdenza che governasse saggiamente il villaggio di Muthakunnan nel Kerala, (cfr. E.Zolla, “Come ho trovato la Città del Sole”, Corriere della sera, 3.3.1979), esperienza che tuttora prosegue con generale consenso pur dopo tanti anni.
Ma al di là di questi timori, Auroville rappresenta una scommessa, una promessa, per “molti” una speranza cui guardare. In ogni caso sta di fatto che l’esperienza prosegue, e una nuova realtà si è comunque radicata nel territorio.

IMPREVISTO
Progettiamo un viaggio da farsi noi quattro nelle due settimane dopo la partenza degli amici, e così andiamo nella efficiente agenzia viaggi aurovilliana, prenotiamo, paghiamo, e poi per renderci le cose meno faticose, decidiamo di non prendere il treno notturno con cuccetta che per arrivare a Madurai ci metterebbe dieci ore e mezza, e prendiamo invece dei biglietti low cost per un volo aereo. Quindi ritorniamo di nuovo alla Railway station a Pondy per cancellare la prenotazione che avevamo già fatto, e a quel punto per rilassarci un poco decidiamo di passare il resto della giornata al mare, nello stabilimento balneare aurovilliano di “Repos”. Finalmente ci facciamo un bel bagno e un po’ di mare! e lì: l’imprevisto.
Annalisa per non cadere a causa di un’onda forte in arrivo sul bagnasciuga, si gira per correre indietro, e fa una torsione col ginocchio sinistro mentre la gamba è sprofondata nella sabbia che le tiene bloccato il piede. Non riesce più ad appoggiarla e quindi a camminare. Tornati con un taxi, prepariamo i bagagli sperando che passi, ma si muove solo con faticosi saltelli su un piede solo, o spingendo lentissimamente una sedia. La mattina dopo, dobbiamo lasciare le nostre stanze, ma la cosa non è passata per nulla, anzi è peggiorata. Allora con l’auto che avevamo prenotato per portarci a Chennai (Madras) all’areoporto, andiamo invece all’ospedale che c’è fuori Pondicherry, a Pyms, un centro medico moderno ed efficiente. Lì viene ricevuta e visitata nel reparto di ortopedia, il medico le prescrive immobilità, riposo, e siccome gli diciamo dell’aereo, la manda al reparto radiografia per fare una lastra, e poi le fa mettere una lunga e stretta fasciatura, e le prescrive l’uso delle stampelle per almeno due settimane. La manda al reparto di fisioterapia e là le fanno un breve corsetto rapido con addestramento all’uso corretto delle stampelle. Veramente bravi, efficienti, oltre che cordiali e gentili. Dobbiamo pagare tutto (20 €) e usciamo contenti e soddisfatti.
Non è dunque questa una ironia della sorte? ora che credevamo di poter disporre del nostro tempo in totale libertà di scelte, e di fare grandi camminate a visitare i templi di Madurai e di Tirucchirappalli, ci ritroviamo da un momento all’altro in condizioni ben diverse, imprevedibili, e su cui non possiamo fare nulla, se non accettare gli eventi, e tutto a causa di un attimo in cui si sono decise le sorti delle prossime due settimane… La vacanza passa in secondo piano rispetto all’ attenzione al corpo, lo spirito muta ed è meno baldanzoso, i tempi si trasformano radicalmente, divenendo lentissimi, il dolore che Annalisa prova nell’appoggiare il piede o fare un passo ci ricorda le priorità e i limiti. Una lezione da non dimenticare e da non disprezzare (e come?), né minimizzare. Con l’auto che ci porta verso l’aeroporto passiamo vicino a Mahaballipuram, ma non c’è più tempo per fermarci come avevamo previsto perchè abbiamo perso l’intera mattina all’ospedale (volevamo rivedere dopo anni i magnifici antichi monumenti oggetto di pellegrinaggi). Invece poi arriva un messaggio sul cellulare in cui ci avvisano che il volo è posticipato di tre ore… Arriviamo comunque un’ora e mezzo prima della nuova partenza, per venire a sapere in aeroporto che il volo è spostato di un’altra ora. Insomma in definitiva anziché alle 5.20 partiremo alle 10.30… Ore e ore in questo aeroporto, in questa nowhere land, in questo non-posto fuori dal mondo. Alfine si va, portano Annalisa seduta sulla sedia a rotelle a braccia su per la scaletta, con rischio di cadere all’indietro addosso agli altri passeggeri sotto alla scaletta, …..ma alfine si parte. A Madurai Annalisa scende la scaletta di sedere. Arriviamo all’albergo anziché alle sette previste, poco dopo la mezzanotte. Annalisa sale le scale dell’albergo carponi, e saremo a letto verso l’una!

A MADURAI
18 agosto 2006, Madurai
Ora comunque siamo sulla terrazza dell’albergo per fare il breakfast, c’è una bella brezza e un panorama vastissimo. Dinnanzi a noi si stagliano sulle casupole i quattro grandiosi gopuram (=torri/porte) colorati del complesso templare: quasi una visione da fantascienza proiettata nel passato.
Passato, presente, futuro si toccano e si congiungono come nelle dita di Shiva insegnante. L’immaginazione corre, stimolata fortemente dall’emozione di questa vista, e con la fantasia mi figuro quando 4 secoli fa, quel grande complesso emergeva da una cittadina di capanne di fango e paglia, e il palazzo reale era più grande di ora ! venendo da fuori, tra le palme fitte e i banyans, e la vegetazione equatoriale, improvvisamente vedevi i quattro gopuram….! Un complesso di queste proporzioni stava a significare anche che esisteva là un centro di saperi, di artigiani, un mercato commerciale e di scambi, un centro di produzione, un centro di potere religioso e politico di grande levatura.
Quando scendiamo in strada e poi giunti là entriamo, già nella prima cinta muraria rettangolare si avverte di essere passati per una soglia  e di avere fatto ingresso in un mondo a sé con una atmosfera differente di grande suggestione. La penombra, i colonnati, la grande vasca per le abluzioni, gli altari, e tutta la grande massa di devoti, creano veramente un universo a parte.
Si percepisce anche che l’attuale complesso templare è il risultato di aggiunte e rifacimenti nel corso di una lunga storia, sulla base di un tempio molto più antico. In effetti una parte è dell’epoca che noi chiamiamo medievale, e una parte addirittura risalente all’antichità. Pensate che ad esempio Megastene (che ho già citato, storico e geografo inviato dal diadoco alessandrino Seleuco Nikator, più volte in missione tra il 302 e il 292 av.C.), venne fin qui attraversando la fitta jungla, come ambasciatore presso la corte del Raja Chandra Gupta (dai greci poi storpiato in Sandracottos), quando questo era un lontanissimo centro di esportazione di spezie rare e di pietre preziose. Chissà cosa raccontò quando ritornò indietro (purtroppo non abbiamo un suo “Milione”…). Chandragupta fu poi il fondatore della dinastia Maurya che estese il proprio regno sino al nord, cacciando i dominatori alessandrini dai territori lungo il fiume Indo.
Ma il culto che qui si esplica, rivolto alla divina Sri Meenakshi, è più antico ancora. Meenakshi, la bella dall’occhio di pesce, nasce sulla terra del fuoco sacrificale, ed è una divinità matriarcale. Il suo culto era così forte, sentito, e radicato che l’hinduismo non poté soppiantarlo, e quindi venne inglobato, assimilato. Nella ricca Madurai, il cui nome viene da madhuram, dolce come il miele, la bella dea fu detta essere una apparizione di Devi, e di lei si innamorò il dio Shiva in quella sua manifestazione in cui è considerato come “il bel Signore”, l’affascinante, Sundareshvara. Ed il Meenakshi Mandir fu ampliato con una immensa sala in cui i due incontratisi si innamorarono. Perciò, per lo meno dal 1500 questo è il tempio del matrimonio, un tempio bino, in cui si celebra la congiunzione divina. Meenakshi, rappresentando l’energia femminile è assimilata a Pàrvati, la shakti di Shiva, e l’unione delle due divinità è l’unità delle due polarità. Il grande complesso templare, uno dei più affascinanti dell’India, fu portato a compimento a metà del 1600 dal principe, nayak, Tirumalai
In quella parte, detta Mandapa, “sala dalle mille colonne”( 985), che poi furono decorate con figure scolpite nella roccia, di straordinaria forza e bellezza, ora c’è una sorta di museo del tempio, o esposizione, tenuta malissimo (o meglio non-tenuta né intrattenuta), ove sono esposte opere stupende, tra cui molti pezzi antichi, risalenti all’epoca in cui si diffuse il buddhismo, pezzi inestimabili che vanno pian piano in rovina (soprattutto per quanto riguarda gli arazzi, i dipinti, le pergamene, ecc…).
Le statue, addossate alle colonne come cariatidi, sono opere d’arte che rivelano un gusto estetico, e tecniche artistiche di grande raffinatezza. La ricerca del movimento, le leggere torsioni, le espressioni di serenità, la ricerca di armonia tra le parti, le loro proporzioni, la capacità riproduttiva, il risultato di perfetto equilibrio, denotano la presenza di una scuola di notevolissime tradizioni e di grandi abilità.  Si trovano commisti l’umano e l’animale, il maschile e il femminile, la serenità e il valore guerriero, la bellezza e il grottesco…
Ritorniamo al tempio alla sera perchè proprio oggi alle 7.30 p.m. l’immagine di Pàrvati/Meenakshi verrà portata in pompa magna su un carro-baldacchino in giro per tutto il vasto complesso templare, con banda musicale, un bue sacro  tutto dipinto e adornato, reggendo ombrellini coloratissimi, e l’elefante del tempio, di 40 anni d’età, anche lui tutto ricoperto di sbirluccichini e vetrini, con un bel coprifronte, eccetera. In un percorso tutto dentro, interno al tempio, passando per tutte le gates-torri, a cominciare da quella dell’est, fino ad una camera nella parte più sacra e più interna, inaccessibile a noi, che è quella che fuori ha una luminosa cupola tutta dorata. E poi lì alle 9 p.m. verrà condotta la statua di Shiva, e i due verranno lasciati soli a porte chiuse a passarvi tutta la notte assieme.
Centinaia di persone, soprattutto donne (la dea è protettrice e guaritrice dei guai femminili, tipo mancata gravidanza o difficile gestazione, ma anche ogni altro tipo di inconveniente femminile) seguono con grande fervore la processione, tutte con belle ghirlande di fiori freschi tra i capelli, e molte belle speranze.
Già stamane avevamo visto tante donne sedute per terra in un punto del tempio , che portavano in offerta olio in un piccolo spicchio di noce di cocco, e con quello ungevano le statue e i bassorilievi delle colonne dove è raffigurata Meenakshi, e accendevano una fiammella, allo scopo di chiedere di poter avere un marito buono e buone gravidanze.
Nel museo interno, là dove c’è una vecchia statua lignea tutta colorata di Pàrvati davanti ad un “carro del Sole”, una giovane si ferma di colpo come fulminata dalla vista della dea, così vicina, così accessibile, e si ferma a prenderle la mano con tenerezza e le sorride. La guarda proprio fissa negli occhi, sta vicinissima al suo volto, è felice estasiata, mugugnando qualcosa come una nenia, e nemmeno si accorge che a un certo momento la fotografo con il flash. E’ radiosa quando, chiamata più volte, alfine si distacca e raggiunge la madre che è già all’uscita del museino. Cosa crede? cosa ha nella sua mente? cosa cerca? quale bisogno la spinge a questa saldissima fede? qual è la molla interiore che fa scattare questa sua incrollabile credenza? Il bisogno di un riferimento, di una protezione, di una figura consolatrice, probabilmente… chissà…
In un certo punto del tempio c’è un lungo palo d’oro che va oltre il soffitto, e di giorno entrano dal buco solo raggi perpendicolari al terreno e paralleli all’asta, con grande effetto. Alludono forse al perno di luce eterna attorno a cui gira la galassia (e il cosmo intero) come una grande ruota, fascio immenso senza fine (come per la dea greca arcaica Hestia). E’ quello il segno dinnanzi al quale, come raccontano gli shivaiti, gli stessi Brahma e Vishnu, che si scambiavano opinioni sul primato nella Trimurti, concordarono che il titolo di primo tra pari avrebbe dovuto spettare al dio solare del fuoco, Shiva.

THEOSOPHICAL SOCIETY
Ieri il conducente del motorickshaw mi ha presentato un signore che abita proprio di fronte all’ingresso dell’albergo, e che ci aveva notato, e voleva conoscerci. Ha un viso particolare, e ancor più, ha le labbra proprio sottili che paiono un po’ violette sulla pelle decisamente bruna scura, un asciugamano sulla spalla, a torso nudo ma con calzoni “moderni”, e a piedi nudi. Parla bene un buon inglese, e gli sorridono anche gli occhi. Mi fa entrare in casa sua, e mi mostra che nella sua camerina, sopra al suo letto, tiene un enorme dipinto di suo nonno da giovane. Era stato un allievo di Sri Maharshi, che gli aveva insegnato, o fatto insegnare, l’arte di prendersi cura del corpo, e in particolare della pelle. E dunque aveva poi fondato una sorta di laboratorio artigianale domestico per la produzione di oli speciali per massaggi, e di saponi, fatti con erbe aromatiche, usando solamente ingredienti naturali cui si attribuiscono particolari proprietà. Poi insegnò a sua volta i segreti della composizione, delle proporzioni, delle procedure, della lavorazione, ecc. al proprio figlio, che è suo padre, che a sua volta li trasmise a lui. Poi mi porta lungo il corridoio alla sala grande al centro della casa, dove la moglie e la figlia accucciate stavano confezionando e imballando bottigliette. La moglie è bella e dolce, anche se mi fa vedere un altarino con la foto della suocera appena morta, e mi dice che si scusa ma è per questo che sono ancora tutti intristiti. La figlia di 21 anni è figlia unica, le piace giocare a tennis, e lui (il padre) fa ogni sacrificio purché possa farlo regolarmente. Parla bene inglese, e vorrebbe tanto vedere l’Europa. Chissà se poi continuerà a tramandare i segreti della fabbricazione artigianale orgoglio di famiglia?…O se aprirà un minimarket dei nuovi prodotti industriali made in India?
Vado un po’ in giro a cercare un posto che avevo visto dal rickshaw e che dev’essere molto vicino, ma le strade si assomigliano tutte moltissimo, quindi vengo seguito e “aiutato” da un tale, poi da due, poi da tre, sinché si trova uno che capisce quel che cerco e mi indica la via. Ecco trovata la sede della “Theosophical Society”, che sembra come abbandonata da decenni, e in via di disfacimento lento.
Certo qui con l’umido, i monsoni, il sole fortissimo, tutto di disfa, ammuffisce, si sgretola. Questo edificio è come uno squarcio del passato che si apre tra un palazzo moderno ed un altro. Forse è ancora lì perché è abbandonato, cioè proprio in quanto è totalmente dimenticato da tutti. Il suo guardiano, lo usher, è addetto alla sua sopravvivenza apparente. Forse era da ragazzo l’inserviente, poi quella portineria è diventata la sua unica casa… Qui tutto è pieno di polvere e ci sono ragnatele e muffe. Non un segno di presenza umana recente, tutto scricchiola, e dalle foto alle pareti i volti mi guardano increduli.
E’ tutto in bianco e nero, è come entrare in un dagherrotipo impresso su una lastra di vetro. Mi pare di essere uno del film “la macchina di Morel”, e di aggirarmi in un ologramma. Avrebbe potuto passare di qui mia nonna materna, sì quella che è morta poco prima che io nascessi, e si sarebbe soffermata con il suo cappellino con la velette, la borsetta nera e la stoletta di volpino sulle spalle, e certamente si sarebbe intrattenuta ad amabilmente conversare con i soci sui rapporti della Teosofia con gli esercizi di respirazione pranayama, oppure se Krishnamurti (che lei certamente incontrò in qualità di redattrice della rivista “La Ricerca Psichica”), fosse o no Maitreya, il nuovo avatar. Poi uscendo dalla sala della biblioteca si sarebbe voltata a salutare e sarebbe scesa dal porticato nel bel giardino fiorito, girandosi a far loro un ultimo sorriso, magari giungendo le mani nel passare sotto la scritta che sta ad arco sopra al cancello esterno.
Dopo di ché il tempo passa e spazza via tutto come il vento che precede e porta il monsone: la guerra d’indipendenza dagli inglesi, la tragedia della spartizione coi profughi e i massacri, e poi addirittura il passaggio di un paio di generazioni. Il tempo ne ha spazzato via decine e decine di milioni, con la sua falce ha apportato la morte totale di tutti quanti c’erano allora, nessuno escluso, tutti tolti di mezzo con un gran soffio di vento caldo. Ora, svaniti anche gli ultimi refoli e mulinelli, ecco qua sopravvissuta, come se nulla fosse stato, la Theosophical Society of India di Madurai, con la sua Free Library & Reading Room, la biblioteca impolverata, i suoi bei libri rilegati mai più toccati da mano umana, le sue collezioni di riviste oramai rare, le sue opere complete della Blavatsky in non so quanti volumi, che non potevano certo mancare e che saranno state assiduamente consultate, la imponente “History of Free Thinking”, i testi della Besant, di Gurdjeff, di Ouspensky, e insomma tutto il suo patrimonio librario ancora lì intatto, come se qui la storia fosse stata messa tra parentesi, come in sospensione, in stand by. In questo giorno -venuto sin da migliaia di miglia- mèmore delle letture e delle passioni di mia nonna, a un certo punto entro io, illudendomi addirittura di entrare per consultare lo schedario…!, accolto dal guardiano incredulo e assai seccato.
Oggi visitiamo quel che resta del grande palazzo reale di Tirumalay Nayak costruito nella prima metà del 1600 (con l’assistenza di un architetto italiano), uno dei più bei monumenti dell’architettura civile del sud dell’India, e uno dei più imponenti. Nel grande cortile il re riceveva e si svolgevano recitals e letture di poesie (oggi è adibita a spettacoli vari). Nella sala adibita a teatro per la rappresentazione di drammi sacri, oggi c’è un piccolo ma prezioso museo con pezzi bellissimi e antichi, ma anche questo mal conservato e mal illuminato (stupendi certi disegni e pitture di cui restano solo frammenti).
Sono su nella terrazza al 7° piano, è sera e i grossi falchi (ma forse sono proprio aquile…) in gran numero si lanciano nell’aria e volteggiano, vanno su su altissimi, e poi si lasciano andare alla corrente. Che fascino che ha questo loro dominio dell’elemento aereo! questo navigare, nuotare, volteggiare, scivolare nell’aria! Sopra: i nuvoloni neri incombenti, in mezzo il vento coi suoi abitanti alati, sotto il grande tempio coi suoi imponenti gopuram colorati. E attorno la città brulicante con tutti i suoi rumori mischiati assieme, e attorno ancora il regno vegetale, tutto verde fitto fino all’orizzonte lontano, che fa come da corona, nonché da sostegno, e riposo, per il popolo alato degli uccelli e degli uccellini, che posandosi lanciano i loro diversi gridi e segnali. Vorrei tanto, come quella divinità scolpita nella pietra di una delle mille colonne, cavalcare un grosso volatile favoloso, e godere dei suoi poteri di volo. Ma… in effetti, dovesse accadere veramente, ne avrei una paura insopportabile, e lo pregherei di farmi scendere, implorando quella cavalcatura che mi illudevo di poter dominare e usare… … e finisco queste note serotine mentre guardo le aquile, figurandomi quel brivido del sangue che gela per l’eccessiva e pazza frequenza del battito cardiaco… Il terrore di cadere è troppo primordiale per poterlo controllare quando si attiva, è inscritto nel midollo, nel cervelletto, e l’allarme rosso scatta automaticamente. Non siamo padroni di noi stessi in certe situazioni, anche se questo pensiero normalmente lo accantoniamo.

CHE COS’E’ SAMSKARA?
Certo che il bombardamento di stimoli cui si è sottoposti durante un viaggio in culture altre rispetto alla nostra, come avviene appunto nel caso dell’India, è pressante e stimolante, in quanto sorgono molte curiosità e si vorrebbero approfondire molte questioni per capire meglio la peculiare identità di questa grande civiltà.
Ad esempio sovente in questo soggiorno abbiamo sentito accennare al Samskara (che è altra cosa rispetto al ben più noto termine di samsara). E in prima battuta c’è chi dà come definizione qualcosa di simile a “usi e costumi”, o all’insieme dei riti e rituali che scandiscono la vita degli hindù. Mentre invece altri ne parlano piuttosto come l’insieme dei residui karmici, ovvero in altri termini l’insieme delle impressioni ricevute, e delle impronte da esse lasciate nel subconscio (vasana) nel corso delle generazioni precedenti. Tali impronte costituiscono come degli “attivatori” subliminali che ci inducono a certe azioni e pensieri, e influenzano le nostre scelte individuali.
Dal punto di vista dunque della teoria dell’educazione (con la quale il termine ha molto a che vedere, e anzi sembrerebbe esprimere un concetto basilare della psicopedagogia indiana), con Samskara (o Samkhara), ci si riferisce insomma a ciò che concorre al processo di formazione della “mente” con tutti i suoi condizionamenti materiali e spirituali. Ma l’ottimismo della civiltà indiana, subito aggiunge che  da  questi condizionamenti ci si può distaccare e liberare con la pratica della concentrazione e con la meditazione. Nella concezione Vipàssana della meditazione, essa è ciò che ci può far acquisire una maggiore e più vigile consapevolezza di sé, e un sentimento di equanimità. Con essa si può imparare a  lasciar scorrere via i nostri pensieri, e “semplicemente” osservare le nostre stesse sensazioni in modo distaccato, e in tal modo imparare a conoscerle, ovvero innanzitutto a prenderne consapevolezza.
Ma con Samskara si indica sia l’atto di formare, sia ciò che viene acquisito con la formazione, il contenuto del processo del formare, e il risultato. E d’altronde si pensi al significato anche in italiano di “educazione”, essa è ciò che si da, che si fornisce, ma anche qualcosa che si ha, che è poi il risultato del processo formativo. Con Samskara si precisa però che ogni formazione è condizionata sia dal processo che porta ad essa, che dal fatto che essa stessa a sua volta influenza i vari processi che via via ne conseguono.
Samskara è la condizione, o meglio la pre-condizione, per il sorgere della conoscenza e della coscienza. Con Samskara si intendono dunque sia le impressioni che inconsapevolmente ciascuno riceve, che i residui subconsci che queste lasciano in noi. Quindi Samskara intesa come formazione, è a sua volta anche l’ultima a perfezionarsi dopo percezione, e sensazione, quale reazione ad esse. Ogni Samskara sta in (e dietro a) una catena determinata da attaccamento e/o avversione, dopo di che si ricomincia il processo di una nuova Samskara. Letteralmente Samskara si potrebbe rendere pure con il termine “reazione”, poiché in definitiva è così che i condizionamenti poi si imprimono nella “mente” a livello inconscio. Attraverso processi di attaccamento (e/o avversione) a qualcosa che è fuori dalle nostre possibilità di controllo razionale, sia per rassicurarci (cultura come metamorfizzazione della paura), sia per rafforzare la ns identità.
Ma per la civiltà indiana non si può e non si deve dimenticare che tutto quello cui ci leghiamo o cui ci opponiamo si modifica, si trasforma incessantemente nel corso del tempo, è transitorio, impermanente, e questo cambiamento continuo ci accompagna per tutto il percorso formativo: e ciò stesso è causa di sconcerto, inquietudine, se non sofferenza. Ma tutto quello cui ci leghiamo o cui ci opponiamo, come pure tutta la creazione cosmica, è anche un processo incessante che da un verso “vincola” il soggetto, e per altro lo stimola, lo incita a liberarsi dai condizionamenti dell’esistenza (samsara è detto il ciclo perpetuo di apparizione e scomparsa delle individualità nell’attualità dell’ essere).
Bisognerebbe sempre considerare che la nostra mente ha dei limiti. Pensiamo ad es. ad un cieco di nascita, che non comprende appieno cosa è turchese, o lilla, o color rosa pallido,  e quale sia la differenza tra loro, semplicemente perchè non ha la facoltà di fare esperienza di che cosa si tratti. Lo stesso paragone vale in generale per tutte le conoscenze autentiche che riteniamo di aver acquisito su ciò che è non transitorio.
In generale un atteggiamento di distacco è prescritto come mezzo e come obiettivo. Ma questo non va confuso con indifferenza o fatalismo, piuttosto richiama per similitudine quel tipo di distacco che è proprio di quel medico che constata che la cura o l’intervento che lui stesso aveva somministrato al paziente sinora, non dà i risultati sperati, e si sforza di individuare in modo fondato e preciso quale altra cura si possa intraprendere. Similmente fa lo scienziato nelle sue ricerche. Non vi deve essere attaccamento alle proprie convinzioni. Il cercare di andare oltre la catena di attaccamenti/avversioni, non è dunque sinonimo di indifferenza ! ma piuttosto di apertura e di disponibilità a ricredersi e rinnovarsi. “Tu sei il tuo miglior amico e maestro, in te sta il tuo futuro” disse il dio Krishna al discepolo umano Arjuna, ed è questo anche il motto di un noto saggio, shri Goenka, che è tra i maestri che hanno insegnato le tecniche di meditazione Vipassana, cioè che mirano a una consapevolezza vigile dell’istante in cui viviamo, ad una presenza nel qui-ora, e dunque alla liberazione da identificazioni, emozioni. Questo maestro sottolinea che dall’accettazione che vi siano sempre molteplici possibilità, scaturisce la disponibilità ad apprendere, e comprendere (e a saper apprezzare), la varietà complessa compresente nella realtà.
Ad es. questo maestro dice pure che a volte molti si chiedono perchè la Natura (o Dio) sia così buona e protettiva oppure perché sia così  inesorabile con noi, ma essa (o Esso) non è né l’una né l’atra cosa, ed è ambedue. Si pensi alla desolazione delle foglie che cadono dagli alberi in autunno, e alla festa di colori, dal marrone, al giallo al rosso, di cui esse rallegrano il paesaggio. La pioggia ci fa rabbrividire ma feconda il terreno. Dobbiamo cercare di accogliere in noi questa realtà ricca di sfumature e contrasti.
Mi sovviene alla mente il nome di quella antica divinità assoluta, al di là dei concetti e delle immagini del bene e del male umani, che nell’Egitto predinastico era denominata Abarim, o Abaris (il dio dei passaggi, che ritroviamo nella Tracia arcaica come Abras o Abrasax, e poi in copto come Abraxas). Fu in quella visione del divino (di cui ci parla un grande letterato e maestro dell’occidente, Hermann Hesse) che anche nel Vicino Oriente e nelle terre mediterranee si concepì l’Assoluto come l’al di là del Bene e del Male.
D’altronde si consideri che la tensione individuale verso la configurazione di una personale identità, è ineludibile in quanto la nostra individualità ha bisogno di distinguersi dal grande fluire dei contesti sociali e culturali, per poi poter soddisfare l’altro forte bisogno, cioè di essere in grado di partecipare al flusso con consapevolezza.
Compiuto il primo passo, di maturazione della individualità, anche e sopratutto tramite la partecipazione a molteplici esperienze, il secondo può essere aiutato (oltre che dalle prove della vita) da una espansione delle conoscenze, e dalla loro comparazione critica. Nel fondo tutte le arti e le scienze vengono coltivate per poter “distillare” alcuni valori universali che ci siano da riferimento e guida per affrontare le problematiche successive che via via incontreremo. In questa operazione mentale e della coscienza, l’esigenza di individuazione personale e di individuazione di valori che ci appaiano validi e funzionali nel contesto di vita in cui siamo immersi, fa sì che il processo di comparazione, valutazione critica, lasci da parte, per poter conseguire il risultato di una sintesi, vaste porzioni e componenti del reale che compone il nostro ambito di vita. La dialettica tra elementi o momenti antitetici non può nella sintesi ricomporre tutto, e quindi si rendono necessarie scelte che vengono messe in atto inconsapevolmente o deliberatamente. La presunzione implicita nelle scelte intellettualistiche, che è implicita in ogni operazione di carattere logico, e in ogni intenzionalità, di poter giungere ad una sintesi suprema, è denunciata appunto da tutto ciò che sta ai margini e soprattutto che viene espunto e traslato fuori dai margini. Solo una accettazione piena, priva cioè di inquietudini, della complessità del molteplice sin a livello cellulare e più infinitesimale, può darci una visione “panica”, olistica, scevra da sacrifici rituali, e non dunque una scepsi  tipica dell’intelletto analitico. Così le operazioni interiori che stanno al di sotto della soglia della coscienza, che procedono per i sentieri della conoscenza simbolica, possono darci lo sfondo ove cogliere quell’unità nella simultaneità di oggetti, eventi, situazioni, possono farci cogliere il fluire nel suo insieme, il movimento complessivo dei campi di forze vettoriali contrastanti, e quindi renderci l’appercezione del continuum nella pluralità dei mutamenti e delle metamorfosi risultanti dalla interazione dei fattori.
Individuo e specie, l’individuo nel suo tempo e nel suo spazio, la specie in un arco assai più vasto che trascende i tempi delle brevi vite singolari, e che ha assunto il pianeta come casa comune al di là dei singoli spazi di specifiche civiltà e culture, e società determinate. Da qui la necessità di compiere le proprie scelte per contribuire al progredire proprio e complessivo dell’umanità, e la necessità di assumere la consapevolezza dei contesti più ampi di cui siamo parte. Cogliere e affermare i propri riferimenti di vita è importante per capire meglio sé stessi, e conoscere il proprio Sé o Atman. Come lo è accettare di essere una componente di un insieme assai complesso di molteplici elementi in movimento in cui tutto convive. Anche la casa terrestre è parte della nostra galassia e oltre. Anche l’umanità nel suo insieme di popoli, e nel suo insieme temporale  delle varie generazioni, è parte dell’avventura della vita in questo universo, ovvero in questa espressione del Sé universale (Brahman).
Per molti maestri, quando si prega e/o quando si entra in meditazione ci si dovrebbe concentrare sul mantra Om, e controllare la respirazione.
Om, o Aum, o Aumn, la più sacra espressione del Dharma hindu, è una delle parole più antiche che si conoscano. Più di cinquemila anni orsono, ma probabilmente molto prima, Om era noto nell’antica lingua dei Sumeri, ed utilizzato come parola chiave segreta da mistici e sacerdoti sumeri.
Quando le tribù nomadi Sindo-Aryan vagarono stanziandosi verso i territori settentrionali dell’attuale India, essi portarono con sé il prezioso e sacro termine. Già nei più antichi sacri testi come i Rig-Veda, Om ha una presenza preminente. Quasi tutti i mantra e gli inni iniziano e terminano con Om, e Om è usato anche a sè stante come mantra e considerato il più “potente”, in particolare pronunziandolo come un canto, mormorando appena, o anche solo pensando: Om Tat Sat, cioè “Om è colui che è”, che sarebbe il mantra che fa riferimento alla mistica sillaba Om quale simbolo dell’Assoluto (si ricordi che nella Torah ebraica, il Verbo divino dice di sé, “sono colui che è”).
La radice om- oppure aum- o aumn- la ritroviamo in molte lingue antiche. In ebraico, simile ad Aumn abbiamo ‘amen (=così sia, o in essenza, in verità). In egizio ‘Amon è la Grande Anima primordiale.  Ma troviamo anche ‘Ammon come divino, celeste, di qui  l’arcaico Aga-Amennon quale titolo supremo di sovranità. In latino troviamo Omne = il tutto, la totalità universale, ma anche Omen, che sta per voto, augurio, presagio, giuramento sacro (mentre nomen è l’epiteto, la qualificazione personale).
Dunque antichissimo è il suono Om, da pronunciare con la o lunga, ovvero Aum, e vibrando lungamente la consonante. Esso è il nome che indica la realtà assoluta considerata nella sua triplicità, cioè in quanto Sat, Chit, Ananda = essere, coscienza, beatitudine perfetta (da qui anche l’indicazione a un primo livello: esistere, con consapevolezza, e in serenità); perciò si inizia ogni invocazione dicendo che Om é Sat-Chit-Ananda. Perciò molti recitano il tradizionale mantra tibetano (da man-, mente, e tra- proteggere): Om Mani Padme Hum = Om è il gioiello nel fior di loto.
La vibrazione che Om (Aum) produce nella mente è considerata in sintonia con la stringa, o l’anello, primordiale di vibrazione universale, e dunque può aiutare a porsi in armonia col Tutto, e ad acquietarsi interiormente, e a porsi in uno stato di sospensione… e in tale stato il sannyasi (il ricercatore che rinuncia al Mondo) sa elevarsi alla ricerca dell’Assoluto, e della comunicazione del sé individuale con il Sé cosmico, la beata comunione col quale, porta a comprendere nella sua profondità il significato di Tat Tvam Asi, “tu sei Esso”, ovvero “Quello tu sei”.
Perciò si dice anche che nell’esistenza, per quanto transeunte, in continua metamorfosi, si manifestano Satyam, Shivam, Sandaram, cioè il reale, il vero;  il buono, ciò che è bene;  e il bello, la serenità.

VISHNU
21 agosto, andiamo a Thanjavur, o Tanjore, dove c’è un tempio a Shiva tutto scolpito in massi di roccia negli anni attorno al Mille. E’ stato dichiarato monumento patrimonio dell’ umanità, e per questo l’ingresso è gratuito, si possono fare foto, e ci sono soldi per curare degli interventi di restauro. L’area principale, ovvero il grande cortile con in mezzo il tempio è di 270 metri per 140… Certo che girare a piedi nudi (ma anche con dei sottili calzettini di filo di cotone, qui consentiti) su questa pietra resa rovente dal sole equatoriale, non è impresa semplicissima… Ma il monumento lo merita, è stupendo e imponente tutto scolpito in enormi blocchi di granito, contiene anche un tempio al toro sacro Nandi, scolpito in un unico masso nero di sei metri di lunghezza e alto quasi quattro. Ai lati ci sono portici con affreschi bellissimi alle pareti, e centinaia di lingam. Mi ricordo di un episodio a questo proposito riferito da Jung (nei suoi “Erinnerungen”, 1961, a cura di A.Jaffé, trad.it. “Ricordi”, 1978) in cui il pandit che lo accompagnava nella visita del tempio di Konarak  gli disse avvicinandosi: “vedete queste pietre? raffigurano l’organo sessuale maschile” come a confidargli in privato un segreto, e Jung che lo sapeva benissimo e invece si aspettava che gli dicesse che rappresentano Shiva, rimase attonito, al che l’altro ammiccava come per dirgli “nella vostra ignoranza da europeo non lo avreste mai pensato, vero?”; e al ritorno quando lo riferì all’amico Heinrich Zimmer, egli esclamò: “finalmente sento raccontare qualcosa di vero sull’India!”.
Nel corridoio ci sono stupende sculture con le 108 posizioni della danza classica Bharata-Natyam, interpretate da Shiva stesso danzante. Al centro del grande cortile un santuario-torre piramidale con una statua di Harihara, una raffigurazione in cui la metà destra è Shiva, e l’altra Vishnu; e in cima ad una lunga e ripida scaletta traballante, in una nicchia una statua di Ardhanarishvara, raffigurazione che unisce le nature maschile e femminile di Shiva. Affascinante.
Intanto il sole è cocente e alto, e nella poca ombra o sotto i portici il pavimento è coperto da gente sdraiata che dorme o sonnecchia, uomini, donne, vecchi, bambini, in gran silenzio che si rotolano a destra e sinistra per cambiare posizione, e che non si curano per nulla di noi che li scavalchiamo. Certo a noi ignoranti europei tali atteggiamenti in un tempio sorprendono perché ci possono sembrare inadeguati e poco rispettosi di un luogo sacro, ma oramai noi non diamo alcun peso a questo tipo di considerazioni essendoci già abituati, per cui li osserviamo con distacco e indifferenza.
Mangiamo in un bel ristorante noto per le specialità locali, piatti molto particolari, e in complesso abbastanza buoni. Quella di mangiare piatti sconosciuti è sempre un’esperienza che si attende con un poco di titubanza, e che ci fa osservare i cibi  molto da vicino e per nulla con con distacco e indifferenza, e che -se infine dà soddisfazione-, si affronta poi con interesse e curiosità (anche se non sempre in seguito lo stomaco accetta e digerisce con altrettanto entusiasmo…).
Alla sera arriviamo all’albergo, l’Hotel Femina, nella zona moderna della città di Tiruchirappalli, comunemente chiamata Trichy.
Al mattino seguente subito ci facciamo portare nel centro storico, dove visitiamo il grandioso tempio Renganatha.
Un “cicerone” ci fa da accompagnatore e ci porta in giro per questo vasto complesso vishnuita, dandoci spiegazioni e rispondendo alle nostre domande con competenza.
Come sempre ci sono, intanto che girovaghiamo, persone di ogni età e condizione, che bivaccano, sdraiati per terra, certi dormono, insomma c’è con il tempio una consuetudine essendo considerato come una casa, un luogo di riunione, un rifugio. Li evitiamo e scavalchiamo, intanto che ci guardiamo attorno stupiti e affascinati. Ma il nostro buon cicerone è sorridente e calmo, ed espone le sue spiegazioni in modo chiaro e preciso. Si sente che c’è dentro una sfumatura di orgoglio della propria cultura religiosa, è contento che ci interessiamo a quel che ci dice,  e andiamo oltre la pura informazione. Quando poi gli chiedo della sua famiglia, se ha figli, cambia quasi espressione, e racconta raggiante che ha una bambina, che ha chiamato Manasa, cioè tranquilla, e Pourvaja, cioè completa, perfetta, pura. Nei nomi dei figli spesso si possono intuire le aspirazioni e le aspettative dei giovani genitori.
Il grandioso tempio di Shri Ranganatha Swami, è dedicato a Lord Vishnu, e quindi -mi dice la ns guida- è ad un livello di spiritualità più alto che non i templi shivaiti (che a suo parere sono frequentati da devoti di una religiosità più semplice e popolare). Qui si assapora una atmosfera che favorisce il consiglio di Jung (e di nuovo in breve tempo mi tornano alla mente sue considerazioni), quando diceva: una volta entrati in certi templi di grande fascino “poi analizzate accuratamente, e con la massima onestà, tutte le vostre reazioni, sentimenti e pensieri. Vi ci vorrà un po’ di tempo, ma alla fine, se avrete fatto un buon lavoro, avrete imparato qualcosa su voi stessi, e sull’uomo in generale, qualcosa che probabilmente non avete udito da nessun altro. (in questo caso) … Penso che un viaggio in India, nel complesso sia la cosa più edificante, e da un punto di vista psicologico la più consigliabile” (da What India Can Teach Us, 1939, Opere di C.G.Jung, vol. 10/1, trad.it. in La saggezza orientale, 1983).
Incessantemente gli altoparlanti rinviano una nenia a volume moderato, che cantilena le lodi al grande Dio, intonando lentamente, molto lentamente e quasi a bocca socchiusa: Om Namu Narayanà….Oooom Na – mu Na – ra – ya – naaaaaa…..
Se Shiva è l’incessante danzatore Nataraja, qui Vishnu è il “Sostenitore” del Cosmo, è il Signore dell’Armonia universale. Nell’altare più interno, cui noi non abbiamo accesso, e di cui ci è concessa in visione solo una riproduzione collocata all’esterno per il pubblico, vi è raffigurato il Vishnu sdraiato mentre è dormiente. Egli se ne sta là immobile, immerso nel suo riposo, e perciò rappresentato in pietra nero granito. Ma il grande cobra Ananta dalle cinque teste, che simboleggia la carica di energia suprema, veglia sul suo sonno conservativo. Le teste di Ananta rappresentano i cinque elementi, terra, aria, acqua, fuoco, e il cielo che sta per la serenità, l’armonia. Essi -ci spiega la nostra guida- sostanziano tutte le cose esistenti, quindi anche noi stessi: il corpo è solido, il sangue è liquido, il respiro è vita che assorbiamo dell’esterno, la temperatura interna è il calore vivificante, e la nostra mente è la dimora dei pensieri e delle idee, che è simboleggiata dal cielo. Nell’India del nord, spesso è raffigurato con sette teste per richiamare i sette chakra, o centri di energia presenti nei corpi. La sua vigilanza e protezione ci garantiscono che Vishnu continui a conservare e preservare il tutto. Anche se si sa che vi sono grandi cicli cosmici (kalpa), al termine dei quali vi è un Big Crunch di riassorbimento-dissoluzione, che riporta il tutto alla pralaya, alla condizione originaria indifferenziata.  Il grande cobra su cui riposa è appunto il residuo della creazione (anadì ) dopo il riassorbimento nell’Unità. Con le vibrazioni del suono Om è stato reso possibile il formarsi di questo nostro attuale universo, che ora Vishnu, che è pervasivo, onnipresente, sta preservando, sta mantenendo in essere.
Se nell’antica tradizione vedica la Trimurti era concepita come composta dall’elemento acqua (Indra, dio della pioggia), dall’elemento fuoco (Agni, il dio del calore e della fiamma), e dalla luce (Surya, dio del sole), con il 900/700 av.C. in alcuni commenti (Upanishad), si introduce il concetto dell’Anima Assoluta (Brahman), e il concetto di energia (Shakti) espressa dalla Grande Dea Madre (Maha-Devi), e la spiritualità cambia, nascono anche correnti come il Tantra di carattere mistico. Poi con i testi dei Purana, la Trimurti diviene quella che avevamo già sentito spiegare  nei nostri viaggi precedenti in India, cioè quella espressa dalla triade creazione-preservazione-mutazione (Brahma-Vishnu-Shiva).
In essa alcuni ritengono che l’aspetto più venerabile debba essere quello della preservazione, della continuità, del mantenimento delle forme pur nel trascorrere delle molteplici manifestazioni individuali. Pertanto i devoti di Vishnu, cioè i Vaishnava, si distinguono dagli shivaiti, cioè gli Shaiva, portando sul volto come segno di riconoscimento una linea perpendicolare rossa e due linee oblique bianche, e sono coloro che identificano Vishnu come il Vadaraja, il Signore del Mondo, e Dio Supremo. Ritengono che ogni volta che un disordine fisico o morale disturbi il mondo, Vishnu si incarni in un suo Avatar. Tra questi vi sono le sue manifestazioni corporee sotto forma  umana, tra cui Rama, o Om Ram (identificato anche con l’egizio Amon Ra), e il beato Signore Krishna, o Bhagwan Krshna, di cui trattano famosi poemi epici. I “Vaishnava” hanno una loro modalità di devozione (bhakti) espressa salmodiando e cantando proprie preghiere. Tra i principali testi che onorano Il grande Vishnu (e la sua sposa Lakshmi), ci sono soprattutto la Bhagavata Purana, e la Bhagavad Gita, testi molto noti anche in occidente grazie a molteplici traduzioni e commenti in varie lingue. Il fior di loto è la rappresentazione simbolica del divino (in esso siede Lakshmi), il cerchio di luce (il disco chakra), rappresenta il Cosmo, e la conchiglia la vittoria sulle forze malvagie, poiché essa contiene la musica dell’universo. Vishnu e Lakshmi sono sempre raffigurati con aspetto pacifico, rasserenatore, rassicuratore. Vishnu dormiente riposa con il fido e vigile cobra su un oceano di latte, che è l’infinita beatitudine (in inglese bliss) e grazia di Brahma. Per ogni evenienza il dio può recarsi subito per ogni dove con il suo vettore, Garuda, un’aquila dalle sembianze anche umane, figura di grande potenza e pietà.
“Vishnu, o il Vishnu, il pervasivo, è definito nelle Upanishad come “colui che esiste in ogni particella di materia, e di vuoto, di essere vivente, e non vivente, del cosmo”. The Vishnu, the Pervader, è l’essenza che è in noi, la coscienza divina immanente che ha il governo del mondo, cioè il preservatore del creato. Egli ha migliaia di nomi, tra cui quello di Narayanà (menzionato più sopra), “Colui che cammina sul cammino dell’uomo”, è “ciò che è presente nel cuore umano.” (queste cit. sono tratte da B.K. Modi, “The Universal Truth”, Brijbasi Printers, NewDelhi, 1993, che è presidente della World Buddhist Cultural Foundation, e quindi rappresentano un importante riconoscimento di carattere “ecumenico” da parte di una corrente spirituale considerata dagli hindu come fuori dalla tradizione).
Chiedo alla nostra guida, se Vishnu e Lakshmi siano da considerarsi un medesimo ente, ma mi dice che Lakshmi è la sua sposa cui egli è congiunto, mentre la sua propria forma, quando si manifesta al femminile, è Moheene, cioè la pura bellezza in sé, (perciò pourvaja,  o Beauty, è il nome che lui ha dato alla figlioletta).
Una spiritualità dunque che nel suo complesso mi pare più consolatoria di quella ispirata da Shiva, e meno astratta di quella ispirata a Brahma.
Questo complesso templare è stato nell’antichità luogo di incontro degli aedi tamil. Questi cantori appartenevano alla leggendaria accademia, sangam (o Sangha, comunità), preservatrice della lingua tamil, o tamùl, dove si riunivano grammatici, linguisti, letterati e scienziati verso il 5/600 av.C., erano gli Alvar, dei cantori vaganti, che giravano per  tutto il Deccan intonando un romanzo epico dedicato ad un principe poeta, e la raccolta detta dei “Quattromila Inni”, poemi in lode a Vishnu e a Shri Ranganaciyar (l’epiteto della sua sposa nell’antico tamil), la cui immagine, durante il 1300, il periodo storico del dominio dei sultani islamici, venne sepolta per un secolo sotto un albero di bilva, la cui ubicazione restò per tutto quel tempo segreta, e così fu preservata.
Vediamo le enormi cucine dove si prepara ritualmente ancor oggi il cibo per la mensa, che può ospitare fino a tre mila pellegrini. Più avanti ci mostra alcune immagini erotiche scolpite sulle colonne di pietra in bassorilievo. Ci dice che sono da intendere come forme in cui si manifesta l’energia vitale, per cui, commenta, non avrebbe senso non celebrarle. Questo tempietto interno è dedicato a Lord Krishna. Impressionanti poi sono gli enormi gopuram, cioè le 21 torri alte anche 50 metri, ricoperte ciascuna di 1500 sculture, del complesso templare, che conta sette “cerchia” murarie rettangolari (alludenti ai sette chakra), e che con i suoi 60 ettari totali di superficie  è forse il più grande tempio hindu dell’India. I gopuram sono al solito tutti decorati con statue coloratissime, tranne uno che è tutto bianco. Il nostro accompagnatore-cicerone ci dice che quando prese il sopravvento a Tiruchirapalli una dinastia regnante shivaita, vennero imposte pesanti tasse alle casse del tempio Renganatha, tali da rendere impossibile il suo completamento, e da far cessare qualsiasi attività di accoglienza come centro di pellegrinaggi, e di assistenza sociale. Per cui i sacerdoti salirono sulla cima di quella torre-gopuram, che era stata appena ultimata, e si gettarono suicidandosi per protesta. Perciò non solo non è mai stata colorata la parte esterna, ma anzi la si tinge di bianco calce, che è il “colore” del lutto, ad imperitura memoria di quelle morti. Alla fine salutiamo il nostro accompagnatore, che ci dice che raramente incontra occidentali che vogliano capire e non solo informarsi, e quindi è lui che ci ringrazia.
Al pomeriggio visiteremo un tempio shivaita, e poi andremo a visitare il tempio a Ganesh che sta  proprio in cima ad una grande rocca dove c’è una fortezza (Rock Fort), cui si accede salendo per 434 gradini scolpiti nella pietra all’interno dell’enorme masso, passando per androni e un tempio con sculture rupestri d’arte “pallava” del 600 d.C..
Una volta discesi, poi visiteremo una vicina scuoletta primaria in un vicoletto del quartiere, accolti con grande entusiasmo dagli alunni e dalle maestre.
La sera rientriamo nel nostro hotel, che fa parte di una catena creata da un cosiddetto buon mussulmano “nazionale”, o “patriota indiano”, che si è preoccupato che l’albergo fosse in grado di accogliere chiunque fosse strettamente osservante di qualsiasi religione, con i propri precetti alimentari, igienici, e relazionali.
Domattina presto, finalmente andremo a cercare il villaggio con l’ashram di padre Beda (chissà se là reincontrerò l’americana…? l’eterea Jñanam…).

DA  GRIFFITHS
23 agosto. E’ da due settimane che ho fissa in mente l’immagine di quel maestro con lo sguardo gentile e la barba, il cui nome è stato un enigma, e che mi pervade l’attesa di poter infine andare a incontrarlo. Ora finalmente so come si chiama e quale è l’ubicazione del suo centro spirituale. Dunque ieri sera siamo stati previdenti, e abbiamo prenotato in anticipo un’auto che ci portasse stamane a Shantivanam, che si trova nel paesino di Tannirpalli, una frazione di Kulitala, nel distretto di Trichy, un po’ fuori in campagna. Là cercheremo l’ashram di padre Beda. Il taxista di ieri arriva un po’ tardi, alle 9.30, parte e subito si ferma a fare benzina (però stavolta non chiede soldi in anticipo), e poi superato il traffico notevole, finalmente esce dalla città e procede verso la strada che costeggerà il fiume. Ed ecco che dopo un po’ si sgonfia una gomma, e si blocca… Lo vediamo che scende a dare una controllata e poi apre il bagagliaio. Ora che ci rendiamo conto, ecco che in un attimo già lui è montato su una motocicletta cui ha chiesto autostop, e se ne sta andando con in braccio una logora e sgonfia ruota di scorta, e urla I’ll be back… e noi rimaniamo lì come ebeti in mezzo a un rettilineo, sotto il sole a 40 gradi, in un punto che oltretutto, a differenza di quasi tutto il resto del percorso, non riveste proprio alcun interesse. Per cui non ci si può nemmeno distrarre un po’ guardando il panorama o altro, o fare foto, o osservare qualche attività… che so..? c’è una scarpata con una discarica, qualcosa in costruzione, un fiumetto lurido, e al di là una ferrovia. Avendo oramai acquisito l’atteggiamento rilassato che abbiamo constatato in molti indiani (è già il terzo nostro soggiorno in India di un mese e mezzo circa), non ci  preoccupiamo eccessivamente e ci disponiamo l’animo -con dispiacere- ad una forse lunga attesa. Dopo poco, di starsene seduti dentro l’ auto, neanche parlarne, è bollente; così io e Annalisa andiamo più avanti lungo la strada a sederci su un paracarro sotto l’unico albero. L’ auto, ferma su quella strada secondaria ma un po’ trafficata, crea problemi continui di traffico; passano grossi camion, parecchi pullman, e autobus, mezzi agricoli, motorickshaw…ecc. E così trascorrono 60 eterni minuti, e noi siamo sempre là, seduti sul granitico paracarro sul ciglio della strada, senza sapere cosa aspettiamo, quanto tempo abbia senso aspettare… Poi, eccolo che torna (proveniente dalla direzione opposta!), dice che non ha trovato soluzione; mi chiede dei soldi per telefonare, va a un telefono pubblico e chiama un’altra auto. Sembra proprio che si debbano superare vari ostacoli (a cominciare dalla articolazione del ginocchio di Annalisa) per poter raggiungere questo maestro  così raro (“di ampio respiro e alta levatura spirituale” disse l’americana). Finalmente un altro taxista arriva, porta ruota di scorta e attrezzi, e noi saliamo e ora si parte davvero, finalmente!
Il paesaggio dopo pochissimo è di nuovo stupendo, vegetazione rigogliosissima, e si costeggia il fiume, che scorre con tanta acqua. Attraversiamo vari paesi e villaggi, in uno c’è un tempio grande con statue, al ritorno ci fermeremo a dargli un’occhiata, mentre il fiume è sempre più largo e nelle acque “panta réi” scorre di tutto, frasche, tronchi d’albero, fiori, barchette. Sull’altra riva vediamo un edificio con scritto “Griffiths Trust”, che sembrerebbe essere una scuola di tipo professionale. Ed ecco poi, sulla destra un cartello, “Shantivanam”, cioè “bosco della pace”, saliamo lo stradello, e siamo arrivati, c’è proprio il cancello d’ingresso dell’ashram.
L’ashram è in un luogo abbastanza ben appartato, e tranquillo, a prima vista è molto ben tenuto, pulito, e silenzioso, passare la soglia d’ingresso è veramente come entrare in un mondo a parte. Due donne (forse una è una suora) passano e ci salutano con gran sorrisi. Dopo un bel po’ di tempo arriva finalmente qualcuno, un giovane frate, che ci accoglie e chiede cosa desideriamo. Gi dico che vorremmo semplicemente avere informazioni sulle caratteristiche dell’ashram, sulla sua “visione” di base, e mi risponde di seguirlo in un deposito di libri e di opuscoli. Gli chiedo se sarà forse possibile incontrare padre Bede, e mi risponde stupito, dicendomi che materialmente ha lasciato il corpo 13 anni or sono all’età di 86 anni. Resto sconcertato e dispiaciuto, 13 anni fa….! Non avevo inteso bene dunque le parole della americana? E’ morto il 13 maggio (il giorno del compleanno di Annalisa), ma -mi dice- ha lasciato il suo spirito qui. L’ashram è intitolato “Saccidananda”, la Trinità, ed il suo simbolo è un sole in cui vi sono un fior di loto che galleggia sulle acque, da cui emergono tre volti rivolti verso le tre direzioni, con sopra stelle e a destra una falce di luna e a sinistra una luna piena. Sono i tre aspetti divini del Padre che crea, preserva e dissolve l’universo creato.
Intanto mi dice che deve ora andare al tempio perché hanno la preghiera di prima di pranzo. Torno da Annalisa per pensare che fare; nel frattempo con lei si è intrattenuto padre Giorgio, un frate che dice che come lui dal 1980 tutti qui hanno aderito all’Ordine benedettino, denominandosi come una comunità dei Camaldolesi, per questo lui è stato in Italia e sa abbastanza bene parlare in italiano. Gli dico da chi e come ho saputo di padre Griffiths, e delle difficoltà che si sono interposte a compiere la nostra visita. Ci mostra le tombe dei fondatori  francesi dell’ashram, e la sede di preghiera, dove stanno convergendo varie persone per gli inni di mezzogiorno (mi pare che abbia detto che sono in diciotto). E’ strutturata proprio come un tempio di villaggio dell’India del Sud. Completamente aperta sui tre lati, sormontata da una cupola con tantissime statue e statuette coloratissime, che riproducono immagini cristiane in stile locale: Gesù, lo Spirito santo, Dio padre, la Madre di Dio quale Regina dei cieli, vestita di un manto azzurro stellato con sole e luna, e un serpente schiacciato sotto i suoi piedi, quale simbolo dell’ego, quattro santi, e le quattro bestie dell’Apocalisse, e varie manifestazioni del Cristo, nella postura di meditazione con accanto san Benedetto, in quanto signore del luogo, contornato da angeli, in quanto sacerdote, con alla sua base san Pietro, e in quanto profeta-insegnante, con alla base San Paolo quale guru delle nazioni.  In cima sta il trono di Dio.
Dinnanzi all’entrata alla sala di preghiera, c’è il tradizionale disegno indiano geometrico fatto sul terreno antistante la porta di casa con polvere di gesso, che si cambia ogni giorno (qui il riferimento simbolico è al fatto che polvere eravamo e polvere ritorneremo). Nella sala di preghiera, o mandapam, sul pavimento ci sono solo stuoie per sedersi a terra. Così come nella mensa che abbiamo visto vicino all’ingresso, con la differenza che qui c’è un altare, e in mensa le foto dei padri fondatori (e di Griffiths) alle pareti. L’ingresso dall’esterno è situato più in là, di fronte all’entrata della sala del tempio, e dà direttamente sul sentiero in terra-battuta che passa davanti; è un portale tipo piccolo gate, o gopuram sormontato da raffigurazioni e da simboli delle religioni mediterranee ed orientali. Nello spiazzo c’è una croce di pietra inscritta in un cerchio, il quale rappresenta la ruota del Dharma; al centro della croce c’è un Om (scritto Aumn, che sta per l’ebraico Amen) quale simbolo del Cristo, che è il Verbo di Dio come spiega Giovanni evangelista. Nella sala di riunione e preghiera c’è un’altra croce simile, con iscritto in sanscrito Saccidanandaya Namah, cioé worship to the Trinity (venera la Trinità). Con questo si fa riferimento all’Essere Assoluto, fonte del creato, alla Coscienza universale, che è il Dio Padre che si automanifesta nell’Uno, e alla Beatitudine, espressione della gioia del frutto dell’amore. Sul portale che da accesso all’altare, che chiamano mulashtanam, cioè santuario più interno, c’è pure una iscrizione in sanscrito dalla più antica Upanishad: “Tu solo sei l’Essere Supremo, non c’è altro Signore del Mondo”. E più sotto in greco Kyrios Christòs. Un po’ più dentro nell’ombra, per significare che Dio sta nell’interno del cuore, c’è un altare in pietra scura col tabernacolo. Una pietra nera informe un po’ nascosta e poco visibile sta a simboleggiare il senza-forma.
Iniziano intonando un Om, delicatissimo, e di una purezza veramente ammaliante. Annalisa è attratta e incantata, e finisce col sedersi ad ascoltare i loro inni  così particolari. Intanto io visito le tombe nello spiazzo proprio lì a fianco, dove riposano i padri fondatori di origine francese, che diedero vita nel 1950 a questo ashram, padre Griffiths, e il suo beneamato allievo indiano Amaldas, morto prematuramente a 42 anni, troppo giovane, nel pieno della sua evoluzione spirituale. Mi colpisce il suo sguardo acuto, che si vede nella fotografia, e soprattutto resto colpito dal fatto che era nato nello stesso mio giorno-mese-anno…venivamo al mondo contemporaneamente in due terre lontane…! Su tutte e quattro le lapidi nere e lucide, ci sono incise le figure di un fior di loto che emana raggi di luce, di una falce di luna con stella, e di una candela accesa, a simboleggiare la convergenza spirituale delle varie religioni. Lo spiazzo delle sepolture ha un fascino strano e mi fa tornare alla mente il Foscolo, e la prima generazione romantica inglese. Gli alberoni e la vegetazione tropicale tutt’intorno sono bellissimi e muovono le fronde alla brezza che accompagna i canti.
Una bellezza e una purezza mistiche che mi si imprimeranno nell’animo rendendo questa una giornata indimenticabile.

DA GRIFFITS, 2
Questo ashram, un vero e proprio ashram indiano, venne fondato da due francesi, padre Jules Monchanin, che come sannyasi (rinunciante, totalmente dedito) assunse il nome in sanscrito di Parama Arubi Ananda (“beatitudine dello spirito supremo”), e padre Henri Le Saux, che nel 1950 prese il nuovo nome di Abhishktananda (“la beatitudine del Signore”, dei cui scritti si vedano le numerose trad. italiane, o gli studi di S.Calza o di A.Chieregatti). Volevano congiungersi alla ricerca vedica del divino assoluto, che aveva ispirato sin dai tempi più antichi la vita monastica in India, e inserirvi la propria specifica esperienza di ricerca del Cristo nel mistero della Trinità (in italiano si veda “Alle sorgenti del Gange”). Padre Monchanin morì troppo presto, sette anni dopo, e poi Swami Abhishktananda sentì di essere chiamato all’eremitaggio sull’Himalaya, dove morì nel 1973. Fortunatamente l’ashram continuò a vivere grazie al fatto che nel 1968 (è già la seconda volta che ricorre questa data in questo viaggio, alludo ad Auroville), un gruppo di monaci che si raccoglieva a Kurisumala in Kerala attorno a padre Bede Griffiths, si congiunse a questo ashram e gli diede un grande impulso.
Ecco dunque che cosa sussurrava con un filo di voce sottile la mia “divina figura” quando mi pareva dicesse qualcosa come hatha-Veda Krif??, o forse era Padma Vedegrith…? (almeno così fraintendevo io), poi facendo delle ricerche, ho ricostruito che stava dicendo Father Bede Griffiths. E quando l’ho capito ho davvero gridato nella mia mente éureka!
Egli proveniva dalla chiesa anglicana, e prese il nome di padre Bede quando passò nella chiesa cattolica inglese. Forse ispirandosi al Venerabile Beda del VII s., e ad alcune tradizioni monastiche irlandesi?. In esse, non solo la via monacale è ritenuta più importante di quella ecclesiastica continentale, ma colui che ha deviato, o peccato, anche gravemente, non veniva escluso dai sacramenti e dalla comunità ecclesiale, in base al principio che non vi è alcun peccato che non possa redimersi praticando la penitenza e la contrizione. Inoltre si da grande rilievo alla peregrinatio in contrasto con l’incardinamento in una sede fisica, anzi la peregrinatio monastica è esaltata come la migliore via alla perfezione. Dunque da quanto leggo sul venerabile Beda, mi pare che questi possano essere dei principi che abbiano attratto Griffiths, e in effetti egli venne poi in India per proseguire questa sua ricerca nei territori più antichi della spiritualità. Pertanto accolse e approfondì questo tentativo di fondare la via contemplativa sia sulla tradizione monacale (di matrice benedettina: cioè unendo il lavoro per l’autosostentamento, il ritiro spirituale, e la comunicazione con l’esterno, tramite attività sociali) sia sulla Sannyasa hindu, la via verso la” liberazione” interiore. Quindi incrementò nell’ashram lo studio del Vedanta e delle pratiche di meditazione yoga.
L’alba e il tramonto sono momenti riservati alla meditazione, e tre volte al giorno si ritrovano per la preghiera in comune, consistente in buona parte in canti dal loro proprio innario, e in letture di testi dai Veda, dalle Upanishad e dalla Bhagavad Gita, come da classici della letteratura tamil, oltre che dalla Bibbia e dai Vangeli. La comunità ha adottato il telo arancione, ed esso può essere portato come un dhoti, secondo le consuetudini locali anche semplicemente attorno alla vita, nei mesi o nelle ore più calde, per coprire solamente la parte inferiore sino al ginocchio, o alle caviglie (cosa che fece allora grande scandalo presso i visitatori inviati dalla Chiesa dall’Europa); e alla preghiera del mezzogiorno si pongono tra le sopraciglia un punto con tintura color porpora quale terzo occhio. Ma lo scopo principale è quello di fare dell’ashram un centro di incontro tra hindu e cristiani, in cui entrambi, possano risiedere per un ritiro spirituale, anzi Griffiths si adoperò molto perché mussulmani, buddhisti, sikh, jain, gente di tutte le religioni, o di nessuna appartenenza, potessero trovare qui un luogo sia di ritiro e raccoglimento se ricercatori spirituali, sia di studi e ricerche di tipo comparativo, sia di incontro, dialogo, discussione aperta e libera, con l’intento di imparare dagli altri, apprendere a capire gli altri e ad apprezzare ciò che potevano apportare, in vista della identificazione di una sempre più ampia possibile base condivisa. Perciò l’ashram è definito un luogo “dove si tenta di rispondere alla necessità di disporre di un centro spirituale in cui gente in un percorso di ricerca (seekers), di differenti tradizioni, possa venire e trovare una atmosfera di calma quiete per lo studio e la meditazione”.
La preghiera di meditazione, è quella che avevamo visto durante la funzione, e richiama per molti aspetti quella divulgata da padre B.Pennington della St.Joseph Abbey di Spencer nel Massachussetts, che mi pare ispirata all’anonimo del XIV sec. autore de “La nube della non-conoscenza”, e sembrerebbe richiamare in parte anche l’esicasmo e la cosiddetta “preghiera di Gesù” aramaica.
Dunque il primo punto nell’elenco di dieci richieste ai visitatori e ospiti è “di concentrarsi sul proposito per cui sono venuti all’ashram, e di osservare il silenzio in modo da preservare una atmosfera di pace e preghiera”. L’orario è il seguente: ore 5 a.m., Angelus; 5.30, Namajapa e meditazione; 6.30, preghiera del mattino, eucarestia, prima colazione; 10, caffé; 12, Angelus; 12.15, preghiera del mezzodì, pasto, silenzio; 3.30 p.m., thé; 4, discorso di un confratello; 6, Angelus, meditazione, silenzio; 7, preghiera della sera, cena; 9, Namajapa, silenzio.
Tutto ciò inizialmente incontrò molte difficoltà e non fu subito compreso dalla Chiesa ufficiale (vennero minacciati di essere considerati sospetti di eresia), ma pian piano ottenne molti consensi nel paese tra chi voleva costruire una chiesa  cristiana autenticamente indiana, e Griffiths divenne famoso per il suo impegno  per il dialogo interreligioso. Ora è generalmente accettato, e inoltre le sue idee sono divenute in gran parte componenti della vita di molte comunità cristiane del sud dell’India (e forse per questo è ora meno visitato da parte di curiosi esterni?).

ANCORA DA GRIFFITS, 3
Riflettendo sulle tematiche che qui vengono sollevate e poste di fronte a tutti, viene da ripensare a R.Sennet e al suo concetto aperto e flessibile di rispetto per l’altro basato innanzitutto sul riconoscimento delle altre identità e dignità, e della ricchezza che la conoscenza e l’apertura al contributo dell’altro ci può dare. Sì l’ashram di Griffiths è divenuto un centro di dialogo e di incontro interreligioso, è vero… ma il fuoco che arde qui è innanzitutto quello del misticismo, e poi quello del sincretismo e della fusione tra le spiritualità dell’India e dell’Occidente. Sono scomparsi i padri fondatori, i fomentatori, e anche padre Bede, e persino il giovane brillante Swami Amaldas non c’è più, ed i suoi continuatori attuali qui, come swami Sahajananda (cioè padre John Martin Kuvarapu, di cui si vedano traduzioni in it. nelle edizioni appunti di viaggio), o padre George, non sembrano avere la stessa grandezza di personalità trascinanti …E allora si ritorna al quesito: chi è Guru, cosa significa?
Qui si pratica dunque una sorta di sincretismo che possa stare a fondamento di un cristianesimo di cultura profondamente e autenticamente indiana (ma se i primi cristiani datano dal 52 d.C., non è questa una componente della civiltà indiana di questi duemila anni??). Amaldas, che era nato nella chiesa cattolica-siriaca del Kerala, forse era il più adatto a portare avanti questa via di sviluppo spirituale, ma è mancato. Resta comunque il messaggio, ed è un messaggio forte (qui, dicono, lo spirito dei padri fondatori è sempre presente, è ovunque). Conciliare vita comunitaria, isolamento per esercizi introspettivi nel ritiro e nel silenzio della meditazione profonda, e attività sociali e di comunicazione al mondo esterno. Questo difficile equilibrio padre Bede pensava di assicurarlo facendo entrare l’ashram nell’alveo dei camaldolesi… e la scommessa è in corso (in novembre al monastero di Camaldoli ci sarà un convegno per il centenario della nascita di Griffiths).
Sto leggendo con la crescente pressione della curiosità i vari libri e libricini che ho acquistato. Ma poi ho visto su internet che ci sono testi suoi pubblicati anche in Italia (ad es. Una nuova visione della realtà, Roma 2005; il suo bel commento alla Bhagavad Gita; e l’autobiografia Il filo d’oro), e non solo, anche studi su di lui (cfr. Sonia Calza). Mi rendo tuttavia conto che le questioni che si aprono sono molteplici e complesse, e che ci vorrebbe tempo e dedizione allo studio, per coglierle nella loro articolazione, anche se non sempre nei loro profondi livelli di significato che ovviamente in questo momento non mi sono accessibili.
Anche qui ciò che unisce, è ciò che più attrae. Mi riferisco al sentimento di  identità del gruppo (un gruppo eterogeneo per lingue, nazionalità, ed età), che è dato dalla motivazione che li ha spinti a venire fino qua, cioè l’aspirazione a una vita di raccoglimento, e la propensione verso il misticismo, cui si associa un desiderio di rinnovamento profondo della vita spirituale cristiana nell’incontro con quella indiana. Dunque motivi molteplici e forti.
La chiesa romana, per quanto si dichiari cattolica, cioè basata su verità e valori universali, e per quanto lo sia stata e lo sia per estensione geografica dei fedeli e per propria convinzione, in effetti ha molto spesso nel passato cercato di imporre la propria cultura e mentalità latina ai paesi di civiltà differenti, senza ammettere particolari adattamenti e identità peculiari (oltre a connivenze col colonialismo), come è stato anche recentemente ammesso ufficialmente con le famose “scuse” pronunciate da papa Wojtila.
Al contempo vi sono sempre state, e ora acquistano una crescente importanza, tendenze ecumeniche che vorrebbero far crescere all’interno delle chiese e delle conferenze episcopali occidentali, e delle loro masse di riferimento, un maggior rispetto e attenzione (basate su una maggiore conoscenza), nei riguardi delle altre chiese, sia cattoliche non romane, che cristiane ma non cattoliche.
Inoltre nel mondo missionario si è venuta sempre più affermando, imponendo, cioè divenendo indicazione non solo formale e quindi superficiale, la necessità di approfondire la conoscenza delle culture nelle quali ci si va ad inserire, ma non solo a fini strumentali, ma per cercare di capire quelle culture, di comprenderle e rispettarle.
L’incontro con l’altro, col diverso, non significa solo riuscire a meglio interloquire con le popolazioni, ma anche rispettare veramente  la loro identità, a mio modestissimo parere. L’incontrare l’altro per volerlo trasformare, per stravolgerne i connotati, per staccarlo dalle sue radici, tradizioni, usi, costumi, riti, fedi, elementi identitari, non mi pare un incontro veramente “in buona fede” fin in fondo.
Più recente invece, e minoritario di fatto, il riconoscimento di quanta parte della spiritualità presente nell’intimo di altre culture, tradizioni, e religioni, possa esserci vicina, o divenirlo, al di là di formali (o effettive) distanze dovute a modalità espressive, linguaggi, motivi storici e culturali. Pertanto si invita ora a tener conto nel dialogo interreligioso di ciò che può unire più di quanto nel passato si sia fatto, quando si enfatizzavano anzi le differenze, i motivi di distinzione e di diversità, fraintendendo e a volte travisando il senso e il significato di importanti elementi costitutivi della spiritualità presente in tradizioni, anche grandiose e plurimillenarie, di civiltà extraeuropee.
Certo è importante ricordarsi sempre che c’è pure una minoranza che ha piuttosto insistito sul dialogo come momento di vero e proprio incontro profondo, andando oltre dunque il semplice rispetto, e anche la mutua stima basata su una corretta conoscenza, per accettare, ma forse anche “amare”(?), l’altro per quello che egli è.
Infine, in questa rapida scorsa di varie correnti e componenti, ci sono anche  persone come questi Monchanin, Le Saux, o Griffiths, che hanno cercato un possibile incontro-scambio, forse un certo sincretismo anche, accogliendo molto di ciò che non lede il nucleo specifico del messaggio cristiano (riferito a ciò che è il “sine qua non” della identità religiosa del cristiano). E ciò è stato molto osteggiato (lo stesso Griffiths venne ritenuto da alcuni come “in odore d’eresia”), e ancor oggi stenta ad essere capito e accettato in occidente, mentre sembra che nelle chiese cristiane dell’India, almeno là dove sono prevalenti gli “ecclesistici” indiani, sia compreso, rispettato, e visto con interesse crescente. Certo qui non si tratta di quel tipo di sincretismo che si avviò nella cultura popolare romana con Costantino, o di quello praticato nell’America “latina”, bensì di una nuova via dell’intelletto e della fede per la comprensione di quella spiritualità che sta dietro e sotto ad ogni forma culturalmente e storicamente determinata. Ma anche in occidente, dato il crescente interesse per le religiosità di altre culture, molti non ritengono incompatibile col proprio sentirsi cristiani il praticare ad esempio vie orientali di ricerca spirituale. Ad es. padre Jäger dice che lo zen ha cambiato (e migliorato) la sua autocoscienza cristiana, e che con la pratica della meditazione si può ri-scoprire sé stessi e la propria spiritualità. L’incontro tra cristiani, musulmani, ebrei, induisti o buddhisti, e altri percorsi spirituali, è possibile e auspicabile e può esser molto fruttuoso, perchè c’è qualcosa, un nucleo profondo che li accomuna, e perchè ciascuno può dare molto a ciascun altro.
Nel secolo scorso ci sono stati pensatori di varia confessione, come ad esempio i fautori della teosofia, o come Rudolf Steiner con la sua antroposofia, e altri come i per esempio i bahai, o per certi versi pure la Mère, o Krishnamurti, o Thomas Merton, oppure come Karlfried G. Dürckheim, o come padre Hugo M.E. Lassalle, ma con impostazioni diverse anche R.Panikkar, che hanno cercato in vari modi, pur assai differenti tra loro, o soluzioni in certa misura di mutuo interscambio e intreccio culturale, oppure soluzioni che comunque considerassero quale fondamento della propria spiritualità, quella base comune alle numerose religioni del mondo e della storia, che pure c’è, esiste, ma quindi cercando al di fuori delle differenti ideologie, delle varie dottrine dogmatiche, al di là delle istituzioni delle varie chiese e delle varie denominazioni. Di qui anche l’attenzione ad un dialogo interiore “intrareligioso” che ognuno dovrebbe condurre con sè stesso con assoluta sincerità e apertura. Anche dallo stesso mondo laico e persino “laicista”, con l’attenzione di discipline di impianto scientifico (come la psicologia o l’antropologia) ad aspetti della interiorità, vengono aspirazioni ad una cultura umanistica che ci fornisca la base, il fondamento generale di riferimento per l’ “essere uomo” di ciascun appartenente alla specie homo sapiens.
E poi pensiamo solo a figure, pur così diverse, della cultura umanistica del Novecento come Th.Mann, H.G.Wells, A.Huxley. C.Kerényi, C.G.Jung, H.Hesse, R.Rolland, A.Schweitzer, o R.Guénon, M.Eliade e altri, che nell’incontro tra studio delle religioni, dei miti, delle letterature comparate, e della psicologia, e dell’antropologia culturale videro una via per una cultura nuova che desse un contributo alla causa dell’umanesimo come base di riconoscimento reciproco tra tutti i popoli nelle loro pur specifiche identità. La ricerca di una piattaforma di spiritualità condivisibile, che ci accomuni, è assai diffusa e oramai è un dato ineludibile.
Oggi in un mondo sempre più globalizzato io credo che si dovrà ritornare a riflettere su questi messaggi a favore di un possibile e augurabile obiettivo di affratellamento spirituale universale, se non altro per una sempre più acuta consapevolezza della necessità urgente di trovare basi per assicurare una pace mondiale duratura quale punto di partenza per un futuro di reale progresso culturale dell’umanità.
O come minimo perchè si incominci ad incamminarsi verso quell’obiettivo indicato ad es. da Andrea Ricciardi (fondatore della Comunità di Sant’Egidio), cioè di una effettiva condivisione di questo affollato piccolo spazio disponibile sul nostro pianeta, se non altro per realismo, oltre che per mantenere sempre aperta la speranza. Per cui Ricciardi esprimeva l’augurio “di una civiltà fatta di tante civiltà, ovvero di tanti universi culturali, religiosi e politici, senza svendita e senza paura delle identità (perché solo) la coscienza di quanto sia necessaria la civiltà del convivere è l’inizio di una cultura condivisa.” Che è in sintonia con l’appello di R. Pannikkar ad un “disarmo” culturale per addivenire a quello che definisce “l’incontro indispensabile” in vista di una pace interculturale (dai titoli di suoi noti libri). Perciò assume ancor più attualità il messaggio ricordato da Enzo Bianchi (il priore della comunità monastica di Bose) nel suo recente libro “ero straniero e mi avete ospitato”. E se l’incontro nasce dalla convivenza, da qui può venire il rispetto nel riconoscimento, e quindi anche  può venire sollecitato l’apertura reciproca, e l’amore per ciò che -del patrimonio dell’altro- sentiamo che ci può dare di arricchente, accogliendolo in noi come un dono.

A  PUNE
E’ il 25 agosto, ed eccoci a Pune, dopo un lungo tragitto verso il nord con un volo aereo low cost. Ci sistemiamo nella lussuosa (e cara per gli standards indiani) Guest House del “Centro” di Osho (da noi anni fa noto con il nome di Rajneesh). Anche questo è un ambiente internazionale, con sue caratteristiche particolari, e anch’esso è assai differente dalle realtà viste e descritte in precedenza. La storia del Malabar e di Cochin, poi il fervore shivaita di Tiruvannamalai, l’ashram di swamy Suddhananda, la figura di Shri Ramana Maharishi, l’ashram di Shri Aurobindo e di Mère, la città internazionale di Auroville, il grande complesso templare vishnuita di Tiruchirapalli, la comunità indocristiana di padre Bede Griffiths, per non ricordare di precedenti contatti avuti durante il viaggio precedente con seguaci di Krishnamurti, con gli Hare Krishna, con gente parsi, o sikh, o jain, con buddisti, musulmani, con rigorosi comunisti….che ampio spettro di colori e di sfumature! l’India è come un radioso arcobaleno. Questa è la grandezza dell’India dovuta proprio alla sua variegata articolazione, alla sua straordinaria civiltà composta di tradizioni e lingue e popoli diversi e dotata di una predisposizione all’apertura e alla molteplicità.
Ecco che ora entriamo nel Centro internazionale di Osho a Pune, noto in tutto il mondo, e ci immergeremo in un altro contesto di gente di varia provenienza, lingua e identità, che converge qui in India per condividere delle esperienze spirituali.
Subito all’ingresso c’è un bel giardino zen, con una statua del Buddha in meditazione dinnanzi ad un laghetto con fiori di loto, e lì vicino c’è una lapide con cui si rende omaggio al grande Krishnamurti, che volle essere un esempio di” anti-guru”. Si respira un’aria di grande serenità.
Dunque questa comunità, che a quanto pare non poteva trovare spazio per insediarsi e crescere, se non in India, essendo a suo tempo Osho Rajneesh stato dichiarato non accetto da molti paesi in cui si era recato, è oramai qui una realtà stabile e fiorente da parecchi anni, e la sua pubblicazioni sono tradotte in quasi tutte le principali lingue del mondo con altissime tirature, e le sue iniziative sono seguite da gente in paesi di tutti i continenti. E ciò, nonostante Osho sia morto già da molti anni, dopo lunga malattia (forse per avvelenamento), nel gennaio 1990.
Stupenda l’ambientazione, l’architettura, magnifici il parco, i grandi giardini zen, la piramide della meditazione, eccetera. Interessanti e spesso stimolanti non pochi elementi del pensiero e delle ricerche del fondatore.
Ma anche qua, durante il suggestivo e coreografico raduno serale nella grande piramide, con lunghe file di persone tutte abbigliate con una veste bianca immacolata che salgono all’ingresso per le due scalinate contrapposte dinnanzi al viale lastricato di marmo scuro con lunghi specchi d’acqua, anche qui mi ritrovo a farmi le consuete domande. E in particolare qui me le pongo con un certo grado di sconcerto e stupore, sebbene per motivi diversi dalle volte precedenti. Cosa spinge queste persone, venute da ogni dove per conoscere meglio il messaggio di questo personaggio che si proclama un ribelle e un “anti-guru”, a tanto fervore da adepti adoranti ? Qual’è il bisogno profondo che necessitano di soddisfare? per cui cercano, e infine secondo loro trovano, ciò che risponde alla pressione domandante che hanno dentro di sé? Soltanto che qui l’interrogativo me lo pongo osservando prevalentemente giovani, e meno giovani, occidentali, e non solo persone cresciute in un contesto culturale a me assai distante, ma gente che è stata formata in società fondate sulla razionalità e che affronta un grande viaggio proprio per allontanarsi dal modello “euroamericano”. E certo questo luogo costituisce un piccolo mondo artificiale, molto occidentalizzato, rispetto a quel che c’è fuori le mura, e vagamente riecheggiante una sorta di parco-a-tema culturale e spirituale adatto alla mentalità di ambienti che si definiscono anticonformisti sviluppatisi in occidente a seguito dei movimenti giovanili degli anni post-68.
Perchè mostrano tanta eccitazione? tanto fervore e devozione per il grande Maestro? tanta soddisfazione? Mi riesce arduo rispondermi appena entrato, e questo è certamente dovuto ai miei limiti, ma anche arduo trovare chi mi sappia dare risposte esaustive.
Qui spesso quando qualcuno incontra altre persone, forse già incontrate in precedenti esperienze, si abbracciano con gran calore e restano strettamente abbracciate, dimostrando giustamente quanto sono gioiosi di essere qui (e mi fa sovvenire di madre Amma nel Kerala).
Il grande movimento e incessante viavai di gente da ogni dove (europei, sudamericani, statunitensi, australiani, sudafricani, israeliani, russi eccetera, nonché indiani di varie parti che si parlano tra loro in inglese) è notevole e, a quanto pare, incessante tutto l’anno. Cosa bella e che crea una atmosfera che si intreccia con la partecipazione assai “sentita” di cui dicevo prima.
Inoltre ci sono anche anziani, e meno anziani, con belle barbe, spesso più che grigie, candide e lunghe, che forse appartengono al gruppo originario “più anziano” che vive permanentemente qui dentro. e che forse costituiscono come una sorta di ashram tra di loro. Infine ci sono tutti coloro che vivono, o sono venuti a vivere a Pune, e che lavorano qui per far funzionare questa notevole grande impresa (e spesso sono volontari che si pagano con il loro lavoro la loro permanenza).
Multiversity è chiamato l’insieme dei vari corsi, stages, laboratori, conferenze, workshops, sessioni, ecc. che sono qui offerti, per cui ti componi tu il tuo percorso di attività che vuoi seguire.
Ogni domenica, ma già da ieri pomeriggio, ci sono pure molti indiani che vengono per passare qui il week-end, e anche gruppi in visita con pullman organizzati. Siamo stati a passeggiare nel grande parco (di vari ettari) che c’è dietro, e proprio ora mente prendo queste note, stiamo ammirando gli enormi “mazzi” di grandi e altissimi bamboo che si agitano al vento, ed emettono scricchiolii, gemiti, schiocchi e rintocchi, sbattimenti e scontri tra loro, faticosi piegamenti e torsioni. Oltre ad ammirarne lo spettacolo incessante e ammaliante, bisogna anche appoggiare l’orecchio ad un tronco-canna, per conoscere la vita di questo stupendo “essere plurale”. Secondo me sono un po’ il simbolo di questo luogo, ma anche dell’India (come pure il grande banyan lo era ad Auroville).
Ieri tanti uccellini con il ciuffo e un pomello rosso venivano abbastanza vicino, con fiducia. In quel bello spiazzo grande che c’è di fianco alla libreria, stavamo facendo Tai-chi alle sette del mattino, e si sentivano vari uccellini, il gallo, il pavone, il picchio, non c’era silenzio, ma era un sottofondo straordinariamente gradevole che veniva dalla fitta vegetazione che c’è intorno e che è piena di vita che si rianima al mattino, cosa può meglio accompagnare i flessuosi ed armoniosi movimenti lenti che ci fa fare uno stupendo istruttore tibetano?

C’E’ CHI
In questa enclave, in questo mini mondo a parte, tutto appare felice come in un parco a tema. C’è chi ci vive, e chi vorrebbe viverci, come la giovane russa che vorrebbe continuare a giocare tutto il giorno, fuori dal mondo spiacevole della reale società del suo, come di questo, e di altri Paesi.
Ma fra un mese, fra un anno, tutto qui dentro si ripeterà più o meno sempre uguale, fuori dal tempo: come si può pensare di viverci? è come in una qualche fatata utopia di certi romanzi fantasy o di fantascienza, in cui il visitatore si informa presso gli utopiani sulle loro usanze si mostra interessatissimo e meravigliato, magari approva entusiasticamente, e poi riparte e scompare all’orizzonte, ripensando anche dopo anni con nostalgia a quell’isola fortunata, dove certo tutto sarà rimasto così com’era… Oppure è proprio (mutatis mutandis) come da noi nella prosaica realtà in cui viviamo come se fosse normale che le cose continuino a stare come stanno…
E’ sera, e forse ora incomincio a capire la gente che incontro qui. Certi sono molto “presi”, certi sono in un buon punto di equilibrio tra coinvolgimento e sguardo consapevole,certi sono qui per loro problemi psicologici in cerca di aiuto, di un contesto umano solidale con loro, con cui condividere il più possibile. certi sono qui per portare aventi una propria ricerca e perfezionamento in certe pratiche, per fare le sessioni di meditazione, per sviluppare uno sguardo introspettivo, per raggiungere la propria autosufficienza dal mondo e “uscire” dalla società di provenienza, dai problemi della propria vita, dalle responsabilità, dal fastidioso aver a che fare con il prossimo, che sente come tanto diverso da sé.
Certi sono solo visitatori, curiosi, turisti, o cultori del wellness sia interiore che fisico, per fare le diete, gli esercizi, i massaggi, ecc. Certi sono gente che qui può “sbarcare il lunario” quotidiano con poca fatica…
Una umanità varia, anche se entro un ventaglio di sfumature di una certa gamma.
Inoltre vedo che quando uno sta facendo ad esempio un percorso di terapia di gruppo, magari di un mese, è tutto dentro al contesto del proprio gruppo di riferimento, anche quando è per conto suo (allora spesso ha sulla veste la spilla che segnala che sta osservando il silenzio), e pur essendo in giro per il resort, è ancora preso dalla sua attività in corso e da quelle dinamiche. Tra queste persone, benché facciano pratiche differenti, ci sono certi che comunicano invece molto con altre persone più o meno note, e si aprono alla condivisione, mostrando la propria interiorità anche intima. Perciò certi quando poi si incontrano nei vicoli, nei bar, o negli spiazzi, si abbracciano e si stringono. Il che indubbiamente stimola e abitua ad una pratica di condivisione e comprensione reciproca, o comunque ad una disponibilità verso gli altri, vissuti come simili. Se può essere che “sfumi”, si diradi l’ego, si rafforza il “noi”. Si è in condizioni di vedere negli altri quella parte del “noi” che ora si è disponibili a cercare di comprendere. A vedere la differenza degli altri come se fosse dovuta al fatto che sono semplicemente più indietro nello stesso cammino nostro, e quindi degni di comprensione e affetto tanto quanto ne meritiamo noi stessi ora che siamo riusciti a fare dei passi avanti e ci siamo lasciati alle spalle certe condizioni e problematiche.
Una cosa bella è che non solo ci sono qui molti giovani, ma c’è veramente gente di tutte le età e condizioni, oltre che di tutte le nazionalità, e delle più varie origini ideologiche, religiose, culturali.
In un contesto così, tutto intessuto di corsi di self-awareness, meditazioni, self-love, sei continuamente a contatto con angosce, sofferenze interiori, ansie, aspirazioni, aspettative, bisogni, desideri… perché infine è questa la dimensione che prevale.
Certi sono qui perché si sentono in una impasse, o perché vivono una crisi di valori, e riconoscendo attraverso le varie pratiche  qui proposte i loro limiti, li vivono in alcuni casi come motivi di un proprio fallimento esistenziale, come segnali di una vita persa e sbagliata, perciò alcuni reagiscono con il timore di cambiare, di dover ammettere di dover cessare un certo stile di vita e di fare riferimento a falsi valori che si rivelano ora per disvalori, pertanto o rifiutano di tentare di intraprendere una via di trasformazione personale e si costruiscono uno scudo protettivo più solido, oppure hanno timore a ritornare a casa propria.
La meditazione essendo una tecnica, una metodologia, oltre a far compiere passi importanti verso una maggiore consapevolezza che consentirà una più elevata armonia, può aprire le porte anche ad percezioni di aspetti interiori non facilmente accettabili e maneggiabili, ed esporti ad una situazione pericolosa e ardua da gestire, e allora certi si buttano nelle attività ludiche che qui pure sono proposte in abbondanza.
Certi fuggono dentro un isolamento totale, dedicandosi ad una immobilità silente da freezer della meditazione profonda. Certi maturano la decisione di ritornare a casa trasformati e decisi a cambiare, determinati a non riprendere la solita routine quotidiana e le solite relazioni di qualità non più accettabile.
Perché in definitiva il fatto è che praticamente quasi tutti usciranno dal cancello e si reinseriranno nella situazione, e nel contesto relazionale da cui erano venuti. Ma chissà probabilmente resterà un seme che potrebbe maturare in seguito per far compiere loro una maturazione e una maggiore e migliore coscienza di sé.

DA PUNE
Durante il giorno si indossa tutti una tunica color bordeaux scuro (maroon veste), magari sopra all’abbigliamento consueto, mentre poi allo Evening Meeting delle 18.30/20.30, solo una tunica bianca immacolata. E questo rende tutti un pochino più eguali, non lascia che l’abito sia un elemento che distrae, ed è bello, almeno a me non dispiace, mi sembra un po’ come quando si è al mare tutti in costume o in shorts e ciabatte. Poi ci sono quelli in tuta blu, che sono i lavoratori manuali indiani, e quelli con la divisa da impiegato dei vari servizi; grazie a loro tutto ciò sta in piedi.
E qui può prendere rifugio anche la bella ballerina solitaria. Vive con tutta sé stessa il suo compulsivo bisogno di danzare in modo gioioso a tutte le ore. Ieri vedevo che stava entrando, e appena dentro si dirige danzando verso il giardino che c’è appena di fianco all’ingresso, e subito si avvinghia a un albero, e lo circuisce, lo ama, gli danza flessuosa tutt’attorno. E sorride gioiosa. Per lei questo luogo è un rifugio, a shelter, ed è una bellissima cosa, qui si sente libera, e perché no? non fa certo male a nessuno, anzi caso mai introduce armonia e spensieratezza. Se si trovasse nei giardini di una piazza di una nostra città, certo ci sarebbe dopo un po’ qualcuno che fa una telefonata alla USL, al servizio psichiatrico magari, se non ai carabinieri… Qui è libera, prova godimento lei, e ne provano quelli che la guardano e le sorridono. Ieri sera all’evening meeting c’era una ottima band, che ha suonato bella musica, e lei era lì tra i primi arrivati, proprio davanti in prima fila, in fremente attesa, non aspettava altro che iniziassero a intonare la primissima nota, che già si era alzata in piedi e aveva iniziato la sua danza solitaria aggraziata, leggiadra, volteggiante, ed era subito divenuta parte dello spettacolo, parte della musica stessa. Forse vorrebbe essere una sorta di derviscia? è una sua forma di meditazione sufi?
Anche qui, ma in maniera del tutto differente da altri contesti, si tende a praticare un sincretismo tra tradizioni indiane, orientali, e occidentali.
Nel discorso videoregistrato di Osho, parlava del suo non impartire una dottrina, ma solo di voler infondere un fuoco, e indicare alcune possibili strade da intraprendere, dicendo che sta soltanto esprimendo quelli che sono i risultati della sua personale esperienza e delle sue riflessioni, per condividerle con chi lo vuole ascoltare.
E qui ritorna il problema che mi ponevo sin dall’inizio di questo diario di viaggio. Molto importante è la guida, quello che anche si può chiamare con un termine recente, il facilitatore. Si è visto quanto diversi e diversamente efficaci, e variamente esperti possano essere. Nell’avviarti ad una tecnica di meditazione può essere fondamentale l’abilità e la partecipata assistenza della guida. Vieni spinto verso una situazione in cui i più delicati e intricati pensieri, nel senso di tuoi problemi intimi anche angosciosi, possono emergere e sospingerti verso una direzione, e riempirti di una pesantezza a volte insostenibile. Essenziale è dunque darti gli strumenti per far evaporare, svanire al loro insorgere simili pensieri e indirizzarti verso una rilassatezza vigile, una consapevolezza critica che ti instradi per un sentiero di calma, in cui acquietare ogni agitazione. Perciò è molto delicata la scelta della guida, dell’accompagnatore, e del consigliere, cui affidare sè stessi per un percorso durante il quale il controllo razionale e parte della mente viene scemando. Ci sono poi alcune rare grandi personalità che più di ogni altro possono aiutarti, ma anche queste potrebbero in definitiva plagiarti…
Certo che ora c’è qui questa Osho Commune International for Meditation, che è però priva di Osho, così come abbiamo visto una Auroville senza shri Aurobindo (e nemmeno la Mère), uno, e più, ashrams senza shri Ramana Mahrishi, o scuole ispirate a Krishnamurti, di cui parlammo con suoi seguaci nell’altro nostro viaggio, senza più quella brillante “stella d’oriente” con la sua chiara luce diretta; abbiamo ben avvertito il problema di Shantivanam senza la personalità vivificante di padre Bede Griffiths lì presente. Ma questo problema riguarda tutti, da Shantiniketam senza R.Tagore, allo stesso ashram ghandiano fuori Ahmedabad che visitammo nel viaggio scorso, eccetera. L’assenza fisica del maestro, fa sentire la differenza quando manca la sua presenza fisica diretta, con la sua grande influente capacità di essere la sorgente di vita spirituale che anima quel luogo. Anche là a Tiruvannamalai, l’abbiamo sentita la differenza, un conto era l’ashram dopo la partenza di Suddhananda, pur essendo il giovane swami-ji Sashwatananda bravo oltre che simpatico, e Lakshmi una presenza confortante e importante, era tutt’altra cosa quando il fondatore, l’ideatore, il forgiatore della identità del luogo era lì fisicamente, rispetto a quando era partito: quel che si sentiva percettibilmente, pur là sotto l’Arunachala, era un senso di vuoto, di mancanza (al confronto direi quasi di mancanza di senso ).
E dunque torna la domanda cosa fa di uno una guida, un guru? il carisma? Ad es. la scuola pestalozziana, o steineriana, dopo la scomparsa di Pestalozzi, o di Steiner, è probabilmente tutt’altra cosa. La scuola di Alexander Neill senza la sua presenza fisica, la scuola di Barbiana una volta scomparso don Milani, o Nomadelfia oggi, cosa sono? e poi quando anche il diretto allievo più stretto, è scomparso, restano solo i libri (e ora le videoregistrazioni). Certo si leggono, ci si entusiasma, si interloquisce mentalmente, nel nostro intimo, con il grande personaggio e il suo messaggio. Ecco che allora potremo sentire la fievole voce che da epoche lontane ci parla ancora e che può ancora essere ascoltata. Ne vale la pena. Ed è così che poi si guardano ancora le opere di un tempo, si ristampano ad es. vecchi o antichi testi, e si leggono ancora, e si trova che c’è un filo di continuità e che grazie ad esso pur attraversando una grande distanza temporale il messaggio che contengono continua a comunicarci qualcosa di coinvolgente. Poniamoci all’ascolto.
Parafrasando Cusano direi che proprio là dove con la sua lente il maestro ci stimolava a porre attenzione al contenuto di un testo e ad andare in profondità, se c’è un sole splendente proprio in quel punto i suoi raggi amplificati fan sì che la carta bruci, e che nasca un fuoco. Ma poi il buon maestro ci avrebbe “costretto” dolcemente a pensare con la nostra testa e ad infiammarci con il nostro spirito.
Ma d’altronde, e tuttavia, anche quando muore un mastro artigiano che fu un grande artista, cos’è poi la sua bottega pur piena dei suoi apprendisti e compagni?  Cosa era altrimenti lo sconcerto degli allievi intimi di Leonardo che pur intendevano dar continuità alla sua “Schola” ? E poi dopo la loro scomparsa? A maggior ragione dunque quando morirono i compagni di Socrate, o di Siddharta Gautama il Buddha, o di Gesù, o dei grandi Rebbe, dei venerabili Sufi, o dei saggi cinesi, quando poi morirono non solo i loro grandi allievi creativi, ma anche venne  poi meno la stessa memoria diretta di quell’atmosfera che era stata il collante di quella cerchia, e dunque che resta quando tutte le condizioni sono mutate, e l’aria stessa che si respira non è più quella?
Dolce eterea figura di Jñanam, dimmi tu… che ancora sei tanto pervasa dalla loro presenza in te dei tuoi due Maestri…
Restano in qualche misura gli effetti, le onde concentriche determinatesi per la legge del karma, la oramai fievole voce da ascoltare con la mente e lo spirito protese nel silenzio, ma soprattutto si percepisce il senso struggente di mancanza e dunque il bisogno che sorga un nuovo grande vero Maestro di vita per il nostro tempo. Indubbiamente però tutto ciò può essere un pungolo che ci fa rammentare di non perdere il contatto con i maestri dell’umanità, e inoltre è anche potente stimolo a coltivare il nostro “maestro interiore”. Questo in fondo era il messaggio di Aurobindo, dell’ashram di Suddhananda basato sull’accrescimento della consapevolezza di sé, lo stesso Osho ripeteva di cercarsi la propria strada. Proprio a Pune c’è anche il “Christa Prema Seva” un ashram di indocristiani, e la targa posta all’entrata dice tra l’altro: “Non ci sono strade o mappe già pronte, non esistono istruzioni per compiere il nostro viaggio. (…) E questo significa che non dobbiamo né possiamo sprecare tempo ed energie agognando inutilmente che qualcuno ci guidi e ci salvi da tutti i rischi e i possibili errori”. Perciò a farci viandanti e a compiere uno o più pellegrinaggi alle sorgenti alla ricerca dell’acqua chiara cui abbeverarsi, ad attivare se possibile un cerchio “ermetico” di comunicazione e di vibrazioni, in modo che in definitiva si possa coltivare il risveglio in noi stessi del discernimento e della consapevolezza, per raggiungere una maggiore armonia interiore, e per assumerci la responsabilità di prenderci cura del buon “esserci” in vita di tutti i viventi.

Ferrara, settembre 2006

pnc@unife.it


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