Kerala 2003 – Passaggio in India


Passaggio in India

(diario di viaggio 7 – 15 novembre di Alessandra)

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Il titolo è banale, ma un viaggio tanto breve in un paese così vasto è proprio solo un passaggio.
Alcuni mi hanno chiesto “perché proprio in India?”, dato che tra le mete di viaggio sognate non era ai primissimi posti. E’ stato per caso, ero all’agenzia a chiedere informazioni su un’altra destinazione, ma io, da persona insieme curiosa e indecisa, con un orecchio ascoltavo l’impiegato, e con gli occhi vagavo per i vari opuscoli esposti. Uscendo presi un depliant: Kerala, India del Sud.  Gli ho dato un’occhiata, e da quel momento l’idea ha cominciato a girarmi per la mente. Ho cercato su Internet tutte le informazioni, scoprendo esserci un sacco di siti sul turismo in Kerala, “God’s own country”, come lo chiamano loro.
Quindi, tra vari dubbi e perplessità (…ma nove giorni incluso il viaggio sono pochi per l’India…) alla fine si decide, prenoto il volo e organizzo tutto, destinazione Trivandrum (nome originale Thiruvananthapuram).
Il giorno della partenza l’emozione è sempre la stessa, mi sento in viaggio già uscendo da casa con le valigie. Voliamo con Kuwait Airways (Roma-Kuwait City-Trivandrum). Come sempre, sulle piste di Fiumicino c’è traffico, ma dopo circa mezz’ora decolliamo. Adoro il momento del decollo, quando l’aereo prende velocità e all’improvviso si stacca da terra, sento l’adrenalina circolare dappertutto.
Il volo procede tranquillo, man mano che cambia il fuso si fa buio, e verso sera atterriamo a Kuwait City. Fa uno strano effetto, sulle piste ci sono aerei militari di Stati Uniti e Canada, è inevitabile pensare che a pochissimi chilometri da lì c’è la guerra.
E’ notte, ma non dormo pensando che sto per arrivare in un paese tanto speciale. Nel buio della notte riesco solo a vedere un violento temporale in lontananza, poi il cielo comincia a schiarire, e la linea della costa appare ai miei occhi, prima sfumata, poi sempre più nitida. Mentre l’aereo si abbassa, la prima immagine che mi colpisce è un’immensa, sterminata distesa di palme, verdissime, di ogni tipo, la stessa pista è un nastro tra le palme.
Scesa a terra, mi trovo subito immersa nel calore umido e afoso tipicamente tropicale, ma non fastidioso, non per me.
Entrando nell’aerostazione, un pensiero immediato: “ecco, questo è il terzo mondo”. Forse non proprio il terzo, forse è il secondo, non so, ma la sensazione è netta. Le formalità doganali in India sono così complesse che la burocrazia italiana in confronto è una barzelletta. Passiamo circa cinque controlli diversi, e ci mettono sui passaporti non so quanti timbri. Poi finalmente l’uscita, e lì ho l’impressione di essere stata catapultata in un film.
L’esterno di un aeroporto indiano è esattamente come ci si aspetta che sia: è l’alba, ma centinaia di persone vocianti sono tutte lì ad attendere chissà chi; giovani, anziani, storpi, scalzi, tutti uomini, e piove.
Sono circa 20km tra Trivandrum (capitale del Kerala) e Kovalam, località sul mare.
In questo breve tragitto guardo fuori dal finestrino e cerco di registrare tutto ciò che vedo. Lungo le strade si alternano ville lussuose e nuovissime (poche) e casupole di cemento, piccole o piccolissime, molte con una finestra aperta sulla strada, con in mostra semplici mercanzie, destinate non certo ai turisti: qualche pacchetto di sigarette, bottiglie di acqua o bibite varie, un casco di banane.
E poi, ai margini delle strade, l’immagine che mi accompagnerà per tutto il viaggio, e che non dimenticherò. Dovunque, sotto piccoli ripari fatti di foglie di palma intrecciate, donne, giovani giovanissime e vecchie, accovacciate a terra per ore e ore, a spaccare delle piccole pietre in parti ancora più piccole, con un arnese rudimentale. Al tramonto, gli uomini al ritorno dal lavoro le raggiungono e collaborano, rompendo i massi più grandi in pezzi che verranno poi lavorati dalle donne. Mi è stato spiegato che il governo vende a queste famiglie povere i massi grandi a prezzi irrisori, e ricompra poi loro i “sassolini” a prezzo più alto, per farci le basi dei marciapiedi, delle strade e delle case.
Si, il primo impatto con l’India è decisamente forte, e un po’ per la stanchezza del viaggio e la confusione del fuso orario, un po’ per la giornata piovosa, resto leggermente sconcertata, ma so che è un’impressione passeggera.
Dopo qualche ora di riposo, mi avventuro alla scoperta di Kovalam Beach. Gli spostamenti non sono un problema, ovunque ci sono i Tuk-tuk, una specie di Ape con il sedile dietro, che fungono da taxi, basta contrattare il prezzo in anticipo.
Kovalam è una località sul mare, è considerata turistica, ma non ha assolutamente niente a che vedere con ciò che abitualmente reputiamo “turistico”. Qui non ci sono villaggi o Club Med, non ci sono McDonald’s, né discoteche o locali notturni. Alle 22 staccano la corrente, e chi non ha il generatore resta al buio fino all’alba. Non è un posto di massa, e non credo lo diventerà, non ci sono i fondali del Mar Rosso per gli amanti delle immersioni, né le onde adatte per fare surf, né tantomeno i divertimenti di Ibiza o Goa. Il posto più conosciuto è un resort ayurvedico dove alla vacanza si uniscono le terapie tradizionali indiane, fatte di massaggi e trattamenti  o cure mediche, tutto rigorosamente a base di prodotti naturali.
Il paese ha una specie di lungomare, che è in realtà un marciapiede di cemento largo un metro, che si infanga non appena comincia a piovere. Al di qua ci sono tutti in fila alberghi, ristoranti e negozietti di artigianato vario, al di là c’è la spiaggia e il mare. Parte della spiaggia è destinata alle barche e alle reti dei pescatori.
Non appena arrivati, veniamo circondati da una schiera di ambulanti che tentano di venderci qualsiasi cosa, ma dopo vari “no, thank you” desistono.
Per rinfrancarci un po’ dalla giornata appena trascorsa, per pranzo prendiamo un’aragosta, ottima anche se cucinata in maniera semplicissima.
Il giorno seguente cerco ancora di ambientarmi e capire cosa c’è da fare e da vedere, passo un po’ di tempo sulla spiaggia adiacente l’albergo, ad osservare i pescatori che tirano su le reti, in un rito collettivo che si ripete ogni giorno allo stesso modo da chissà quanti secoli. Alla fine, ciascuno torna a casa con il proprio sacchetto di pesce, il resto andrà ai mercati o nei ristoranti.
Lungo la spiaggia, dalla parte opposta al paese e agli alberghi, comincia un villaggio di pescatori che segue la costa per circa 4km, e per curiosità, e anche per camminare un po’, attraversiamo da cima a fondo tutto il villaggio, tra la sorpresa degli abitanti. Lì la povertà si può toccare con mano, gli uomini sono a pesca, e le donne passano la giornata a sfilacciare i gusci esterni delle noci da cocco, con i quali poi faranno delle corde che rivenderanno, è pieno di bambini, e tutti, adulti e piccoli, sono all’aperto, lungo il sentiero principale che si snoda per il villaggio. Le case sono dei cubicoli di cemento, altre ancora semplici capanne di foglie di palma intrecciate. Qualcuno cucina, qualche altro si lava di ritorno dalla pesca, e tutti ci domandano da dove veniamo, e qual è il nostro nome.
Quello che mi colpisce è la profonda dignità di queste persone, che sono si povere, forse poverissime, ma non c’è quel degrado umano e sociale che è proprio invece delle grandi metropoli africane o sudamericane. I bambini qui vanno a scuola, non mendicano, e tutti hanno da mangiare, poco forse, riso pesce e verdure, ma c’è.
Il Kerala è uno stato a sud-ovest dell’India, sulla punta meridionale. E’ tra gli stati indiani il più alfabetizzato (il 98% circa della popolazione, contro una media nazionale del 50%), la maggioranza della popolazione è cattolica o musulmana, e c’è un partito comunista politicamente rilevante. Il paese vive essenzialmente di agricoltura e pesca, produce ed esporta frutta, the e spezie, è l’India più semplice e rurale, non quella dei grandi pellegrinaggi, delle città sacre e dei contrasti eccessivi.
Il terzo giorno sento finalmente di aver recuperato il jet-lag, e sono pronta per andare a visitare Trivandrum, la capitale. La città è un misto di stile Indiano e Inglese, l’influenza della colonizzazione si respira ad ogni angolo; non c’è molto da vedere, e quel poco è chiuso per riposo o per restauri, il traffico è naturalmente caotico, incrocio anche un paio di manifestazioni politiche. Decido di perdermi tra negozietti e magazzini di artigianato, compro tutto ciò che ho il tempo di acquistare e torno alla base. In albergo ho prenotato un massaggio ayurvedico che mi rilassa davvero, ed è molto piacevole la sensazione del ritorno dopo una giornata nel caos della città. L’albergo è distante dal paese, su una collina in un parco di palme e prato verde, le stanze sono dei tipici cottages keralesi, è un posto che infonde serenità, gli ospiti sono pochi e discreti, si gode di uno splendido tramonto con lo scroscio delle onde per sottofondo.
Per i giorni seguenti abbiamo organizzato una visita alle Backwaters. Si tratta di una fittissima rete di canali navigabili, naturali ed artificiali, che collegano tra loro molte città e paesi. Questi canali si possono percorrere su delle barche tradizionali keralesi, dei lunghi scafi in legno con la copertura fatta con foglie di palma intrecciate (qui con le foglie di palma fanno tutto), una volta usate per la pesca, ora ad uso turistico, con una o due cabine per i passeggeri, una per l’equipaggio, una cucina ed una veranda.
Il luogo d’imbarco si trova in un’altra città, Alleppey, distante circa 150km da Kovalam. Partiamo la mattina presto in macchina, e percorriamo la statale costiera che collega le due città. In India le distanze sono totalmente relative, per percorrere questa strada ci mettiamo quattro ore, perché, tranne per una ventina di chilometri quasi disabitati, il resto è un susseguirsi di centri abitati e cittadine, e in India questo significa decine di migliaia di persone tutte per la strada, in auto, bus stracolmi, taxi e tuk-tuk, motociclette, biciclette, a piedi, gente con mucche al guinzaglio, ciclisti con intere balle di fieno sul portapacchi della bici,  camion da trasporto, e decine di Maruti nuove, le piccole auto testimoni del boom economico di una parte della classe media, insomma, qualsiasi cosa possa trovarsi su una strada, qui si trova. Scampiamo miracolosamente a 30/40 incidenti frontali e verso mezzogiorno arriviamo finalmente ad Alleppey, dove ci imbarchiamo sulla nostra “Kerala’s houseboat”.
L’equipaggio è composto da tre persone, due anziani nocchieri (è il nome più adatto che posso dargli) e un giovane cuoco. Si parte più o meno contemporaneamente ad altre barche come la nostra, la maggior parte degli altri turisti sono Inglesi, o Indiani di altri stati.
L’imbarcazione non è provvista di motore, e i due anziani timonieri la guidano, uno a poppa e uno a prua, con delle lunghe canne di bambù che immergono sul fondo del canale per spingerla avanti. Sui canali incrociamo delle grandi imbarcazioni di linea, che collegano le varie città, e al solito sono stipate di gente. Poi deviamo per i canali più isolati, e li la pace è totale, sulle sponde è un susseguirsi di palme, fiori e piccoli villaggi. Ogni tanto vediamo una donna che sciacqua piatti e pentole, o bambini che giocano.
Sostiamo un paio di volte per il pranzo e per il tè, rigorosamente alle cinque, e verso il tramonto la barca si ferma lungo un canale più grande, il posto dove passeremo la notte. Un villaggio si divide tra le due sponde, e vedo la gente al ritorno dal lavoro nei campi. Tutti, a turno, si lavano nel fiume, e lavano i loro semplici abiti (pareo e camicia). Scendo dalla barca per ispezionare il luogo, e in una botteguccia dove ero andata a comprare una birra trovo anche delle carte da gioco, bene, ecco un modo per passare la serata (per noi abituati ad attardarci la sera). Quando fa buio, viene servita la cena, poi l’equipaggio va a dormire. Restiamo sulla veranda con la nostra unica luce nell’oscurità totale, due chiacchiere, la birra e le carte, e una sensazione unica di pace e di totale isolamento: qualsiasi cosa stia succedendo nel resto del mondo io sono lì, in mezzo a un canale, nel nulla. In realtà la città dista solo una quindicina di chilometri, ma è come se non ci fosse assolutamente niente tutto attorno. Solo in lontananza si sente la voce di un muezzin che canta la preghiera, e il resto è lo sciabordio dell’acqua e i versi di qualche animale. La notte passa un po’ scomodamente, il letto è corto, e nel sonno all’improvviso sentiamo un grido disumano, è il cuoco, forse un brutto sogno, forse sonnambulismo, restiamo pietrificati. Il grido si spegne in uno strano lamento, poi la voce di uno dei timonieri sembra calmarlo, e tutto torna come prima. Al mattino si riprende la navigazione, e dopo la colazione lentamente si fa ritorno al punto d’imbarco. E’ una bella giornata calda e assolata, di nuovo mi immergo nel traffico e nel caos della statale, dopo le solite quattro ore sono a Kovalam.
Trascorro gli ultimi giorni tra massaggi ayurvedici, e mare; il tempo in spiaggia lo passo principalmente ad osservare la gente, gli altri turisti e i locali, che allo stesso tempo osservano noi. Gruppetti di ragazzi Indiani guardano noi donne occidentali, con i nostri costumini striminziti, ma senza malizia, nei loro sguardi c’è solo curiosità. L’India è un paese tradizionalista, e piuttosto bigotto, le ragazze anche quando fanno il bagno a mare restano vestite. Su una spiaggia c’è una chiesetta cattolica, stanno celebrando un matrimonio, è curioso vedere gli sposi in abiti occidentali (lei col tradizionale vestito bianco) e le invitate con le sari della festa, fatte di splendidi tessuti.
L’ultimo giorno diluvia, ne approfitto per immergermi nello shopping, compro di tutto, parei, borsette, bigiotteria in argento, spezie, tè di vari tipi, sciarpe, olio da massaggio, tessuti. Si avvicina il momento del ritorno, ma mi riesce difficile lasciare questo paese. Il caldo umido, l’odore dell’incenso, i volti sereni della gente…

La partenza dall’India merita uno spazio a sé. Raggiungiamo l’aeroporto di Trivandrum alle quattro del mattino, e già a quell’ora è pieno di gente. Dopo aver passato i bagagli sotto un metal detector, e averci appiccicato sopra una targhetta (si fa tutto da soli), il check-in è come ovunque, se non fosse che le carte d’imbarco vengono compilate a mano. Poi c’è una lunga fila per il primo controllo passaporti e il foglio immigrazione, due diversi impiegati appongono due diversi timbri. Si passa ad un altro banco, lì un impiegato consegna un foglio e indica di uscire fuori sulla pista, dove bisogna riconoscere il proprio bagaglio e apporre una firma sul registro di un altro addetto. Si torna dentro e un ennesimo impiegato assegna i posti sull’aereo. Poi, ulteriore fila per controllo passaporti e perquisizione. La poliziotta che controlla le donne potrebbe partorire da un momento all’altro, ma è lì in piedi a perquisirci, con la divisa fatta a sari. Ultima fila per controllo bagaglio a mano, e finalmente si entra nel salone dove attendiamo l’imbarco.

Il volo fila via liscio; solo, all’atterraggio a Kuwait City, stavolta di giorno, vedendo dall’alto quelle immense, sconfinate distese di sabbia, di nuovo mi sembra impossibile che li sotto ci sia gente che si scanna per il petrolio.
Torno a Roma un sabato pomeriggio di novembre, le vetrine sono già addobbate per Natale, la gente corre e si affanna, e io mi sento così spaesata e fuori luogo, ho ancora dentro di me i ritmi rilassati dell’India, e guardando la gente mi sembrano tutti un po’ folli.


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