Bali 2013


racconto di viaggio di Carlo

Abbiamo finalmente preso una decisione: passeremo il mese di settembre sull’isola di Bali (in Indonesia, subito a est di Giava).
Sono molto eccitato all’idea! Spero che troveremo un po’ meno turisti che non nell’alta stagione (metà giugno-fine agosto), e forse anche qualche prezzo ribassato. Ma soprattutto la calma sufficiente per godere di certi posti e per contattare dei balinesi.
Cercheremo comunque di dare un’occhiata rapida anche ai luoghi turisticizzati del sud, per soffermarci piuttosto nel centro, nell’est e nel nord. Poi forse andremo comunque a fare un po’ di bel mare alle isolette Gili.
Grazie a Ricky (di Viaggiare Liberi) mi sono studiato la penultima edizione della Lonely Planet che scarico gratis (come d’altronde ho fatto di recente in altri casi), quindi non ho comprato l’ultima edizione uscita in luglio 2013. Mi sono procurato invece la nuovissima edizione (stampata l’8 maggio…!) della preziosa Routard, che mi è sempre stata molto utile, di Bali e Lombok, e quella (pure stampata a maggio…) della guida Petit Futé (che già avevo apprezzato in Sud-Marocco) di Bali e Giava.
Sto leggendo vari diari di viaggiatori, e mi segno i loro consigli.
Abbiamo comprato il biglietto, una linea diretta KLM da Amsterdam (con una breve sosta a Singapore), per 770€, che impiega 17 ore di volo (…sob!). E il biglietto in offerta a 195€ per il tratto Bologna-Amsterdam a/r in coincidenza.
Forse già fra qualche giorno prenoteremo la prima notte, come facciamo sempre.
Intanto sto meditando sull’itinerario e sulla scelta delle guesthouses o delle homestay, o family stay (che si chiamano losmen o hotel melati). Penso che andremo quasi subito a Ubud e ne faremo il nostro campo-base.
Poi vi saprò dire…. ma per il momento ho grandi aspettative.  🙂
Per capire la mia eccitazione, basti guardare alcune tra le immagini che mi hanno fatto sognare…
E mi sto facendo una serie di letture sulla cultura balinese, per preparami prima del viaggio; mi intrigano le letture sul teatro delle ombre, sulla danza, la musica, le marionette, la spiritualità, gli usi e costumi (quindi anche sugli abiti tradizionali, le forme di cortesia, e sulla cucina), eccetera, e sulla spiritualità  (come ad es. il libro di Gherpelli, Il segreto di Bali, Verdechiaro edizioni, Reggio Emilia, 2008), per cui sto già incominciando a sleggiucchiare anche testi di antropologia culturale, ma anche romanzi ambientati nell’Isola degli Dèi (come quello di Colin McPhee, Una casa a Bali).
Oggi ho poi comprato anche la guida illustrata Mondadori, settima edizione 2012, e l’ottima guida DUMONT Reise-Taschenbuch, di Roland Dusik, trad.it. 2012, che ha anche una buona carta stradale. Poi è uscito il libro sull’Indonesia di “Avventure nel Mondo”, Roma 2013, 287 pag., che ha tre bei capitoli su Bali (di Idanna Pucci, Vito Di Bernardi, e Walter Bonatti).
Bali ha una superficie di 5800 kmq. quindi è grande circa come la parte di lingua greca dell’isola di Cipro, che ho visitato in maggio (cioè un pochino meno delle Canarie messe tutte assieme, e un po’ di più delle Baleari tutte assieme).

“E’ stato un bellissimo viaggio. Siamo appena tornati ieri sera. molto soddisfatti. L’isola non è grande ma è piena di bei posti e cose interessanti di vario tipo. Ce la siamo presa abbastanza con calma, fermandoci e ambientandoci, facendo davvero slow travelling (cioè: è preferibile meno ma meglio, che non tutto ma di corsa).
Ora siamo tornati e già subito mi mancano quella esuberante vegetazione, quei colori, quei fiori, ma anche i paesaggi, il mare, il poter vivere in shorts, t-shirt e infradito, i loro sorrisi …

Dunque ecco il diario di questo mese balinese:

3 settembre 2013
Dopo pranzo partiamo: Bologna-Amsterdam, e poi da lì sul volo diretto per Bali (solo una breve sosta tecnica a Singapore). Per cui domani saremo già in situazione… Ora tutto, o molto, è affidato al caso o, spero, alla buona sorte. Se ci capiteranno buoni alloggi, e se lì incontreremo persone con cui scambiare due parole, se azzeccheremo i luoghi e i tempi giusti per il nostro giro dell’isola, se ci capiterà di vedere belle cerimonie o se ascolteremo interessanti musiche locali, se saremo fortunati con il cibo, se se se… E’ una questione anche di fortuna. Facendo persino le stesse cose, andando negli stessi posti, ma due giorni prima o dopo, tutto può cambiare, gli incontri, il tempo atmosferico, le coincidenze, gli incroci…
Lo “stesso” viaggio diventa molto facilmente un viaggio diverso. E’ proprio per questo che viaggiando c’è quel pizzico di avventura.
Mio figlio Michele, da buon matematico, dice che il caso non esiste, per ogni evento si possono trovare cause immediate e cause remote, principali e secondarie, al limite si potrebbero addirittura calcolare le percentuali delle incidenze… (mi viene in mente “la determinante in ultima istanza”), ma è solo qualcosa che tu non conosci e che non sai come si venga a verificare, ma è così per carenza tua, e quindi la gente non sapendo che dire lo denomina “caso”.
Altri dicono che il caso è qualcosa di fortuito e imprevedibile che può venire determinato anche da piccolissimi eventi accidentali che al momento sembrano di scarso rilievo (il battito d’ali di una farfalla a kilometri di distanza…). E’ come l’ultimo risultato di una catena rocambolesca di spinte, e di incidenti e di effetti che diviene una valanga (ricordate “chi spinge gli spingitori?”). Altri pensano che non ci sia il caso, ma al contrario che tutto sia già predeterminato, che stia come scritto nel “libro del tempo”. Altri credono nel caso in quanto Destino, tu prima o poi, in un modo o nell’altro sei portato a fare certi atti, a dire e far succedere certe cose, è il tuo destino… Certi poi lo mitizzano chiamandolo Fato, manovrato da poteri superiori, è come l’ineluttabile, l’inconoscibile, qualcosa che ti travolge e che ti rende non più padrone di te stesso e che trascende la tua stessa volontà o determinazione. Bisogna abbandonarsi ad esso ed accettarlo, non fare più progetti, calcoli, ma quasi stare a vedere cosa capiterà.
Jung pensava alla sincronicità più che non a un mondo fatto solo di causalità.
Ci sono i fatalisti, e i provvidenzialisti, i deterministi e gli spensierati (o incoscienti), ecc…
Io credo che il caso esista, ma al contrario del destino, credo che sia un po’ come la serendipity, o come nel film “Sliding doors”. Siamo continuamente di fronte a scelte, di fronte a dei bivi (o trivi, o più) e ci capita di prendere la via di lato o quella di fronte, senza dar peso alla cosa, oppure col preciso intento di perseguire un certo obiettivo del momento, che supponiamo sia raggiungibile in quella direzione con quelle scelte.
E’ un po’ un gioco d’azzardo, se la imbrocchi ti va bene. Ma in parte sono convinto che sia come dice quel proverbio che suona: “aiutati che il ciel ti aiuta”. Cioè sei implicato e devi compiere le tue scelte (anche di non scegliere) pur senza poter essere certo della loro giustezza o opportunità, ma non puoi, e non devi, sottrarti, devi farti soggetto attivo. Come si suol  dire, poi almeno ti potrai un po’ consolare pensando di avercela messa tutta, di aver fatto il possibile, ché di più non si può. E’ un po’ come il discorso di Krishna ad Arjuna nella Bhagavad Gita. C’è un imperativo morale (almeno in certi casi…). Sei “libero” di seguire il tuo arbitrio.
Comunque resta chiaro che nessuno può muoversi prima con “il senno di poi”…
Insomma vedremo… auguroni a noi stessi! buon viaggio!

PRIMO GIORNO, Legian
4 settembre, nel pomeriggio atterriamo finalmente a Bali, inizia il viaggio: il primo momento è quello solito quando arrivi nei paesi d’Oriente, cioè caldo, confusione, traffico un po’ caotico, tanto più sconcertante per il fatto che qui c’è la guida a sinistra, e inoltre ci sono migliaia di motorini e scooter, e poi miriadi di negozietti minuscoli (ma con a fianco anche alcune vetrine di negozi di buon livello), insegne luminose, tanta occidentalizzazione.
Ho prenotato come al solito solo nel primo posto, molto vicino all’aeroporto, a Legian, dove resteremo soltanto domani per riposare, ambientarci, e abituarci al fuso orario. Quindi due notti, e poi inizieremo a cercare di conoscere l’isola. Il surf non ci interessa, le spiagge per abbronzarci al sole non sono un nostro obiettivo, per cui lasceremo subito perdere il sud.
Il taxi ad un certo punto svolta dalla strada principale (jalan Legian) in un vicoletto, stretto stretto, e malandato, in fondo al quale c’è il nostro albergo. Questo, oltre ad essere l’unico che avevo trovato su internet che avesse libera una camera per tre, è fuori dal rumore del traffico, ed è proprio bellissimo. Si tratta del “Three Brothers Bungalows”, ha un grande giardino, anzi sono tre collegati, per cui è un vero e proprio parco tropicale rigoglioso in cui sono sparse le casette con strutture architettoniche tradizionali balinesi.
Essendo, come avevo chiesto, al piano terra, abbiamo anche una veranda, un lounging, davanti alla porta della camera dove si può stare fuori dalla stanza a bearsi della vegetazione. C’è una bella piscina, e un bar. La camera con prima colazione, e inclusa la terza persona, tasse comprese, viene in totale 56€uro. L’arredamento è in stile balinese, con mobili massicci, intarsiati e decorati. Il letto matrimoniale è a baldacchino con zanzariera attorno e sopra. E’ una camera grande e c’è posto per il terzo letto, ma quando arrivano per sistemarlo, si tratta semplicemente di un materasso che mettono per terra. E’ una prima delusione, ma loro non hanno letti singoli da poter aggiungere. La sala da bagno è grande con vasca e doccia, questa parte del bagno è anch’essa secondo lo stile tradizionale, cioè mezza all’aperto, all’esterno, ovvero è la parte scoperta, senza tetto. E’ il tipico mandi balinese, fatto così forse per arieggiare… L’angolo della doccia dà su una sassaia di pietre levigate ammassate in terra, dove non c’è pavimento. Questa caratteristica balinese però non piace molto a moglie e figlia… che hanno un secondo disappunto (quando eravamo entrati in bagno un topolino era scappato a nascondersi e aveva attraversato la “zona aperta”).
La camera ha ventilatore al soffitto e anche l’apparecchio per l’aria condizionata. Le grandi finestre sul parco è meglio che restino chiuse. Come pure va tenuta sempre chiusa la porta del bagno. Questo fatto che in camera faccia un po’ più fresco che all’esterno, grazie al ventilatore o all’A/C, mentre entrando in bagno, anche di notte, ti fai subito promemoria della temperatura esterna reale, mi riporta il ricordo della Birmania. E questo mi fa da stimolo per ricordare altre esperienze simili, anche in India, e la mente comincia a realizzare una sorta di trait-d’union con precedenti viaggi, e rende possibile per la mia sensibilità stabilire un continuum delle atmosfere e sensazioni che si hanno viaggiando in oriente. Mi piace. Moglie e figlia forse anche per la stanchezza sono invece un po’ deluse, avrebbero preferito uno standard migliore per riposarsi, ma l’architettura e il giardino sono proprio belli (www.threebrothersbungalows.com).
Usciamo per guardarci meglio attorno e vedere dove siamo. Innanzi tutto compriamo una sim per il cellulare, prendiamo in una minibotteguccia di Padma street una phonecard della TelkomSel indonesiana. Passeggiamo un pochino, e notiamo che anche nella strada principale, nonostante la motorizzazione, la modernizzazione e l’occidentalizzazione, ci sono comunque alcuni segni di un’altra cultura, che riconosco come caratteristici per le letture fatte prima di partire.
Cioè alcune porte intarsiate, i tempietti domestici che spuntano sopra ai muretti, la sede delle riunioni del banjar (comunità di villaggio o di quartiere), le case tradizionali con i cortili, le balconate, le decorazioni sui tetti, i vicoli stretti, le statue “abbigliate” con dei drappi, le offertine benaugurali poste in terra nei punti di passaggio, ecc., ma sono eccezioni che bisogna notare perché altrimenti, almeno qui, è tutto standardizzato. Comunque non fosse per quegli elementi che fanno capolino ogni tanto, allora questa non sarebbe altro che una cittadina di mare qualsiasi. E invece grazie ad essi si ha conferma di essere altrove, al di là delle apparenze.
Ci fermiamo ad un noto bar-café, il “Capil” (che è chiamato anche Indo-National) ad ascoltare musica dal vivo. Beviamo avidamente delle spremute di frutta, una Sprite, acqua minerale, e io prendo anche uno spuntino con tre bocconcini (bites) di pollo impanato, con patate lesse poi fritte, per un totale di 6 €uro ci rilassiamo e restiamo là a lungo, un po’ imbambolati.

SECONDO GIORNO, Legian
5 settembre. Mi alzo presto per via del fuso orario, e alle 8 sono già in giro per il giardino a fotografare le piante e i fiori con ancora la luce del sole radente che crea begli effetti sul fogliame, tra gli alberi, e i cespugli. Certi fiori illuminati dai raggi solari rivelano colori e splendori straordinari. Il parco è davvero stupendo e lussureggiante, esuberante, con talee improvvisate e precarie che comunque sopravvivono e si sviluppano. Siamo proprio in fascia equatoriale.
Dopo il breakfast in un ambiente simpatico, dove facciamo due chiacchiere con un surfista italiano, andiamo a vedere il mare e la grande spiaggia, che è frequentata dai surfisti.
Restiamo per un po’ seduti sotto un ombrellone (il sole è fortissimo) a guardare lo spettacolo (spiaggiona, ondone, surfisti) bevendo una aranciata, ci godiamo l’ombra e il provvidenziale vento.
Giriamo un po’ per le strade di Legian. Ma il sole stanca, torniamo in albergo e stiamo in piscina. Alle tre e mezza pranziamo -ascoltando i racconti sui camps dei surfisti in giro per il mondo- nel “Itu Itu restaurant” interno. In un primo momento prendiamo dei wanton di gamberetti fritti, una buona zuppa al pomodoro, e del pesce con sopra del formaggio fuso, poi scoprendo di avere fame, aggiungiamo anche delle bruschette al pollo, un pancake grande, e varie bibite e acqua dato che abbiamo sempre molta sete (infine chiediamo il conto e sono in tutto 6€…), e intanto telefoniamo a Ubud ad una pensione famigliare a cui avevo già scritto mail, per combinare il nostro soggiorno là.
In bagno tra i sassi sotto la doccia scorgiamo degli scarafaggi. Annalisa va a comprare uno spray.
L’aspetto esteriore di Legian è di una cittadina moderna. Ci sono dei bei negozietti, dei bar, dei posti carini per mangiare… In serata andiamo a vedere le bancarelle del Legian Beach Festival che inizia proprio oggi sul lungomare. Ci sono delle belle cose da guardare sui banchi, e ci sono turisti di tutto il mondo, est e ovest, Asia e Occidente. Poi entriamo al resort “Bali Mandira”, dove stiamo a guardare lo spettacolo di una ballerina asiatica che sa fare benissimo ed in modo affascinante la danza del ventre, e ceniamo al bel ristorante all’aperto “Celagi” molto molto bene e abbondante per quasi 13€ a testa (calamari fritti, gamberoni alla griglia, una piccola aragosta, riso al vapore, delle patate, un succo di papaia, e acqua e bibite). Stiamo a guardare la gente che passa davanti alle bancarelle.
Infine ritorniamo ad imboccare il nostro gang (che significa vicolo) ormai al buio. Nottata piena di suoni e di gridi di uccelli.

Terzo giorno,  venerdì 6,  Ubud

Telefono al padrone della pensione di Ubud e chiedo se ha qualcuno che venga a prenderci per portarci da loro; ci mandano Wayan che per 16€uro e ci accompagna là. Ci vuole circa un’ora e mezza di viaggio nel traffico stradale.
Inizia dunque il nostro viaggio!
Attraversiamo la grande area urbana di Kuta-Denpasar, poi incomincia una bella campagna. Si sale verso le colline e si passa per diversi terreni tutti a risaie… ecco Bali. Poi lungo il lato sinistro cominciano a susseguirsi moltissimi templi e tempietti… ecco Bali. Il driver ci spiega che è perché ce n’è uno per ogni aggregato famigliare, uno per ogni villaggio o quartiere, e ogni tanto uno pubblico. E ci fa notare che sono rivolti sempre con l’ingresso a nord-est, verso il Tempio Madre di Besakih sulle pendici del grande vulcano.
Entriamo infine nell’area di Ubud, che è un borgo molto sparso ed esteso. Ed eccoci al “Nick’s homestay”, dove abita la famiglia (che è proprietaria anche del Nick’s hotel, e di una spa wellness) in jalan Hanoman N°57 in uno stretto gang laterale. Ci danno una camera bella grande con tre lettoni di bambù e il ventilatore al soffitto per circa 28€ totali a notte, con BF (breakfast), in tre. Nel bagno (che avevamo chiesto fosse “chiuso” =all’occidentale) comunque c’è la doccia con sotto dei ciottoli. Anche qui dunque abbiamo i sassi in bagno…!
Fa una curiosa impressione… Anche qui siamo al piano terra e abbiamo una ampia veranda dove trascorreremo non poco tempo.
E’ proprio il compound (il “recinto”) dove vive la grande famiglia di Yandé Budiyasa, con le loro abitazioni e i piccoli templi domestici. E dove c’è una parte del terreno in cui hanno edificato delle casette con stanze per ospiti. Ci fermiamo per 10 giorni.
Alle tre andiamo a prendere un lunch da “Artini” Warung, quest’ultima parola significa posto per mangiare, trattoria. Per una zuppa di patate, un pollo soto ayam, una frittura mista, succo d’arancia, bottiglia grande d’acqua, e non ricordo che altro, spendiamo 9€ in totale in due. A differenza di altri paesi, qui capiscono le tue esigenze, tipo non troppo piccante, o senza quell’ingrediente, o mettimi questo ingrediente o contorno invece di quello… e sono sempre molto gentili e accomodanti. Ad es. chiedo che mi dia una spremuta d’arance ma senza ghiaccio e senza aggiunta di acqua, e me le fa effettivamente così.
Quando torniamo alla Homestay, il merlo mi saluta con un potente fischio, il pappagallo mi riconosce, e il loro cagnetto vorrebbe giocare, mentre il gallo è impegnato a inseguire una gallina.
Andiamo a fare un giro in centro storico, ammirando il palazzo, un grande tempio, dei giardini.
Combiniamo subito per andare a vedere in serata un’esibizione di danze con accompagnamento musicale tradizionale, che si tiene ogni venerdì sera alle 19:30 nel Puri Saren, l’ex palazzo reale. Il biglietto non ha valore di prenotazione posto, ci si siede a caso o su seggioline o sul muretto, o per terra (primo arrivato meglio accomodato). Lo spettacolo è una combinazione di musica dei gamelan, cioè di xilofoni di metallo percossi con martelletti, gong, e varie altre percussioni, e altri strumenti come il flauto, e di danze di vari danzatori che interpretano dei personaggi e degli episodi delle leggende del folklore balinese rielaborate sulla base di brani dell’antico “Ramayana”. Quindi una combinazione di musica, danza e teatro. Interessante e a tratti anche bello esteticamente; bei costumi e brave ballerine. Un po’ troppo lungo, dato che è difficile da seguire la storia che si sta svolgendo. A volte la musica sembrava come fosse prodotta da un organetto meccanico, a scatti e molto scandita, ritmata, in definitiva abbastanza ripetitiva. So bene che quando in occidente la si conobbe suscitò grande interesse, ho letto prima di partire il libro-diario di Colin MacPhee, e inoltre so che Debussy, Britten, Bartòk, e Messiaen e altri ne hanno inserito le sonorità in loro composizioni, però non mi sembra che raggiunga alti livelli di espressione. E’ suggestivo che la rappresentazione si svolga nel palazzo che il re di questo territorio fece costruire nel sedicesimo secolo con vari cortili tra cui questo, detto Ancaksaji, cioè dedicato proprio agli spettacoli, alla musica e alle arti performative.
Gli esecutori sono molto impegnati e prendono con estrema serietà e grande partecipazione emotiva lo svolgimento dei drammi musicali in corso, che hanno per loro il valore di una sacra rappresentazione. Si tocca con mano ad es. quel che doveva essere in occidente anche il dramma teatrale greco antico, che era parte di celebrazioni e riti di carattere religioso.
L’ingresso costa 5€, e si giustifica per il fatto che si tratta di una troupe di riconosciuto alto livello artistico (è la “Sadha Budaya”). Lo spettacolo riguarda a livello introduttivo danze Legong con musica gamelan, e poi quattro atti di teatro Barong, dal nome di un demone protettore, con vari personaggi mascherati, e vicende che tutti conoscono benissimo, essendo la trama sempre la stessa, ma di cui si valuta la bellezza della interpretazione (cosa di cui noi non siamo in grado di percepire alcunché). Fortunatamente ci danno un prospetto illustrativo in inglese per poter seguire lo svolgimento del dramma (in parte mimato), dato che tutta la componente cantata o parlata è in balinese.
La danza introduttiva si teneva nel cortile del palazzo per intrattenere i regnanti e la corte del regno di Gianyar con tre ballerine che mettono in scena la vicenda di re Lasem che si era invaghito della principessa Langke Sari e la voleva anche se lei era contraria, ma infine l’arrogante re cade in battaglia. Segue l’ingresso del protettore Barong e della scimmia sua dispettosa amica. Poi entrano dei danzatori uomini con una maschera bianca per cui non si sa se siano di così gran bellezza come appaiono o siano demoni, che fa simbolicamente riferimento alla tradizionale filosofia giava-balinese detta Rua Bineda (o Rwa Bhineda), cioè della duplicità, per cui ogni cosa ed evento ha sempre almeno due aspetti opposti compresenti. Seguono come dicevo 4 atti con personaggi e intreccio piuttosto complesso.
Eccoci dunque già subito entrati addentro alla tradizione culturale balinese, che è così particolare e ricca. Dopo lo spettacolo ceniamo proprio in Jalan Raya (che è la via principale) al “Coco bistrò” per 7€ a testa, molto bene. Annalisa prende uno snapper fish caramellato veramente fresco e delicato, e io fettuccine mie goreng, rendang daging, bruschette all’aglio, acqua grande e Sprite. Lì a fianco intanto uno si fa fare all’aperto -in pubblico- un massaggio alla schiena seduto su una speciale poltrona. Sul marciapiede due topi si rincorrono.

quarto giorno, sabato 7
Al mattino, a causa dello sballamento che ancora sento dei fusi orari, e del fatto che il fan, il ventilatore a soffitto, non funziona bene, esco alle 8 a fare un giro, ma trovo moltissimi negozi  ed esercizi ancora chiusi o che via via stanno lentamente aprendo solo verso le 9 (perché poi stanno aperti fino alle 21). Qui a Bali si devono lasciare le scarpe o gli infradito fuori dai negozi come pure dalle camere d’albergo, o dai ristoranti (ma oramai molti non sono più rigidi nel chiedere agli stranieri di rispettare questa usanza). Vedo che a Ubud (che è considerata un po’ come il capoluogo culturale dell’isola, ed è perciò una meta sempre più frequentata) ci sono in pratica quattro strade affollate: Jalan (che vuol dire via) Rayan, ovvero la strada principale, Main street, che va da est a ovest, e tre perpendicolari che scendono  da nord verso sud ad angolo retto, parallele tra loro, cioè jalan Hanoman (dove c’è la nostra homestay), jalan Wenara Wana, cioè la Monkey Forest Road, che è la più “famosa” e frequentata, con nella parte al centro un grande spiazzo per varie attività e in fondo l’ingresso al Parco forestale, e quindi jl. Bisma. Praticamente in queste quattro strade si trova la concentrazione dei negozi e ristoranti e agenzie più di qualità. Ma ora la tendenza è di una estensione e espansione sempre maggiore delle attività commerciali e turistiche con la dislocazione di numerosi alberghi e pensioni, e bar, e posti per mangiare sempre più all’esterno di questa area centrale.
Scendo, e infine giro a destra sino all’ingresso del parco con la riserva delle scimmie. A quest’ora ci sono ancora ben pochi turisti in giro. Ritorno e in quel momento una coppia di francesi sta partendo, quando poi usciamo io e Annalisa, li troviamo ancora lì sul marciapiede ad aspettare l’arrivo di un auto, ci informiamo e dicono che hanno trovato una guesthouse più in centro e che costa la metà (cioè 14€ a camera per due), allora ci invitano a salire sulla macchina che è finalmente venuta a prenderli, per andare anche noi a vedere. Si tratta della homestay “Rumah Roda”, in jl. Kajeng 24, ma non ci piace granché, ci pare un po’ sporca e trasandata, preferiamo restare dove siamo (oltretutto non ha stanze adatte per tre letti), e quindi ritorniamo a piedi.
Visitiamo meglio Ubud Palace, e dall’altra parte della strada il wantilan cioè la Hall, ovvero la sala di riunioni della comunità, e un grande tempio che c’è lì accanto, in cui come sempre si deve entrare con sarong.
Poi di fronte, dove c’è l’ufficio informazioni per turisti, il Tourist Kantor (era chiamata in olandese cantor la sede della “direzione” del calendario liturgico delle cerimonie), c’è una bella fontana, dove una ragazza russa ci chiede di farle una foto e ce ne fa poi una lei in cambio.
Le decorazioni dei palazzi e dei templi, e i bassorilievi mi ricordano molto lo stile maya del centramerica.
Panziamo al “café Angsa”, in Hanuman 43, dove si può stare anche semisdraiati su dei cuscini o materassini posti su dei rialzi in legno con tavolini bassi. Qui c’è l’attrazione della vista panoramica sulle risaie, con quel loro colore verde brillante, perché molti posti sono come dei rettangoli lunghi con l’ingresso sulla strada e con la vista sul retro, dato che subito poco all’interno, cioè dietro alla facciata lungo la strada, c’è già piena campagna.
Prendiamo del mie goreng, che sono noodles con verdure saltate, un nasi goreng che è riso fritto condito, delle crocchette di gambero, e due porzioni di spiedini di pollo in salsa di cocco, due dolcini, oltre a due coke, soda, e acqua, totale 16€.
Tornati “a casa” il padrone, cioè il capofamiglia Yandé Budiyasà mi saluta chiamandomi per nome, è qui (mentre di solito passa il suo tempo nel loro hotel) per stare con la famiglia, cioè la madre, la moglie, la zia, e i nipotini, ecc. dato che è sabato pomeriggio. Ci spiega che l’area domestica del compound è rivolta a nord-est ed è suddivisa a seconda dei punti cardinali. La cucina è a sud, e in centro stanno gli edifici per i riti famigliari. Nelle generazioni precedenti si dormiva sotto una tettoia senza pareti, aperta all’esterno (che è pur sempre dentro al muretto di cinta del compound), che sono state poi convertite in casette. I templi sono le costruzioni con le statue, o con i decori intarsiati. Poi ci dice che a Ubud ogni sera c’è una danza, per esempio domani da qualche parte c’è la danza kecak, mentre stasera c’è una rappresentazione del teatro delle ombre.
Andiamo a cena alla “sporca anatra”, Dirty Duck, o “Bebèk Bengil”. E’ stato dato questo nome al locale perché quando si era quasi al termine della costruzione ed era appena stata fatta la gettata di cemento delle piattaforme su cui innalzare le tettoie e metterci i tavoli, era una giornata di monsoni, e delle anatre della risaia sono passate sopra alla gettata lasciando le loro orme sporche di fango. Si attraversa la rigogliosa vegetazione per lungo tratto su un sentierino nel buio, appena illuminato da candele, e ai lati ci sono terrazze di legno o verande, con tavolini bassi e cuscinoni. Bello, molto suggestivo, ed elegante.
Prendiamo una soup, una porzione di anatra gialla, e due di pollo al lime, più il bere, 17€ in tre.
Al ritorno troviamo Yande con altri suoi famigliari e aiutanti, che se ne stanno a gambe incrociate su un lastrone di pietra levigata lucida, a giocare a carte. Gli uccelli di casa già dormono con la testina sotto l’ala (i due merli grossi, il pappagallo bianco, l’altro uccello pure bianco col becco lungo a punta, eccetera) nelle loro gabbie. Il merlo mi guarda e mi riconosce, ma solo apre e chiude il becco in silenzio facendo clak-clak. Una cicala che abita nel cespuglio davanti alla nostra veranda, non la smette mai nel buio di fare il suo ronzio tipo motorino a pieno volume… non riesco a prender sonno. Le verso tutto il contenuto della brocca del thé che era avanzato sul tavolino, e così dopo un po’ si zittisce.

Quinto giorno, domenica 8 mattina, a Ubud

Andiamo al central market (pasar), e troviamo da fare anche dei buoni acquisti, ad es. un copriletto che è una grande trapunta a patchwork con bei motivi, molto colorata e double face, una camicia rossa, una vestaglia, un coltellino, due lunghe camicione a mezze maniche. Ma ci sono molte altre cose belle di artigianato che vale la pena venire a guardare. Il mercato è in gran parte coperto in un edificio con pianoterra e due piani.
Poi andiamo a vedere il tempio a Saraswati, con davanti uno stagno, e lì, stanchi per il gran caldo di mezzogiorno, ci rifugiamo al bel café Lotus, così chiamato perché dà proprio sull’invaso d’acqua con tanti fiori di loto, e dai tavolini sotto la tettoia si sta ad ammirare la facciata del bel tempio della dea delle conoscenze, delle arti, del sapere e dell’apprendimento.
C’è ombra e arietta, ed è gradevole tirare in lungo, così finisce che restiamo lì un sacco di tempo, fino alle tre e mezza. Intanto osservo che ci sono ben 14 camerieri/e che ad un certo punto cambiano per il turno. Innanzi tutto prendiamo da bere, due acque e due bibite. Quindi nel corso del tempo prendiamo: bakso ikan, che sono delle polpette di pesce in brodo, lemper, del pollo con riso compatto (cioè senza scolare l’amido), una terrina col salmone, lotus Club, cioè un grande sandwich, un piatto di pasta con feta, e infine un pancake, e un piatto di frutta tropicale a fettine, e alla fine sono 8€ a testa.

Può incuriosire riportare almeno parte del ricco menù:
Antipasti (appetizers, cioè stuzzichini)
Lemper = chiken with sticky rice
Sambal Udang = chili prawns
Pepes Ikan =fish cooked in banana leaf
Tumis Terung =sauteed eggplants
Tahu Bergedel = fried tofu cakes
Rujaek =pickled fruit balinese style
Piatti principali (main courses, cioè secondi)
Soto Ayam = chiken soup con vermicelli di riso e uovo
Bakso Ikan =palline di pasta di pesce in brodo di pesce con pomodoro, carote e sedano
Tomyam goong =little spicy thai soup with prawns, mushrooms and lemon grass
Nasi Goreng =fried rice with shrimps, chicken, sauté vegetables, fried egg, sambal, krupuk
Mie Goreng =fried noodles con lo stesso condimento di cui sopra
Bebék Betutu =Bali half duck pasted in fragrant herbs wrapped in Areka palm leaf, cooked underground for 20 hours, served with Paku Sayur and Sayur Urap (spezie balinesi)
Contorni (sides)
Sambal =salsa di pesce con pomodori e aglio, e chili
Kang Kung =spinaci d’acqua (cioè alghe) con pasta di gamberi, peperoni e olio di sesamo
Sayur Lodeh =verdure cucinate in latte di cocco
Acar =pickled carrots and cucumber (cetriolo)
Dolci (sweets)
Frutta fresca tropicale, con zucchero di palma e polpa di cocco grattugiata
Pisang Goreng =fried banana with palm sugar and grated coconut
Lime coconut tartelette
Fragole fresche di Bedgall
Strawberry tartelette with mandarine orange
Ice cream, rhum and raisins
sorbetto di mango
e per “Chokolatumaniacs”: Flowerless chocolate cake, o Warm chocolate tartelette strawberry glace,
o un bicchierino di Brem, il “vino” balinese di riso.

Ora provate a fare la vostra ordinazione, che cosa chiedereste?

5° giorno: domenica 8 pomeriggio

Torniamo a piedi, e incontriamo gente del banjar (quartiere) che vicino a dei templi stanno preparando l’occorrente per una festa o una cerimonia. Si tratta prevalentemente dei piccoli cestini di foglia di palma per le offerte, o di oggettini fatti in paglia, raffia, palma, foglie o canne, o rattan, per addobbi.
Sono tutti impegnatissimi, e la produzione durerà per molte ore. Gli uomini fanno certi oggetti e le donne altri, e comunque stanno in posti differenti.
Poi andiamo sulla parte ovest di jalan Raya al museo Puri Lukisan. Dentro c’è un parco bellissimo, stagni pieni di fior di loto, e tre grandi padiglioni espositivi. Ci sono dei bellissimi quadri che più che altro sono illustrazioni di noti episodi delle leggende e miti balinesi o di Giava; la gran parte appartengono all’epoca del rinnovamento figurativo degli anni Trenta/Cinquanta del Novecento. Mi colpiscono le descrizioni in inglese del contenuto, che il Museo ha affiancato ai quadri stessi per far comprendere ad un visitatore (straniero) di che cosa si tratta.
Uno raffigura la storia in cui si racconta che Sutasoma, incarnazione di Buddha, stava meditando nella foresta, quando lo vede una tigre-madre affamata che lo assalta all’improvviso, lui non oppone resistenza e si offre alla bestia. Ma dispiaciuto, il supremo Indra lo riporta in vita, dopo di ché poi tutte le creature proteggono Sutasoma, che può riprendere la sua meditazione (quadro del 1934). In un’altro si raffigura la storia di Amad che aveva tre oggetti magici: una lancia che ritorna a lui dopo aver colpito l’obiettivo, una borsa sempre piena di cibi, e una mantella che gli consente di fuggire in volo. Ma la principessa Beregedab invidiosa glieli ruba mentre lui si addormenta (quadro del 1937).
Intanto da dietro a un quadro spunta il più grande geko che avessi mai potuto immaginarmi, che poi fugge nel suo nascondiglio.
“The lying heron and the clever crab”, illustra una favola contenuta nel libro mistico Tantri Kamandaka in cui si narra che l’arrogante Pedanda si atteggiava come un sacerdote, pur essendo in realtà un pigro airone. Mentre diceva ai pesci che lo stagno stava per venire prosciugato, e prometteva loro di aiutarli e portarli lontano, in realtà appena uno usciva se lo mangiava. Un granchio lo scopre e lo uccide tagliando la testa dell’airone con la sua chela a tenaglia (1940). Nell’antico testo Uttarakanda, si dice che mentre Hanuman cercava Anjani, altri portavano frutta matura in regalo, e qui la scena diventa una rappresentazione di angeli che si prendono cura di una madre mentre allatta (1936). E così via, si tratta di soggetti ben noti a tutti, che ispirano al pittore rappresentazioni fantastiche o allegoriche, e gli autori si esprimono in stili figurativi che forse a noi appaiono tradizionali ma che invece pur in stile locale sono innovativi sia nei contenuti che nella libertà di illustrarli secondo la propria creatività.
Sono riuscito a fotografarne solo uno, un acquarello su carta del 1956, sul serpente Lasso, opera di Ida Bagus Anom, di Ubud. Nel Ramayana si tratta lungamente la vicenda del re Rawana che rapisce la bella Sita, moglie di Rama, e la nasconde in una isola lontana. Il generale delle scimmie, il divino Hanuman viene inviato  a recuperarla, ma è catturato dalle spire di Lasso. Il principe Meganada, figlio primogenito di Rawana e grande devoto di Indra (il signore degli dèi, dio della folgore, dio guerriero di giustizia), lo colpisce e libera Hanuman (che in questo caso mi appare somigliante all’immagine di Lacoonte).
Grande storia epica delle battaglie tra la giustizia e l’ingiustizia, che culminano nel “salvare” la bella Elena prigioniera, cioè Sita.
D’altronde anche da noi per secoli le opere d’arte ritraevano quasi solo scene di storia sacra e immagini di valore e contenuto religioso, o poi dall’umanesimo anche scene da miti e leggende profane… con episodi e personaggi universalmente noti.
Torniamo nel calmo e gradevole parco. In lontananza si sente una musica dolce. Così restiamo a lungo seduti in silenzio su dei gradini ad ascoltare dei camerieri che avendo terminato il loro lavoro (è già l’ora della chiusura) si mettono a fare prove di gamelan, e sono proprio bravi. Pensare che questa musica è tutta tramandata a memoria, in un contesto di cultura orale, ci sono solo alcuni antichi testi con dei vaghi canovacci che sono essenzialmente dei promemoria per chi già conoscesse di cosa si trattava (testi che sino a non molti anni fa erano quasi del tutto sconosciuti ai più, e spesso non si sapevano decifrare).
Il museo fu fondato grazie allo stimolo del pittore olandese Rudolf Bonnet che dal 1929 passò gran parte della sua vita a Bali, ad Ubud. La progettazione del museo aveva come primo scopo quello di impedire che le opere di arte balinese tradizionale finissero tutte all’estero comprate da collezionisti. Bonnet assieme all’amico tedesco Walter Spies, e ad altri intellettuali occidentali estimatori dell’arte balinese, stimolarono gli artisti locali a sperimentare nuovi stili, e contenuti, ed è proprio da questo incontro che poi sorsero i numerosi paesaggi, le scene di vita quotidiana dei villaggi, i ritratti, dipinti da pittori balinesi, che oggi si trovano riprodotti in tanti negozi.
Vediamo che ci sono dei bar giù sul lungo fiume Campuhan, ma non abbiamo voglia di fare altri scalini. Infine andiamo a sederci all’ombra al caffé “Casa Luna” con vista sulla ricca vegetazione retrostante. Stiamo vicini alla balaustra delle terrazza, sotto c’è un altro piano con il posto per una piccola orchestra jazz. Prendiamo un aperitivo analcolico, un frullato di latte e cacao, e una preparazione salutistica di carote e spinaci centrifugati. Intanto che beviamo esaminiamo il menu molto elaborato e ricco di piatti di cucina internazionale, fusion e nouvelle cuisine. A Ubud ci sono dei locali proprio raffinati (rispetto ad altri paesi asiatici). La serata è tutta dedicata alla musica jazz dal vivo, con Nancy (brava cantante) e Ilko Fauzy. Giunta l’ora di cena prendiamo una soup, un guacamole, e un potato cake con feta e insalata. (alla fine aperitivi e bevande incluse saranno circa 8€ a testa).
Qui a Ubud non c’è certo bisogno di fare scorte di fazzoletti, o tovagliolini di carta, né di carta igienica, si trovano facilmente. I bagni sono sempre puliti.
Anche i taxi si trovano molto facilmente e costano mediamente 40mila, cioè 2€ e 60 per un qualsiasi percorso urbano. Si vedono persone e coppie assai miste o di varie origini. Anche qui a Casa Luna chiacchieriamo con una giovane coppia con un bimbo di due anni e mezzo, lei è una francese di origine italiana, e lui uno scozzese australiano, che hanno vissuto a Ginevra e a Zurigo in Svizzera, ora sono qui per un po’ per non ricordo quale attività, poi torneranno a vivere a Melbourne. Il bimbetto è già bilingue inglese-francese. Restiamo qui per tre ore a goderci la serata jazz.

SESTO GIORNO, lunedì 9 (villaggi nei dintorni di Ubud)

  

Non abbiamo finora mai sentito la necessità di accendere il ventilatore (che funziona male). Sempre qui si lasciano le scarpe all’ingresso, il concetto è di non portare terra e sporcizia nell’area privata e della vita domestica. Quindi anche la veranda, ovvero la parte sottotetto prima della porta, è area domestica o privata. Anche nei bar e ristoranti, prima di sederti nelle piattaforme rialzate con i tavolini bassi e cuscini devi stare a piedi nudi (oltre che prima di entrare nell’area di un tempio, essendo consacrata). Anche se è pur vero che oramai tutti i ristoranti e ristorantini hanno una gran parte con le sedie e si può andare a tavola con le scarpe. Ma in effetti siccome spazzano e lavano il suolo o il pavimento di piastrelle, non avrebbe senso tenere le scarpe, anzi è anche gradevole con il caldo che fa, stare a piedi nudi sul pavimento fresco.
Stamane viene a parlarci un driver, un autista, per combinare per fare una gita. Lui di solito ha una clientela di turisti asiatici, e gli fa piacere questa volta accompagnare degli italiani. L’avevo trovato in internet (balibestways.blogspot.com) e ci eravamo scritti per mail. L’autista si chiama Madé Chandra. Combiniamo per 18/19€uro per tutta la giornata. Partiamo alle 10 e mezza.
Attraverso stradine passiamo per una bella campagna ordinata e abbastanza pulita. Ci sono tante casette in muratura, e dalle parti di Mas ci sono innumerevoli botteghe di artigiani del legno, cioè di ebano, mogano, sandalo, ibisco e il cosiddetto crocodile. Fanno statue e statuette di Si-wà (=Shiva), Ga-ne-sà (=Ganesh), eccetera (non riescono a pronunciare sc, sh, né la j francese, e dicono s). Certi sono lavori straordinari per bellezza e complessità. I pezzi per il mercato interno li colorano vistosamente (anche qui mi vengono alla mente le statue dell’antica grecia).
Vediamo varie Sale della comunità del banjar, dove si tengono riunioni una volta al mese, e si svolgono discussioni che si estendono su ore e ore, riguardo a questioni riguardanti  opere comuni, i finanziamenti, l’organizzazione delle cerimonie, il mantenimento e il restauro di templi, e l’organizzazione dei lavori connessi. Anche le donne si riuniscono ma in altre date o orari.
Ci soffermiamo a vedere il lavoro di una contadina, cui poi diamo un piccolo aiutino. Poi veniamo fermati da una bimba che ci propone degli oggettini e anche a lei diamo qualcosa.
Andiamo a vedere la cascata di Air Terjun. Per andare ad un punto da cui si gode una bella vista dobbiamo pagare un biglietto (!!!!!?), cioè una specie di tassa di soggiorno al villaggio di Tegenungan, di 5mila rupie (un terzo di €uro). Comunque è molto bello il paesaggio…
Andiamo a vedere il Pura Puseh, il tempio ombelico, cioè il tempio dedicato al Creatore, e ai fondatori del villaggio. In ogni paese e anche in ogni recinto (o lotto) famigliare c’è questo tempio, che serve anche come dimora per gli dei e gli spiriti quando scendono sulla terra, e subito fuori dal paese nella direzione della costa, il tempio pura dalem, che è il santuario dei morti, sotto l’egida di Durga dea degli inferi. Inoltre c’è il tempio del villaggio, pura desa, dove si tengono le cerimonie e si raduna la comunità.
Quindi ci fermiamo a pranzo a Kemenuh, nel Warung “Dewa Malen” dove c’è Kho Ob Saparot, del riso thai saltato in padella, Goi Cuon, degli involtini primavera di verdure fresche, Gung Kratiem, gamberetti di fiume fritti, bebek goreng, anatra croccante, bebek betutu, del pesce Ikan goreng, Tom Yam Goong, e succhi di frutta fresca, pura spremuta senza aggiunta di acqua né zucchero (lime, mint-lemon, orange, mango, strawberry, e tangerine). E’ un posto all’aperto sotto una tettoia alta, che da sulle risaie e il palmeto. Bello sfondo paesaggistico. C’è come sempre una musichetta di sottofondo tipo nenia col flauto, ripetitiva. Le cameriere sono ragazze giovani e snelle, ma piccoline, minute. Noi prendiamo bakmi goreng, cioè fried noodles with veg. and chiken con un fried egg; Gado-gado, cioè verdure miste bollite col curd, fagiolini, formaggio di soya, fette di tempeh, servito con riso al vapore e il tutto con sopra una salsa o crema di peanuts, noccioline, dolciastra-salata; pepes Ikan, cioè pesce cotto al vapore in una foglia di banana con verdure; un pancake mikado, e un ice cream tempura, cioè fritto e con salsina di prugne; due coche e una bottiglia grande d’acqua, per 26€ in tre.
Impariamo che Tegenuman vuol dire grazie.

Poi andiamo a Sukawati dove fanno gli ombrellini per le cerimonie, e per i templi; e dopo alla ricerca di una bottega dove si producono i puppets, le marionette per il teatro delle ombre, in pelle di bufalo seccata e ritagliata e dipinta, con i forellini per far passare la luce, e i burattini di legno.
Poi a Batuan village, dove Walter Spies negli anni trenta aiutò a fondare la prima scuola di pittura in cui si dipingevano soggetti profani. In questo paese si formano anche le danzatrici di Legong. Qui visitiamo un negozio di quadri che si trova dentro il compound, il lotto domestico, dello stesso autore, che è poi una sorta di atelier con i suoi vari collaboratori che copiano e ricopiano i suoi numerosi quadri. Ma sono tutti cari, andiamo a vederne un altro a Peliatan, vicino al locale Kantor, piuttosto vasto, con alcune opere che sono davvero belle.
A questo punto ripartiamo per visitare la famosa Goa Gajah, cioè la grotta dell’elefante, vicino a Bedulu. Si scendono alcune decine di lunghi gradini, e giù sul fondo valle c’è uno spiazzo davanti alla parete di roccia della collina dove c’è una apertura scavata, e con i bordi dell’ingresso ornati con figure in bassorilievi scolpiti, da lì con una stretta galleria oscura si arriva ad una nicchia con Ganesà e un’altra con tre lingam addobbati, di Siwà.
Nella grotta c’è una bimba che prega intensamente e che poi rivedremo fuori che farà le solite piccole offerte di cereali e frutta.
Il sito era stato nel tempo abbandonato e si era ricoperto di terra e vegetazione, sinché non fu riscoperto nel 1923, gli scavi procedettero nel 1954 portando alla luce un bacino sacro e vari piccoli tempietti e padiglioni. Da qui poi volendo si potrebbe proseguire sul fondo valle lungo un sentiero nella fitta vegetazione sino ad un paio di statue di Buddha, anch’esse riportate alla luce da non molto.
Ritorniamo su un po’ a fatica e poi riprendiamo ad attraversare la campagna per andare a vedere altri centri di artigiani. Le piante che si vedono sono a volte strane ma sempre belle.
Vediamo laboratori di monili in argento, e diversi negozi che vendono grandi aquiloni dai colori sgargianti, a forma di uccelli. Dopo averci fatto un po’ di domande Madé Chandra ha capito molto bene che cos’è che ci interessa di più, e quindi ci porta a fare visita ad una famiglia di contadini che lui conosce e che vendono anche del caffé balinese. Entriamo nel compound, la nonna era a torso nudo, con costole evidenti e lunghi seni flosci. Ci diceva una francese con cui avevamo chiacchierato, che quando venne la prima volta a Bali circa trent’anni fa ancora nelle campagne e nei villaggi le contadine stavano a seno scoperto come si vede nei quadri dei pittori, o nelle vecchie foto d’epoca (d’altronde anche noi nel nord dell’India nel 1978 vedemmo alcune contadine così nell’Uttar Pradesh).
Comunque ci fa una certa impressione, la sorpresa è stata evidentemente reciproca, perché erano a casa loro, stavano riposando e non si aspettavano visite. Infatti dicono che oramai a quest’ora non possono più vendere i sacchetti di caffé, ma gentilmente aggiungono di dare pure una occhiata attorno.
E’ stata per noi una occasione per vedere una vera situazione domestica di gente di campagna. La disposizione degli spazi è come negli altri aggregati famigliari, solo più semplice.
Ecco le confezioni di Kopi Luwak, cioè di quel particolare caffé che è mangime per le manguste locali, chiamato in inglese Peaberry coffee, o civet coffee, sono cioè i chicchi ruminati dallo zibetto delle palme, Asian Palm Civet (Paradoxorus hermaphroditus), e poi tostati, che prendono un particolarissimo sapore.
Ci offriamo comunque di acquistare un paio di confezioni, ma siccome dicono che loro possono tenere aperto lo spaccio solo al mattino, ringraziamo molto, e lasciamo comunque un obolo per il disturbo, e ce ne andiamo.
Riprendiamo a girare i villaggi e le strade di campagna. I ragazzini sono già tornati a casa dalle scuole e giocano per le strade o si ritrovano a chiacchierare.
Girando per stradine non potevamo non incontrare una qualche cerimonia, e in effetti passiamo a lato di una gran riunione famigliare (o di un clan di parentado), tutti vestiti per la festa.
Infine a Lodtunduh visitiamo nel banjar di Kling-kung un cosiddetto agriturismo che è in effetti una piantagione e orto botanico di alberi e piante per raccoglierne le spezie. Si chiama Teba Sari, e tengono anche degli zibetti e manguste, per dare loro i chicchi di Kopi Bali, in modo poi da raccoglierli di nuovo tra i loro escrementi dopo che sono passati attraverso il loro apparato digerente, e vendere il Luwak, o come viene anche soprannominato, poo-poo coffee (ovvero un caffé di merda…).
Poi compriamo del thé, del kopi Bali, degli infusi aromatici, e un balsamo. Annalisa scivola, cade e batte un colpo forte contro lo spigolo del gradone, per cui si fa male all’osso della gamba. Ci fermiamo un po’, ci sediamo e ci beviamo una buona tisana.
Riprendiamo la strada e poi ci soffermiamo ad ammirare delle belle risaie.
Torniamo a Ubud e ci mettiamo in veranda a scrivere e leggere. Ancora mi sorprendo ad avere i sassi in bagno… Intanto si sente lontana una musica di gamelan, forse c’è un raduno in un cortile vicino.
Per cena andiamo in un posto carino conforme al cosiddetto Ubud spirit, restando in Hanoman, per non far camminare troppo Annalisa. Si tratta del bar ristoranti “Kafe”, dove c’è una atmosfera simpatica, una scelta anche di piatti internazionali, tanti sandwich e insalatone, è proprio mirato per un pubblico di giovani occidentali. Buona musica, personale al solito gentilissimo e disponibile, io prendo Large indian plate, un piatto con dhal, melanzane, spinaci e panir, Annalisa un roasted butterfish con contorno di lenticchie, Ghi tortilla chips, e tuna sandwich; per finire un apple pie, e una spremuta di arance, e naturalmente tre bottiglie d’acqua. Tot. 8€ a testa.
Al ritorno è buio, tutto è chiuso, le pensioni o alberghi, o guest houses, in genere non danno sulla strada (dove ci sono più che altro negozi), ma si raggiungono tramite i gang, cioè attraverso violetti stretti stretti come budelli tra i muri dei compounds famigliari.
C’è una falce di luna e una stellina molto molto luminosa.
C’è uno scarafaggio grosso sotto alla porta del nostro bagno, forse viveva sotto i sassi. Domani Annalisa comprerà un bello spray anti-insetti.
Bella giornata intensa, crolliamo addormentati.

7° GIORNO, martedì 10 settembre

Andiamo con Made a fare un giro per i dintorni, prendiamo una bella stradina un po’ tortuosa in salita, ma molto panoramica attraverso una bella foresta. E’ una strada secondaria che è più lunga ma che è sicuramente più bella con pochissimo traffico, e bei villaggi. Da una terrazza panoramica si ha una magnifica vista sulla valle di risaie e di terrazzamenti (non c’è da pagare nessun ticket…).
Quindi arriviamo in una mezz’oretta a Tampaksiring dove andiamo a vedere la fonte delle acque sacre di Tirta Empul (ingresso 1€uro). Molti pellegrini vengono qui a purificarsi in questo antico luogo e in questi templi, edificati nel 962, dedicati al dio Indra, che si accomoderà -quando viene in visita in terra- sul trono che sta sulla scultura della tartaruga Bedawang. Ci sarà una grande cerimonia fra una decina di giorni, per il plenilunio, ma noi saremo altrove.
E’ un insieme di templi e si attraversano vari cortili per giungere alle bocche della fonte. Qui troviamo molti turisti, alcuni dei quali si immergono anch’essi nelle acque.
E’ anche questa una manifestazione del sacro, con le sue modalità di esprimere il sentimento del divino.
(Qui il primo presidente, il padre della repubblica dell’Indonesia, Sukarno, si fece erigere nel 1954 un palazzo estivo, che ora è in disuso e disfacimento.)
C’è un grande vecchio banyano molto venerato anch’esso. Ci sono turisti asiatici, russi, di tutto il mondo in questo luogo troppo piccolo e ristretto, e il numero eccessivo disturba la quiete del luogo. Ma… anche noi oggi siamo tra quelli…
Poi proseguiamo per una stradina in ripida salita, e vediamo i bimbi che escono da scuola e quelli che vanno per il turno successivo. In genere nei villaggi di campagna si trovano solo scuole primarie, le secondarie inferiori nei borghi e cittadine, mentre quelle superiori nelle grandi città come Denpasar o Singaraja.
Salendo da Tirta Empul a Penelokan, si vedono tanti aranci e altri alberi da frutta. Giunti sulla cresta al bordo dell’antica caldera del vulcano ora spento, si gode di una vista formidabile. Ci fermiamo vicino a Kintamani, per un lunch a buffet, con prezzo fisso, “Batir Sari”, che ha una balconata proprio sullo strapiombo e si appoggia il vassoio sul davanzale e si mangia guardando giù… è un panorama vastissimo e meraviglioso, con la cima del vulcano e sotto sul grande lago. Che spettacolo ammaliante e potente, restiamo incantati, non si riescono a togliere gli occhi da quel panorama.
Al buffet incontriamo un’italiana, che subito mi dice “sei italiano?? meno male!!” e le chiedo “cioè? in che senso meno male?” ma lei scompare dopo poco. Spendiamo quasi 27€ in tre. Poi avremo alcune vicende non simpatiche per andare alla toilette.
Ci sono molti campi di caffé “kopi Bali” e del “Luwak”. Poi ritorniamo giù, scendendo per una strada di campagna anziché la strada provinciale.
Vediamo gente che si reca a una cerimonia, ci sono alcune anziane col turbante bianco che vanno verso il Pura Desa, il tempio di villaggio.
Nei tempietti domestici c’è sempre una parte dedicata agli dei, come Siwà, Indra, Ganesa ecc., una per i defunti, e una per gli spiriti della natura, tipo il fiume, il riso, il vulcano, per cui ciascuna costruzione ha la sua funzione. Inoltre ci sono i campi pieni dei fiori chiamati “mee tirr”, sono un po’ tipo dalie e sono sacri a Durga, per cui non possono venir offerti in un tempio dei morti Pura dalem (lo stesso dicasi per un tipo di banana). Non è facile ricevere queste informazioni, perché quando si chiedono spiegazioni, ci si scontra con la presunzione che tutte le cose che sono comuni, diffuse, per loro sono del tutto normali, e non pensano che per noi molte di quelle cose siano un po’ strane e necessitino di una spiegazione. Comunque spesso non ci si intende bene, e non solo per la loro pronuncia dell’inglese (e la nostra pronuncia strana per loro), ma per una questione di mentalità e di cultura. Ad esempio bisogna considerare che per loro Dio è uno, ma con molte variate manifestazioni.
Ma soprattutto è la pronuncia che genera pasticci e fraintendimenti. Ad es. diciamo a colazione, “bring me a bottle of water, but remember no butter on the toast”, e per loro è difficile distinguere tra bottle e butter, e per noi pure con la loro pronuncia… per cui p.es. il cameriere richiede per chiarezza “do you want buttel?” e siccome ci siamo abituati che molti non sanno dire la erre, che pronunciano elle, allora noi rispondiamo “no, I do not want butter”, così porta dei toast imburrati e non porta l’acqua. Oppure per es. portandoci il conto ci chiede “d’you want a copi?” e noi rispondiamo, no non importa, the bill is enough, così alla fine non ci porterà il caffé. O semplicemente facciamo fatica a capire il commento quando attraversiamo una zona con diverse belle villette, e l’autista ci dice “few fila!”, e magari considerando che non sanno dire la v e la pronunciano effe (per cui le prime volte in cui capitava di parlare di gente della vicina Giava, che vengono a Bali per il weekend, e loro dicevano che è gente di Jaffa, noi faticavamo a capire), allora in questo caso pensiamo che forse lui voleva dire che se guardi bene non sono poi tante… o invece voleva dire “view villa”, guarda quella villa….
Ma invece ad es. loro dicono a-ah! per dire ecco!, hai visto? e dicono yes per conferma di quello che dici, per cui se io chiedo “per ritornare al parcheggio non devo prendere quel sentiero vero?” e loro rispondono yes, vuol dire, sì è così come dici, e quindi non devi prendere quel sentiero.
Ci sono vicino a Ubud delle bellissime stradine periferiche. A volte si incontrano operai che lavorano alla strada, ma è gente del quartiere (del banjar) che si sono messi d’accordo per rifare un pezzo della strada.
Torniamo alla nostra homestay, e io subito esco a fare un giro finché c’è ancora luce. Vado a destra e verso giù, ma al bivio giro a sinistra e poi ancora a sinistra. I marciapiedi sono molto alti, spesso rotti, o con gran buche, e bisogna evitare le grate, inoltre ogni momento c’è un passo carrabile per cui camminando sul marciapiede devi fare continuamente su e giù. Questa zona finalmente è meno frequentata da turisti rispetto alla monkey forest road, o a Hanuman rd. C’è sempre un gran viavai di moto, scooter, motorini e motorette (che sono i sostituti odierni delle biciclette che oramai sono pochissime). Si vede bene che c’è molta gente che fa fatica a tirare avanti ed è più visibile la povertà in queste strade rispetto a quelle di interesse turistico. Anche se sono pochi quelli che si azzardano a venire in centro a chiedere elemosina, ricordo solo alcune giovani madri con bimbi piccoli. Annalisa e anch’io diamo spesso qualche aiutino, o articoli alimentari, o giochini. Generalmente dagli stranieri questi questuanti vengono ignorati, o visti con fastidio, la gente di solito rifiuta loro persino un piccolo obolo.
Consiglierei a chi può di affittarsi una bici o meglio uno scooter, o di mettersi in cammino, e andare a gironzolare e a curiosare nei paesini, nelle frazioni, o semplicemente nei “retri” delle strade affollate, o a dare un’occhiata a certi punti di ristoro o da mangiare per lavoratori balinesi, cioè con gente che non ha a che fare col turismo e il suo indotto.
Ritiriamo tutta la roba di tutti e tre, che avevamo dato alla Laundry in jalan Bisma da lavare e stirare dopo una settimana, e il totale è di 3€.
Alle sera, dopo la consueta chiacchierata via Skype con casa, per cena andiamo verso il bivio e teniamo la sinistra. Ci sono diversi bei locali attraenti e anche messi con molto buon gusto dal punto di vista estetico. Dopo qualche confronto, scegliamo il warung “Siam Sally” che ha anche piatti thai. Inoltre l’altra sera ci era piaciuto che ci fosse live music, e qui al martedì sera c’è un complessino, il Kawitana, che suona dal vivo R&B e la cantante pur essendo al solito minuta e magrolina ha una gran voce con un bel timbro, e anche il suo socio cantante dopo un po’ che gli si è scaldata e schiarita la gola è abbastanza bravo. Si crea una atmosfera piacevole, e il ritmo è trascinante, per cui dopo un po’ a molte clienti ai tavoli viene voglia di ballare e un animatore le sollecita a venire nello spazio centrale, così anche se gli uomini che osano sono solo due, lo spettacolo diventano le persone che ballano e certe sono proprio brave e si esibiscono spontaneamente in mossette e movimenti da guardare. Ci tratteniamo a lungo proprio per il clima simpatico. Intanto Ghila si mette a chiacchierare con una cameriera, si chiama Are, ha 23 anni è sposata e ha una bimba di 7 mesi, è carina, gentile, dolce, si intrattiene un po’ con noi.
Intanto così anche questa sera la passiamo gradevolmente con musica dal vivo. Il conto è di 11€ a testa. Come ci avvisava qualcuno, qui dicono sempre i prezzi al netto, poi devi sempre aspettarti il conto finale in cui si aggiungono le tasse (in media circa il 10%), il servizio (circa 5%), ed eventuale supplemento se paghi con carta di credito (tra il 2 e il 3 %), che si esprime per scritto con + + + a voce: plus, plus, plus (in tot. tra il 17 e il 20 %).
Al ritorno alle 11 è tutto buio, i negozi sono tutti chiusi, e non passa quasi nessuno in strada.

Ottavo Giorno, mercoledì 11

Così dunque abbiamo visitato un po’ il territorio della “reggenza” di Gianyar. Quando gli olandesi conquistarono Bali, l’isola era suddivisa tra vari regnetti e principati locali, i cui sovrani furono privati del potere, ma si mantennero le suddivisioni del territorio che c’erano prima, per questo ancora oggi si chiamano con la denominazione di regency, e sono come dei dipartimenti della Provincia balinese. Questo territorio è lungo e stretto e va dalle colline alla costa, è di 370 kmq ed ha una popolazione di più di 480 mila abitanti (di cui 469mila di religione hindu-balinese); fin dal periodo detto Majapahit (dal 1343), sino al periodo coloniale, terminato nel 1949, è stato uno dei maggiori centri propulsori della cultura, delle arti e artigianato di tutta l’isola. La città principale oggi è Ubud, che ha 69mila residenti permanenti, ma anche un gran numero di “residenti temporanei” che sono gli stranieri che abitano qui e che hanno aperto varie attività commerciali (tra cui molti europei, e anche qualche italiano, che magari ha sposato una balinese), nonché un gran numero di turisti che soggiornano per brevi o anche lunghi periodi di tempo.
Al mattino presto mi svegliano i gran cinguettii degli uccelli, ognuno col suo richiamo; ce ne sono due in particolare che fanno un verso stranissimo… ad un certo punto è tutto un coro assai affollato.
I bambini vanno a scuola e intanto che si preparano ce n’è sempre uno che gioca un po’ con le sue automobiline.
Il ragazzino che ci porta la colazione dimostrerebbe 13 anni, e invece ne ha 21! Si chiama Putu (che vorrebbe dire “il primo”) Atì. Non sa che solo alcune pochissime parole in inglese.
Le giovani adulte già si dispongono sulla piattaforma a tagliare e sagomare e intrecciare foglie di palma per farne dei piccoli cestini in cui mettere le offerte.
Queste pensioni famigliari si chiamano homestay in inglese, e in balinese losmén, che deriva dall’inglese lodgement (alloggio). Sono più economiche degli alberghi, e rispetto a una guest house c’è il fatto che si sta proprio dove vive la famiglia che ospita, a contatto con loro. Stando dieci giorni oramai conosciamo tutti, e tanti anche dei negozi della strada ci salutano.
Oggi andiamo a farci fare dei massaggi balinesi full body della durata di un’ora (8€), alla Spa di proprietà di Yandé. A me e a Ghila sono molto piaciuti, mentre Annalisa riceve un tipo di trattamento che non era quello che aveva richiesto (i soliti problemi di comunicazione).
Nell’attesa vediamo che la laundry cui abbiamo dato la nostra roba da lavare, ha sede proprio qui. Per cui incontriamo i giovani della homestay che ci salutano cordialmente. La prima volta, avevamo molta roba, e avevamo speso 3€ e 30, e poi questa seconda volta 2€ e 30 in totale (inclusi plus plus).
Poi andiamo per il lunch da “Nomad” sulla main road jalan Raya. Ghila e Annalisa prendono degli stuzzichini, o assaggini, che sono ben 12 in cestini di foglia, è divertente, e abbondante. Mentre io prendo dei noodles fatti a mano con salsina al vino e foglie intere di spinaci. Con acqua e cola e plus plus sono circa 5€ a testa.
Passeggiamo giù lungo tutta la jalan Hanuman, si incrociano personaggi interessanti e ci sono vari bei negozietti con belle cose ben presentate, e anche alcuni negozi di ottima qualità.
Poi passiamo il resto del tempo nella nostra veranda. Ogni tanto si sentono dei canti lontani.
Oggi la madre aveva delle visite, due signore vestite eleganti che sono venute a trovarla e sono rimaste a lungo a chiacchierare nella loro veranda dove hanno anche dei divani. Mentre i nipotini non hanno disturbato con i loro soliti giocattoli (più che altro due o tre camion di plastica) o i loro giochi all’aperto.
Alla sera per cena restiamo nella Hanuman e andiamo da “Kebùn”, dove prendo del pesce sea bass, veramente molto buono (come già lo erano stati i butterfish e lo snapper che avevo mangiato nei giorni scorsi). Poi prendiamo arancini di riso, pasta al pomodoro, salmone gravlan, acque e bibite, in tot. 20€ in tre.
Quando ritorniamo (sotto la pioggia) troviamo al solitoYandé a giocare a carte con i suoi aiutanti-parenti sotto la tettoia.
Il taxi costa sempre due euro e mezzo, e ogni volta in realtà si tratta di autisti con la loro auto, non di taxi ufficiali; gli autisti intanto si offrono per portarti a fare giri e escursioni, e ti danno il loro biglietto da visita. Ne ho ancora un buon numero: I Nengah Ariata, Madé Oka, Putu Dirga, I Wayan Chris, Madé Nitia, e il buffo I Wayan Sukarinu. Come si vede ricorrono un po’ sempre gli stessi nomi.
I neonati vengono chiamati a seconda dell’ordine di nascita, quindi primo, secondo, ecc. cioè
Wayan o Putu (Pudu, Putuh), per il 1°; Made (o Kadèk, o Nengah) per il 2°; Nyomàn o Komang il terzo; il quarto Ketùt (Ktut, Tut); dopo di che si ricomincia. Per differenziare, i maschi mettono una I davanti e le femmine Ny o Ni. Quello che serve a non fare confusione è, oltre al cognome di famiglia, un secondo nome o un appellativo, un soprannome.

Nono giorno: Giovedì 12
Tutta la notte e la mattina continua a piovere. Ieri sera non ho trovato Made per cellulare, forse è diversamente impegnato. Stiamo progettando il seguito del viaggio, pensiamo di andare verso est. Siccome continua a piovere andiamo in un museo, quello di Don Blanco, pittore “alla Dalì” che dalle native Filippine si trasferì qui a Ubud, dove fece costruire con un forte senso di grandeur, una villona un po’ liberty, sontuosa, cui sono annesse costruzioni in stile balinese e un tempio famigliare con pagoda. Ma anche un negozio e un bar-ristorante. E’ un po’ fuori, a Campuhan. Il museo (che si chiama Renaissance Museum) contiene i suoi quadri, gli oggetti collezionati, i suoi libri, le foto, le poesie, i ritratti e le foto di tutte le sue donne. Attraversato un magnifico giardino con piante locali e rare, molti pappagalli, un tucano, e vari altri uccelli, si salgono i gradini della scalinata e si entra in un grande salone dei ricevimenti con scalinate laterali e balconata dal primo piano. Molto carico, e troppo pieno, ma interessante. Ingresso 3€ e 30 a testa, che vale anche per un aperitivo al bar, o per scontare le bevande (www.blancomuseum.com).
Infine per ritornare (siamo in cima a un dosso e la strada è abbastanza giù) chiedo a uno della security se può dirmi come chiamare un taxi. Dice yes, prende il suo scooter e va giù sulla strada principale a cercarcene lui uno…! che arriverà subito.
Sembra che la pioggerellina stia per finire, passeggiamo per la jalan Wanara Wana, cioè in inglese mokey forest road, osserviamo lo spettacolo della uscita dei bambini dalle scuole, con conseguente intasamento pazzesco totale del traffico.
Ci fermiamo al “Bumi Bali” (balinese restaurant, cooking school & Spa), e ce la prendiamo super comoda. Dopo aver abbondantemente bevuto acque e coke, ci guardiamo il ricco menù.

Gedung mekuah = green papaya soup; Cramcam = clear chiksoup with shallot; spinach soup = spinach, onion, corn, flour, butter with bread crouton ; sateh = spied ini; Pesan Be Pasih = grilled fish in banana leaf;  Be Pasih Mepanggang =marinated grilled whole fish; Sambal goreng udang = prawn in rich basic spices chopper lime and coconut milk; Ayam Pelalah = shredded tangy chicken salad with chili and lime; Nasi campur, eccetera eccetera.

Prendo una delicata e buonissima soup con foglie intere di spinaci; poi il pesce invece ha un odore sgradevole e lo lasciamo lì; Ghila prende palline di pollo speziato e una soup Bakso Ayam con noodles – capellini d’angelo. In totale col bere e plus plus circa 8€ a testa. Non ci schiodiamo di lì per un bel pezzo. Ci porta a casa un autista scuro di pelle e un po’ strambo, I Wayan, con chitarra e tamburi in macchina per cui dobbiamo un po’ adattarci, ma è simpatico.
Si sentono canti di donne e uomini, delicati.
Il resto del pomeriggio in veranda a leggere e scrivere.
Per cena di nuovo al Siam Sally, che ci aveva dato un coupon di sconto del 15% se ritornavamo. Ci sono dei ragazzi molto bravi che suonano e cantano musiche rock, i “Cool Tones Blues Band”. Stasera c’è una atmosfera un po’ da night club di Bangkok durante la guerra in Vietnam… Certe/i sono determinatissime/i a scatenarsi pur di sfogarsi e divertirsi in modo pazzesco esagerato. Comunque è uno spettacolo che fa intrattenimento. Finché non usciranno sfiniti e certi anche un po’ brilli. Al ritorno a piedi alle 11 è tutto chiuso, spento e buio. Solo il Siam Sally resiste.
Prima degli scaloni che si devono fare per entrare nel nostro gang, il vicoletto tra i muretti, un bel topo attraversa la parte dove posteggiano gli scooter, e anche se è tutto al buio lo scorgiamo.

DECIMO GIORNO  venerdì 13

Una mattina dovrei ricordarmi di registrare i suoni e i richiami del mattino perché è veramente fantastico, con tutti gli uccelli che si risvegliano e fanno il loro verso. Questa vegetazione che c’è qui attorno dev’essere certamente un’area affollata di specie varie…
Oggi ci sono tutti i turisti del weekend che vengono da Giava e da altre parti dell’Indonesia, o di Singapore, e della Malesia.
Andiamo a cercare di fare la ricarica della sim ma non troviamo, i negozietti di telefonia sono chiusi, ma lo fanno anche certi money changers, come pure certi minimarket, ma non quellli a cui chiediamo.
Adesso è ora di pranzo e di uscita dalle scuole, forse per questo certi chiudono o lasciano temporaneamente il negozio. Allora andiamo in un supermarket (della Coco), moderno e attrezzato. Vediamo bella frutta tropicale e verdure fresche anche di tipi che non conosciamo.
Compriamo del buon pane a bauletto già affettato, 3 brioches, una scatoletta di cornbeef, dello yogurt al lychees, due formaggi (uno simile all’emmental, e un chetar), una barbetta di cioccolato al mango (che si produce a Bali, e una bottiglia da un litro d’acqua, e un profumino, totale 13€uro. Pranziamo qui “a casa” cioè sulla nostra veranda al tavolino di bamboo.
Combiniamo per andare stasera a vedere uno spettacolo al famoso teatro delle ombre balinese.
Poi concludiamo le prenotazioni dei prossimi posti, a Padangbai, e a Sidemen. Stiamo intanto pensando al traghetto per le isolette Gili. Chi ti dice un prezzo, chi tutto un’altro prezzo… Sui cartelloni delle agenzie turistiche il prezzo scritto è tot, ma poi se vai lì a discutere il prezzo può diventare diverso. Qui bisogna sempre contrattare su tutto, dal prezzo della camera, a quello del traghetto, non solo nei negozi o nei mercati, dovunque.
A Bali si è circondati, investiti, coinvolti da immagini, simboli, disegni, pitture, cartelloni, reclam, sculture… è davvero come essere in una foresta culturale.
Finalmente ho ben capito: a Bali ci sono due Bali o due mondi, due realtà, quello della facciata lungo le strade, e quello che sta dietro.
Tutto (oltre ai negozi) è raggiungibile, e visibile, non dalla strada ma percorrendo i gang, i vicoli, è là, in fondo, at the very end, che trovi cose interessanti.
Guest houses, losmen, attività, corsi, iniziative, comunità… Ci sono questi rettangoli lunghi e sottili delle diverse proprietà, che là in fondo continuano nei campi, nei rice paddles, con spa, o centri yoga, o centri di meditazione, corsi di cucina, saune, ecc. ecc.
Questo pome abbiamo finalmente capito dov’è la famosa “Yoga Barn”, con il suo ristorantino organic, i laboratori, le palestre, i libri, le varie sessioni… è subito dopo lo “Zen Bali Spa”. Raccomando a tutti quelli che andranno a Ubud ad andare là, ci sono talmente tante iniziative varie che certamente troverà quel che gli può piacere.
Alla sera andiamo a vedere il Shadow Puppet Play nella sala dell’Oka Kartini sulla jalan Raya ad est. interessante, sconcertante, rintronante, coinvolgente. Il biglietto non costituisce una prenotazione posto, ci sono solo poche seggioline, e dunque primo arrivato meglio accomodato. Le poche poltroncine prenotate vengono riservate con una foglia fermata da un sasso.
Questo Wayang kulit è una forma di teatro tipicamente balinese e giavanese. Wayang si riferisce al proiettare le ombre, e kulit, che significa pelle, si riferisce alle marionette.
Si usano marionette (ma manovrate dal basso tramite stecchini di bamboo) fatte di pelle di bufalo secca e sagomata, molto bucherellata per far intravedere anche il disegno interno ai contorni della pelle. Si accende una fiammella dietro ad un telo di garza di cotone (un po’ sporca e con non poche macchie di unto), e si proiettano così le ombre delle marionette stesse, che raffigurano personaggi a tutti noti della mitologia e del folklore, per cui anche qui come nelle danze e drammatizzazioni, le vicende della rappresentazione che si svolge in scena sono sempre le stesse.
E’ comunque molto suggestivo questo teatro delle ombre, e si può dire che è un antenato della lanterna magica e poi del cinema.
Sono storie del Mahabharata o del Ramayana, con insertati personaggi e vicende di “maschere” locali i cui tratti vengono esagerati in modo caricaturale per un fine satirico, ed è il dalang, cioè il marionettista, puppeteer, che decide l’andamento e lo svolgimento della rappresentazione. Il dalang è il “genio” della performance, il tuttofare che da la voce modulandola a seconda dei vari personaggi, e che fa muovere le marionette. C’è pure una orchestrina dietro il sipario, che suona una musichetta di sottofondo (ma che a volte irrompe all’improvviso facendo saltare sulle sedie il pubblico). Le marionette pur essendo di foggia stereotipata, richiedono un gran lavoro di artigiani specializzati, e certe sono veramente delle opere d’arte. L’Unesco ha dichiarato nel 2003 queste marionette e il teatro wayang kulit come patrimonio della cultura orale dell’umanità.
Quando si spegne la luce e si accende la fiammella dietro al sipario si crea una atmosfera magica. Lo spettacolo è stato davvero indimenticabile, anche se non nascondo che l’ho trovato un po’ troppo lungo e pesantuccio. La storia rappresentata in questa serata era tratta dall’epica del Ramayana, e intitolata “Hanuman il divino messaggero”. Il foglietto con la trama che ci è stato distribuito all’ingresso, riferisce in modo un po’ intricato e confuso dei vari personaggi in campo e delle vicende che si susseguono, ma a me (e a molti altri occidentali impreparati) è risultato non molto ben comprensibile, e assai complicato.
Certi turisti sono venuti portando i loro bambini anche piccoli, ma non mi è parso che fosse uno spettacolo a loro confacente né per loro intelligibile. Il mio consiglio è: venite solo se avete un interesse o una curiosità di carattere culturale e antropologico (ma non aspettatevi di potervi divertire).
Per riposare le orecchie, all’uscita dall’assordante sala, ci siamo subito diretti (come antidoto) al famoso “Jazz café” che è un bel locale lì vicino in jalan Sukma.
Prendiamo da bere, da bere e da bere, poi garden pea risotto with white wine foam, e grilled pumpkin and marinated asparagus, mashed potatoes (rosa), un burger, e infine una mousse chocolate, e un chocolate cake, totale 30€ in tre, intanto ascoltiamo di nuovo Nancy Ponto, che stasera è davvero molto brava, e un ottimo soul jazz dal vivo. Bellissimo posto, e con gente un po’ particolare.
Ci passiamo gradevolmente tutto il resto della sera.
Come oramai d’abitudine torniamo alla nostra pensione con un’auto “abusiva”, per 2€uro e mezzo.
Yandé quando ci vede rientrare ci invita a tornare qui il 22 per una loro cerimonia di cremazione di un famigliare (che era stato già fin troppo tempo sepolto in attesa di questo ultimo atto di distacco dal corpo). Ma noi lo ringraziamo molto ma gli diciamo che saremo alle isole Gili e purtroppo non riusciremo a tornare apposta.

UNDICESIMO GIORNO, sabato 14
Al mattino, dopo aver cambiato dei soldi e completato info e fatta riservazione per i prox giorni, andiamo a una spa, la Zen Bali, proprio dietro al SiamSally, dove Ghi e Annalisa si fanno fare dei bei massaggi testa-collo-spalle, e lavare i capelli. Bell’ambiente, molto rilassante.
Intanto io vado a fare un giro sotto il solleone, e poi vado a visitare il parco-riserva della Sacred Monkey Forest, in balinese Mandala Wisata Wenara Wana. E’ un pezzo di foresta vergine conservata alla periferia di Ubud, con dentro un paio di templi e vicino un cimitero. E’ anche la sede di una numerosa tribù di macachi.
Davvero molto bello e suggestivo questo angolo di wilderness. Secondo la concezione del mondo dell’hinduismo balinese la pace dello spirito e la libertà si possono ottenere durante queste nostre vite rispettando la dottrina della Tri Hita Karana, cioè: gli Dei hanno benedetto la vita creando la Natura e tutto ciò che essa contiene; la Natura garantisce il sostentamento e viene incontro alle necessità e attività di tutti gli esseri tra cui gli esseri umani; gli esseri umani vivendo in natura hanno fondato la struttura tradizionale dei villaggi, in cui hanno eretto templi dove esprimere la loro spiritualità, compiono cerimonie e fanno le quotidiane offerte per ricordarsi di preservare la Natura e risolvere i problemi assieme. Perciò debbono periodicamente anche svolgere due cerimonie, per onorare la vita della e nella foresta di tutti i suoi abitanti (Tumpek Kandang), e per dare rispetto e omaggio alle forme di vita vegetali (Tumpek Ngudu). La creazione di questa riserva naturale con i suoi templi, ha questo scopo. Ci sono dunque tre costruzioni, dell’XI secolo: il grande tempio Pura Daleng, il tempio delle sacre abluzioni fatto a struttura di mandala in tre espressioni, e il Pura Prajapati con annesso cimitero.
L’ingresso in questa riserva ecologica costa 1€ e 30, e nel dépliant che viene consegnato c’è scritto “cari visitatori ricordate che le scimmie sono molto importanti nella cultura tradizionale balinese, come si vede nelle danze Kechak e nello stesso Ramyana, e nel Pure Purana, un nostro antico testo lontra” (cioè inciso su strisce di foglie di palma). Ci vivono 563 macachi ripartiti in cinque gruppi che occupano altrettante aree differenti della foresta. Nel parco lavorano anche ricercatori e conservatori.
Poi ci rincontriamo e andiamo a pranzo proprio di fronte al gang in un warong di nome “Pundì Pundì” grill and asian cuisine, dove ci raggiunge Jabier, un giovane basco con cui Ghila era in contatto tramite Couch Surfing, e chiacchieriamo di viaggi. Beviamo un lime juice, e un lime ginger squash, oltre ad acqua minerale, e prendiamo Thai mango salad, cream pumpkin soup, mie goreng, grill eggplants, e Tom Yum noodles, tot. in quattro 21€. Bel ristorante, con magnifica vista sulle risaie.
Dopo di che andiamo alla Yoga Barn per frequentare una seduta di meditazione accompagnata dal suono delle tazze tibetane in lega di bronzo-rame e di rame-argento.
Stupendo luogo nella vegetazione lussureggiante con bellissime architetture di strutture in legno ben inserite nell’ambiente. C’è anche un bar-ristorante con balconata sulla valle del fiume, e una libreria, più varie palestre e luoghi di riunione. “un angolo interno di paradiso” come dice il loro volantino.
Fondata nel 2007 oggi organizza una gran quantità di attività diverse ogni giorno dell’anno, bisogna studiarsi bene il programma settimanale e prenotare in anticipo. Il dépliant dice anche: “fate esperienza del potere trasformativo di Bali”. Ora già viene buio, andiamo giù nello spiazzo e poi saliamo nell’edificio dove si tiene l’incontro.
Bella atmosfera nel grande capannone a forma di barn (granaio); anche queste tazze e campanellini delicati non li dimenticherò.
Ci sono davvero “good vibrations” come dicevano i Beatles nel lontano 1966…

“I, I love the colorful clothes she wears
And the way the sunlight plays upon her hair
I hear the sound of a gentle word
On the wind that lifts her perfume through the air
I’m picking up good vibrations….”

Le coppe hanno una sonorità e producono delle vibrazioni che ti penetrano tutto il corpo e la mente. Ne ho una a casa, ma non è di così alta qualità, comunque mi è sempre piaciuta da associare alla meditazione, l’avevo comprata in Nepal mi pare. Un’ora di silenzio nel buio con le onde sonore delle tazze, è veramente molto rilassante.
Infine a cena di nuovo al Siam Sally anche perché è qui attaccato. Ci riconoscono e ci salutano, anche questa volta avremo lo sconto. C’è una bravissima cantante con un terzetto che suona R&B e bossanova jezzata, si chiamano “Koko Harsoe Quartet Jazz”. Ottimo lui alla chitarra. Anche qui ascoltiamo “Just the two of us” che cantava Nancy ieri sera e altre canzoni molto soft, smooth jazz.
Nell’intervallo viene sollecitato a intervenire un giovane che c’era anche le altre volte tra i clienti habitués e che è un artista noto. Ed è bravino, gradevole.
Intanto prendo Pandanus chiken, Annalisa beef tender loin, e Ghi: chiken wings con nachos, infine lime tart e sticky rice-mango; acque e bibite, e di nuovo Ghi prende per finire un alcolico. Solito totale di 8€ a testa.
Torniamo a casa nel buio e silenzio delle strade vuote. Al solito gli uccelli in gabbia della homestay mi riconoscono e ci salutiamo.

DODICESIMO GIORNO, domenica 15

La “Nick’s Homestay” è stata dichiarata nel 2009 la “Nr 1 Hostel” in Indonesia, dalla HostelWorld.com in base alle votazioni (reviews) dei clienti. E se lo merita. Pago il conto di questi dieci giorni che comprende 29€ la camera per tre con bagno e veranda, e breakfast servito a ciascuno in veranda, cui si aggiungono il taxi che era venuto a prenderci, due volte la lavanderia, i tre massaggi, delle bottiglie d’acqua, ecc. totale generale con le tasse: 333€uro, cioè 33€ al giorno in tre. Loro ci hanno procurato anche i biglietti per le danze e per il teatro, e il biglietto del traghetto per le Gili con lo shuttle, che abbiamo pagato a parte, ad un buon prezzo.
Gli uccelli in gabbia mi salutano e come al solito io faccio loro eco imitando il verso, e loro rispondono. Non solo i tre amici cui faccio una foto-ricordo, ma anche gli altri, e le galline e sopratutto il cagnetto.
I bimbi si svegliano, aprono la porta della stanza-casetta e vedono le altre casette del terreno di famiglia e gli altri loro famigliari. Yandé ritorna da una riunione del Banjar con il sarong a quadri b/n, decorazioni, fronzoli, il turbantino elegante, e una busta di cuoio alla cintura con i due coltelli.
Qui la quasi totalità dei viaggiatori sono giovani, con il loro zaino. E’ un piacere perché negli ultimi viaggi avevamo notato un innalzamento notevole della età media, essendoci sempre più molti pensionati e anziani. Avevamo concluso che ormai sono gli unici che hanno tempo e mezzi, e hanno conservato viva la mania del viaggiare, dai tempi del ’68 e degli aa. settanta. Ma qui sono in gran parte aussies cioè della confinante Australia, e giapponesi, e altri asiatici, per cui il volo per loro è più breve che per noi e più cheap, economico.
Fra poco prenderemo il bussino per Padangbai (dove ci fermeremo qualche giorno) e quindi andiamo nel solito punto in strada dove si aspettano i taxi. E là attendiamo in piedi per tre quarti d’ora.
Intanto riguardiamo i negozi vicini che vendono vestiti, quadri e aquiloni. Si sente sempre qualcuno che si sta esercitando con tamburi o canti.
Intanto mi risponde alla richiesta di info un albergo di Gili T. cui avevo chiesto per mail se si può mettere in camera un 3° letto, e se il bagno è di quelli chiusi tipo occidentale. Ma nel momento in cui inviavo la mail third è stato corretto in thriller, per cui la risposta è “non so che cosa intendi con thriller bed” !, e poi per il bagno dice “i nostri bagni sono forniti di porta per chiudere” ! (il che ci sembra una  idiozia, e ci fa ridere).
Finalmente arriva il piccolo van, si va! Si parte, continua il viaggio. Usciamo dall’area di Ubud, poi attraversiamo pezzi di foresta, intravediamo cerimonie appena concluse (data l’ora). Una in un paese sembrava proprio la riunione di tutto quanto quel paese, forse più il parentadi di ciascuno… almeno a giudicare dalle migliaia di persone e soprattutto migliaia di moto, motorini e scooter posteggiati nei prati, più tantissime auto e mezzi vari. E’ comunque interessante guardare dal finestrino.
Il percorso che facciamo è Ubud, Bedulu, Gianyar, Klungkung, Kusamba, Padangbai. Nonostante il traffico della domenica, arriviamo in un’ora e mezza.

PADANGBAI  (o Padang Bay)
Eccoci qui, ci fermeremo per tre giorni. Questo è un paesino con tantissime barche a doppio bilanciere sulla spiaggia. Un molo, e un modesto mercatino. Alcuni pochi alberghetti e alcuni ristorantini. Anche qui c’è gente che è da poco stata ad una cerimonia appena terminata. C’è una atmosfera che richiama vagamente l’oriente degli anni settanta. Più che altro qui c’è un gran viavai di traghetti e barche per le isole Gili o per le altre isole minori della Sonda che si susseguono verso est. Ne arrivano di continuo e pure ne partono di continuo, almeno fino alle 16. Di solito la gente non si ferma neanche, se non per uno spuntino.
Piove. Bagnati ci rifugiamo in una bancarella con una tettoia. Intanto che aspettiamo che spiova vado a informarmi all’ufficio della compagnia di lance veloci di cui abbiamo il voucher. Ma è tutto un bel po’ incasinato per l’andirivieni. Chiedo a una poi a un altro, ma non capisco bene le risposte che sono vaghe e pronunciate male. Un ragazzo mi dice che è difficile per lui spiegarmi dov’è in inglese in modo che io capisca, ed è vero, per cui mi fa segno di andare con lui che mi accompagna con la sua moto. Così sotto la pioggia salgo dietro e lui via che va. In effetti era un po’ lontanuccio e bisognava fare un certo giro. E poi non avrei mai riconosciuto il posto come un ufficio. Tutti e tre mi avevano detto, tu chiedi di papa George, è lui che se ne occupa. In definitiva, lui ha una piccola trattoria e lo trovi lì, per cui non c’è una insegna della compagnia di navigazione, ma solo quella con i menù. Ma lui ora è nel retro che si occupa della cucina e non ha tempo in questo momento, per cui mi affida al figlio. Questo capisce benissimo la mia richiesta e segna su una lavagnetta che mercoledì ci vengono a prendere, poi scrive sul voucher che il biglietto è confermato e pagato.
Torno e ritrovo Annalisa e Ghila a quella bancarella, sta per smettere di piovere. Andiamo a pranzo alle 2 e mezza al ristorante dell’hotel “Puri Rai”, che da sul mare. Mangiamo proprio bene e abbondante e spendiamo 3€ a testa, bere e tasse comprese. Restiamo lì a lungo, dato che c’è il wi-fi e che fuori ha ripreso a piovere.
Entra una che mi vorrebbe vendere della paccottiglia ma non mi va di comprare nulla di quelle cose, ma le do una banconota da duemila rupie solo perché mi chiede di aiutarla a proseguire gli studi; è molto contenta e se ne va con un gran sorriso. Poi ci avvicina un uomo anziano che ci fa un po’ pena per come parla quasi sottovoce, gli compriamo una scatolina di legno, ma poi non riusciamo più a liberarcene.
La gente si passa il tempo a chiacchierare su certe piattaforme di legno con tettoia che ci sono lungo la spiaggia e che sono dei punti di ritrovo come da noi i bar.
Per dire ciao andandosene non c’è un vocabolo specifico in balinese, mentre in bahasa-indonesia dicono da-dà, in balinese andandosene si dice grazie. Arrivando si dice in b.i. salàt (che equivale a salam).
Gironzoliamo da un lato all’altro del golfetto, è ancora un posto semplice, è un po’ tutto spontaneistico. Per cena poi ritorniamo al Puri Rai, anche se ci sono altri posti carini ci andremo nei prossimi giorni.

TREDICESIMO GIORNO lunedì 16 (snorkeling)
Chiacchiero un po’ con Giovanni e con Alèna, i gestori del nostro albergo “Beach bungalow resort” (lui è italiano e organizza la scuola di sub mentre lei è bielorussa e tiene l’amministrazione). Poi alle 10 andiamo da un barcaiolo e combiniamo di uscire in mare. Andiamo su una di quelle barche tipiche di qui, a bilanciere doppio sostenuto da due vere e proprie braccia ricurve.
Appena usciti dal golfetto dove l’acqua è increspata da onde comuni, subito le onde e la corrente si fanno molto più forti e si balla sbattendo su e giù la prua, per cui bisogna ben tenersi forte. Il mare ha colori magnifici ed è trasparente anche se un po’ mosso. Sorpassiamo Blue Lagoon e puntiamo verso Tenjung Jepun dove ci fermiamo. Qui ci sono una quantità incredibile di pesci di varie forme e colori.
Il barcaiolo aveva portato dei pezzettini di pane stipati in una bottiglietta, e appena tiro fuori qualche boccone e ne sentono l’odore, i pesci accorrono per accaparrarselo. Ma dopo poco tempo constato che è oramai sufficiente che mi vedano con la bottiglietta in mano, e si precipitano a becchettare dove è avvitato il tappo. Per cui non c’è più nemmeno bisogno di consumare tutto il contenuto per avere decine di pesci vicinissimi davanti alla maschera.
Sostiamo a lungo e poi risaliamo per fermarci in vista della blue lagoon, dove anche qui nei pressi della cintura corallina ci sono numerosi branchi di centinaia di pesci di diverse dimensioni, tutti colorati, a strisce, o uniformi. E’ uno spettacolo incantevole.
Dopo quasi due ore di questo bellissimo intrattenimento, torniamo alla nostra spiaggia contenti.
C’è la moglie del barcaiolo e ci sono pure due delle loro tre bimbe, con due compagnucce di scuola che giocano e cantano canzoncine.
Ci accorgiamo che siamo un po’ stanchi per il forte sole, il vento, i riflessi dell’acqua.
Pranziamo tardi nel nostro stesso albergo. Prendo una ottima potato soup densa e calda. Poi vado a fare una passeggiata verso la salita della collina, dove vedo che ci sono vecchi templi. In seguito mi diranno che è il 4° più antico di Bali. Arriva gente vestita di bianco per portare delle offerte.
Nel tardo pome verso le 5 andiamo a farci fare dei massaggi nella bella spa dell’albergo, il solito balinese full body di un’ora (9€), e io invece faccio quello con le pietre calde, che dura un’ora e mezza (16€). Bella esperienza… certo che con quei sassi in mano, altro che pollice di ferro o gomito spigoloso…! alla fine sono sfiancato (penso che non lo farò mai più lo hot stone massage…).
Quando si da una carta di credito per pagare, sempre ti chiedono: “dyu happy namba?”, o detto meglio: “d’you hape pinnamba?”, che cioè significherebbe: “do you have a pin number?”
Alla sera per cena andiamo al “Topi Inn” (in fondo a sinistra sul lungomare jl. Silayukti), dato che là stasera c’è live music, cioè un tizio con chitarra che suona musiche e canzoni degli anni sessanta/settanta. Qui ci sono anche accomodations a buon prezzo. C’è pure un negozietto-laboratorio di gioiellini. L’ambiente è carino e l’edificio in legno è bello. Prendiamo: una ratatouille, un piatto di zucchini saltati all’aglio molto buoni e abbondanti, due piatti di formaggio brie e crakers, uno yogurt in una grande coppa, due bottiglie d’acqua. Spendiamo 14€ in tre (qui tutto è più a buon prezzo che a Ubud -e moolto più a buon prezzo che a Legian…).

14° GIORNO, martedì 17 sett.
Abbiamo trattato e combinato con I Wayan Sudiana (Nanok). Stamattina andiamo in auto in campagna all’interno, attraverso paesaggi molto belli, in un’area con pochi centri abitati, per visitare il villaggio di Tenganan. Si tratta di uno dei quattro o cinque paesini in cui vivono quelli che si ritengono i discendenti diretti degli abitanti originari dell’isola, prima che vi giungesse l’induismo, per cui sono detti Bali Aga (gli antichi di Bali). Credono negli spiriti delle cose, degli alberi, della natura in generale.
Scrivono in balinese (anziché in bahasa-indonesia) e usano un alfabeto che è quello sanscrito antico.
In questo paesino vivono circa duecento famiglie. All’ingresso ci chiedono di pagare una tassa sul turismo che va nelle casse della comunità, e di farsi accompagnare da uno di loro. Vediamo subito le ceste con dentro i galli da combattimento, di cui sono cultori appassionati. I galli sono dipinti con certi assurdi colori.
Le loro antiche cerimonie le continuano a mantenere e tramandare intatte. Ce n’è una, la Mekare Kare che contempla delle lotte in cui coperti solo da un perizoma succinto, e protetti da uno scudo di ata, una sorta di rattan (che se ben intrecciato dovrebbe durare per due generazioni), si colpiscono con le parti pungenti della foglia di pandanus.
E’ una specie di danza della virilità, per conquistare quella che a ciascuno pare la più bella. C’è un comitato di giudici che li mettono a affrontare un avversario della stessa stazza. I Bali Aga non hanno mai accettato il sistema hindu delle caste, ma si ripartiscono in associazioni di pari d’età. In quella cerimonia rituale si prendono a gran colpi con i rami spinosi ma devono far finta di nulla. Alla fine non c’è un vincitore, né c’è un momento prefissato per la fine dei combattimenti, lo decide uno dei giudici quando vede che uno se la prende troppo ed è arrabbiato con l’altro. Mentre questa tenzone non va fatta per rabbia per cui non si può usare il coltello (che peraltro ognuno ha con sé) né è consentito colpire in viso. Semplicemente ci si esibisce e dunque in fin dei conti ognuno partecipa al fine di far bella figura e venire apprezzato.
Il paese è ordinato e pulito. Ciascuna famiglia è impegnata in alcune attività di interesse comune.
Fanno delle stoffe chiamate ikat, tipicamente balinesi, ma in modo più complesso, detto “doppio ikat”, cioè colorano l’ordito prima della tessitura, poi proteggono questi fili con una legatura molto stretta quando fanno la tintura anche della trama. E’ tutto tessuto a mano con telai di legno rudimentali, ne esce un tessuto molto particolare sia per i disegni che per i colori, e molto resistente nel tempo (è un po’ “simile” a quello che vidi sull’Ande).
La guida che ci hanno affiancato è un amico del vice console d’Italia a Bali, e ci mostra un vecchio numero di una rivista culturale gratuita che distribuivano anche in Italia per reclamizzare il turismo a Bali, di nome Marco Pedoni (quando torneremo lo diremo al nostro amico Marco Pedroni).
Un’altra produzione caratteristica sono i libri detti “lontar”. Si tratta anche qui di una antica tecnica per cui si trattano in un certo modo le felci per farne dei supporti su cui disegnare e scrivere. Ci mostra come poi si fanno dei libri congiungendo queste strisce orizzontali di foglie. E come si usa lo stilo di metallo per scrivere con coloranti naturali ottenuti da estratti di noce moscata.
Ci fa entrare a casa sua, dove tutti i famigliari e parenti sono impegnati a preparare le cose che occorrono per la prossima cerimonia della luna piena dell’equinozio. Un vecchio sta spiumando dei pollastrelli, e la nonna fa da supervisora e consigliera.
Poi ci mostra gli spazi comunitari per le riunioni del villaggio. Gironzoliamo un po’, poi torniamo, anche perché forse qualcuno si è stancato di vederci curiosare di qua e di là e ficcare la testa dentro ogni porta… in effetti siamo degli stranieri, degli estranei a casa loro.
Al rientro vediamo lungo la strada una gran riunione, che ci spiegano è dovuta ad una cerimonia di cremazione.
Per pranzo voglio assaggiare un mahi-mahi, che trovo abbastanza buono. Annalisa prende del tonno che è veramente freschissimo, morbido e saporito. Intanto arriva un ragazzo che Ghila ha contattato tramite Couch Surfing. Si chiama Matthias ed è ungherese, è venuto in scooter da Kuta… per incontrarci! Poi ritorno da papa George per la conferma definitiva, fatichiamo a farci capire e a capirli…
I vari cani, e i polli e i galli che scorrazzano liberi in giro per ogni dove, in realtà appartengono quasi tutti a qualcuno.
Anche qui in quasi ogni bar e ristorante ci sono dei posti dove ci si può sdraiare. Alla sera mi sdraio a ammirare la luna piena dell’equinozio.
Abbiamo visto passare un paio di camioncini pieni di gente in bianco e anche molti uomini e donne andare a piedi su verso i templi.
Per cena torniamo al Topi Inn dove però questa volta aspettiamo 60 minuti per essere serviti. Comunque ho preso un chiken sateh, Annalisa tofu ai funghi, e Ghi un burger veg fatto di tempeh (14€ in totale con bere e tasse).
Non ricordo se l’avevo già scritto, nei warung balinesi (non nei ristoranti) il cibo viene servito sempre su di una foglia di banano adagiata nel piatto.

15° GIORNO, partenza per le Gili
Ci alziamo più presto del solito per partire. Io ho un po’ di quel che qui viene chiamato “Bali Belly” che non allude certo a quanto è bella Bali, ma ai disturbi intestinali, e che mi ha effettivamente un po’ rovinato la nottata. Paghiamo il conto e lasciamo in deposito due valige e una borsa, perché portiamo con noi solo lo stretto necessario, e lasciamo anche della roba da lavare per la laundry. Dunque partiamo solo con una valigia leggera, e vediamo che ce n’è solo un’altra in tutta la massa di zaini dei backpakers… e così ci sentiamo dei turisti in mezzo a tanti giovani viaggiatori. In realtà però ci sono di quei borsoni e zainoni… che sono ben più carichi e pesanti della nostra valigia a rotelle (per tre), e inoltre sono individuali.
Quelli di papa George ci vengono a prendere con lo scooter e mi portano alla “agenzia” che c’è nel warung, dove mi danno tre boarding pass e il biglietto di ritorno (mi sembra una inutile burocrazia) comunque sono molto gentili. Dunque in totale sono 42€ per tre persone incluso lo shuttle bus da Ubud e la fast boat a/r (avremmo diritto anche al bussino di ritorno, che però noi non usufruiamo).
Poi si occupano loro di portare la valigia al molo e di metterla sul barcone.
Qui a Padangbai c’è la gran comodità che la porticina del barcone è proprio alla stessa altezza della piattaforma di legno aggiunta dopo il molo, da dove noi partiamo.
La nostra lancia va diretta a Trawangan, mentre quelli che vanno alle altre due isolette o a Lombok, devono attraversare il nostro barcone e passare sul successivo, ormeggiato di fianco all’esterno.
Si parte! ciao Padangbai… ci sei piaciuta molto.

LE GILI (leggi Ghili)
Gili (nella lingua sasak della vicina isola Lombok) significa “isoletta”, noi andiamo nella maggiore delle tre gili, detta Trawangan. Dopo solo un’ora e mezza di corsa sulle creste delle onde con questa vecchia lancia un po’ scassata, arriviamo! Il barcone si ancora il più avanti possibile, e dall’interno si sale con una scalettina verticale sulla prua, per poi scendere da lì con un’altra scalettina metallica verticale con soli 4 pioli (quindi non va sino a terra), dal cui ultimo si fa un saltino giù sul bagnasciuga (basta attendere quando l’onda si ritira, perciò se non vuoi inzupparti le scarpe devi cogliere l’attimo fuggente).
Per Ghila verranno con una scala di legno alta fatta a triangolo rettangolo (che in un primo momento mettono con l’ipotenusa verso la prua…!!), e una volta posizionata, poi un po’ tutti aiutano a tenerla ferma vicino alla scalettina di metallo, ma anche la barca si sposta di continuo a causa delle onde …). in fine brava Ghila!
Comunque non si capisce perché non usino il molo di cemento che c’è un po’ più in là (come vedremo solo pochissime barchette lo adoperano), o forse viceversa come mai lo hanno costruito in un punto sbagliato…
Insomma eccoci qui sulla spiaggia con la nostra valigia, in mezzo al casino di gente che è scesa e di quella che vuol salire. Ci incamminiamo nella stradina sterrata lungomare dirigendoci intuitivamente a sinistra, cioè verso sud. Su tutta l’isoletta sono proibiti i  mezzi a motore, per cui volendo prendere un “taxi” ci sono molti carrettini tirati da cavallini con le ruote coi pneumatici. Qui si va solo o a piedi o in bicicletta, o con questi calessini (in sasak si chiamano cidomo).
Anche per sgranchirci le gambe e muoverci per far passare la sensazione del dondolio della barca, ci avviamo a piedi tirando la valigia. Arriviamo in breve all’albergo che avevo prenotato, il “Dream Divers”. Anche questo è un posto dedicato ai sub, con una piscina per l’addestramento. Chiediamo di vedere la camera, è una casettina e il bagno effettivamente è interno, e quindi coperto, ma non ha la porta per dividerlo dalla stanza coi letti… e anche la sottile parete è “alta” sì e no un metro… Chiediamo di vedere l’altra sola camera che hanno libera, che è molto più cara ed è in cima a una ripida scala. Ci piace, e dopo aver contrattato (insistendo sul fatto che da oggi inizia la media stagione) la prendiamo, entra tanta aria dalla vetrata aperta, e dà sul mare.
Ci costa 14€ a testa a notte, ne vale la pena, il bagno è chiuso, è bella grande, con una gran terrazza con poltroncine di vimini e tavolino, e sdraio, al mattino gli apprendisti-sub escono presto e quindi c’è pure disponibile la piscina qui davanti, e siamo sulla stradina lungomare, ecc… Paghiamo per 4 notti (si paga anticipato).
Andiamo subito nella spiaggia bianca davanti all’albergo, ma è tutta piena di frammenti di conchiglie e di coralli rotti … Comunque il bagno nell’azzurro chiaro dell’acqua trasparente è ristoratore.
Dopodichè andiamo a pranzare al Trawangan Cottages. Ci raggiunge Francesca che Ghila ha contattato tramite Couch Surfing, una ragazza abruzzese carina e tranquilla, chiacchieriamo di viaggi e di lavori possibili da fare all’estero. Lei sta in un appartamentino con cucina e tutto, un po’ all’interno, che costa meno della metà della nostra camera.
Poi loro due vanno per conto loro, e noi a farci una doccia e riposare (così ci accorgiamo che dallo scarico della doccia esce acqua). Intanto si alza il vento sempre più forte e ci sono delle folate a raffiche notevoli, che dopo un po’ fanno crollare la parete divisoria in terrazza che era fatta di grosse canne di bambù.
Più tardi facciamo dei giri, per ambientarci. Ci sono anche qua dei bar dove ci si sdraia, e dei posti di massaggi, aperti lungo la stradina. Tavolini sulla spiaggia, locali carini. C’è un ambiente quasi esclusivamente giovanile, che conferisce una atmosfera simpatica.
E infine ammiriamo la luna piena e la sua potente scia argentata nel mare.
Gironzoliamo per il cosiddetto “mercatino notturno”, night market, che viene allestito in piazza, dove ci sono le bancarelle dove fanno al momento cibo alla brace, e pesce fresco di giornata. Bello (ci ricorda un po’ Mirissa in Sri Lanka). Ci sono anche frutti strani, come il dragone rosa. Ma per cena preferiamo andare di fianco al nostro albergo, al “Pesona-indian cooking”. Mangiamo cibi indiani e del buon nanh, per chiudere c’è pure una bella tazzona di yogurt. (8€ a testa, in generale Trawangan è più caro di Padangbai).
Qui c’è sempre tanta aria, tanto ossigeno pulito, è come fossimo al largo in alto mare… le tre Gili sono solo delle emergenze sabbiose e di detriti corallini, che affiorano sul pelo dell’acqua.
Poi in camera si sente il casino che fanno gente un po’ alticcia fino alle 3 e mezza di notte, forse sono quelli del pub irlandese un po’ più in là… domattina dormiremo fino a tardi.

SEDICESIMO GIORNO, giovedì 19 settembre
Mi sveglio presto perché il sole sorge proprio davanti al finestrone della terrazza, cioè davanti al nostro letto. Inoltre il viavai dei calessini cidomo nella via stretta con gente distratta dato che è tutto pedonale c’è un continuo clacsonare delle loro trombette a pompetta per chiedere strada. Forse sarebbe stato molto meglio, per certi versi, prendere un bungalow (chiamato pomposamente little villa) in una stradina interna. Andiamo per il breakfast (BF) al vicino “Pesona”. Prendo un kopi Bali che è più o meno un caffé alla turca.
Poi facciamo la ricarica della schedina del cellulare, e infine contrattiamo e combiniamo per una gita in mare con “Matt office”, affidabile e premuroso, per domani mattina per 13€uro a testa.
Dopodichè prendiamo un cidomo e per un euro e 30 andiamo a fare il bagno in spiaggia a nord dell’isoletta, dopo Almarik, al Vamana. Bello. Sopratutto per la trasparenza colorata e cristallina dell’acqua che è verdino-azzurra-blu. Anche qui forse sarebbe meglio avere delle scarpette di plastica (che non abbiamo) essendoci sempre molti pezzetti di conchiglie e di rocce coralline, che stanno sul fondo sbattuti qua e là dalla corrente e dalle onde. Io mi tengo strette le infradito in acqua.
Vado a fare una passeggiata a piedi verso nord, dopo l’ultimo bar, quello del resort Coral Beach 2, e poi l’ultimissimo, del resort Danima, verso la “punta”. Dopo di lì non c’è più nulla e nessuno fino al gruppo Oceano resort, e Kokita Villa, e Casa Bonita.
E’ dunque una grande parte di spiaggia del tutto libera lungo la parte est/nord-est (ma l’intera metà ovest  dell’isoletta è completamente libera….). In realtà quasi tutta la spiaggia di Trawangan è libera, ma intendevo dire senza aver in vista alberghi, o ristoranti, o bar.
Durante la mia passeggiata sul sentiero lungo mare, e al ritorno sulla spiaggia, incrocio e vedo pochissimissima gente.
Pranziamo restando in spiaggia sul nostro divanone o piattaforma di bambù, con cuscinoni. Ci servono in spiaggia. Mi faccio portare una pizza tropicana (cioè hawaiana con ananas), Ghi un hamburger e Annalisa un sandwich di pollo, e poi frutta varia, e bere bere bere. Passiamo qui all’ombretta di alberetti, al sole e all’aria anche tutto il pomeriggio. In realtà anche qui c’è ben poca gente. Tra la sabbia si trovano pezzi di coralli di vari colori, marroncini, verdoni, ma soprattutto color latte. Sto ad osservare un insettino minuscolo che sembra una fogliolina con le zampette. Verso sera ci incamminiamo lentamente verso sud.
Ghila combina di uscire con Francesca e una sua amica. Noi andiamo a zonzo, ammiriamo di nuovo la luna favolosa, e la sagoma del vulcano di Lombok (3724 m), e la scia argentata. Camminando ci guardiamo intorno lungo la stradina principale. Di nuovo in piazza c’è il night market. Ceniamo al “Juka”, dove prendiamo potato-spinach soup, e snapper fish. Buoni; spendiamo col bere e tasse ++, 4€ a testa. E infine andiamo nel locale di fianco, “Evolution”, dove c’è live music. Una band molto brava con i due cantanti bravissimi. Ascoltiamo musica tipo Jimmy Hendrix e Bob Marley, insomma degli anni settanta/ottanta. Accanto invece c’è un negozietto con la sua musichetta cinese e canti con voce femminile acuta; e poi se ne interseca un’altra in lontananza un po’ più lontana e ancora diversa.

DICIASSETTESIMO giorno, venerdì 20
Ci alziamo un po’ più presto del solito per andare a fare la gita in barca e snorkeling. Nel bar con il BF c’è di sottofondo sempre la solita musichetta legong con il flautino che si sente spessissimo ovunque nei locali. Non se ne può più dopo diciassette giorni, altro che McPhee!
Ma stamattina c’è pure la moschea che ci fa sentire il canto del muezzin. Qui sono quasi tutti di etnia sasak, e musulmani. Intanto che facciamo colazione osserviamo la giardiniera che non fa altro tutto il tempo che tagliare tagliare, per cercare di arginare la crescita esuberante, mentre noi al contrario non facciamo altro che proteggere, curare, annaffiare purché crescano, mentre qui il compito è limitare, contenere.
Partiamo alle 9 in punto con una barca senza bilanciere, e con il glass bottom per ammirare il fondale. Anche in questo caso non si capisce perché le barche che fanno questo servizio per i turisti non attracchino alla gettata del piccolo molo dove hanno pure aggiunto in fondo una zattera di legno collegata.
Tutti sia qui che nei giorni scorsi, ci chiamano màma e pàpa.
L’isoletta di Gili Meno è proprio vicinissima, e là vicino, sulle formazioni e concrezioni coralline si possono ammirare tantissimi pesci colorati. L’acqua è cristallina, verdognola, o azzurrina brillante, o blu, eccetera. Non si smetterebbe mai di immergersi per continuare a guardare questi branchi di animali colorati. Ecco c’è una tartaruga, e per un po’ le nuoto accanto, poi ce n’è un’altra! e anche con lei nuoto un po’ affiancato e ogni tanto lei si volta verso di me a guardarmi. Poi ci spostiamo e facciamo altro snorkeling, certo non siamo i soli a fare questo, c’è anche un altro gruppo. Poi ci spostiamo ancora e anche se l’acqua è proprio trasparente, guardiamo giù sul fondo attraverso il vetro della barca per andare in cerca di punti in cui ci siano altre tartarughe. Finalmente si vedono tartarughe anche grandi. Una emerge dall’acqua per venire a vedere se abbiamo qualche cibo da darle.
Intanto si vede bene anche Gili Air, e la costa di Lombok, e in lontananza troneggia il grande vulcano. Cielo azzurro e sole spiegato.
Ad un certo punto dobbiamo cominciare a rientrare perché si alza il vento, e si creano onde che rinforzano la potenza delle correnti. Il vento qui può divenire da un momento all’altro anche molto forte e a raffiche, come abbiamo visto mercoledì sera. Comunque è già quasi l’una. Bellissima mattinata tutta fuori sul mare!
Questi ragazzi della “Matt” sono proprio bravi e pazienti, e sanno spiegare, e segnalarti quel che c’è da vedere (che non è sempre facile da individuare e riconoscere).
Andiamo a pranzo al “Terminal” dove Annalisa prende gamberoni fritti con la salsa tartara e io il piatto del giorno, che è un piatto thai chiamato Kway Teaw Noodle Goreng, e cioè: stie fried flat rice noodles, with beef, local asian vegetables, tosate nuts, and quail eggs. Buonissimo! se no avrei preso tempura buttered fish fresh water (cioè d’acqua dolce) Nila, with sweet&sour sauce, with rice.
Restiamo a chiacchierare, 9€ in totale. Abbiamo ancora negli occhi le tartarughe con cui abbiamo nuotato.
Qui c’è sempre aria e il pomeriggio anche vento, e oggi c’è molto vento forte. Dopo andiamo in camera e crolliamo addormentati a causa appunto dell’aria-vento, sole, caldo, riverbero, ecc. Dormiamo.
Andiamo col cavallino dall’altra sponda dell’isola per vedere il tramonto del sole dietro al grande Gunung Agung di Bali (3142 metri sul mare), che sta dall’altra parte dello stretto. Finiti gli alberghi e alberghetti, non c’è più nulla e nessuno, solo a un certo punto un allevamento di mucche (di razza Sapì), e si arriva in un luogo stupendo (dove ci sono un paio di bar-warung). E’ pieno di gente che viene in bicicletta o a piedi o in cidomo per il rito serale mondiale dei turisti che nei paesi tropicali è assistere al tramonto.
Sia Bali che Lombok fanno parte delle isole minori dell’arcipelago della Sonda, e di quella formidabile catena o “anello di fuoco”, che con Sumatra e Giava continua fino alle Molucche, attraversando tutta la grande Indonesia per ben 3400 kilometri con un arco vulcanico ancora attivo… una costellazione strabiliante. E il sole, visto da qui, cala proprio esattamente nella bocca del grande vulcano balinese. Un vero gran spettacolo. C’è vento, e per ritornare passa un bel po’ prima di incontrare un calessino cidomo.
Stasera c’è live music al “Sama-sama” (che è una parola che significa: stesso, insieme, benvenuto, altrettanto, e pure ciao). Andiamo ma fanno solo un paio di canzoni reggae e nient’altro. Allora andiamo a cena all’Ocean 2 dove c’è un self-service e backery con potato soup, insalatone varie, patate lesse, da prendere a volontà, e intanto che vai a servirti ordini un piatto. Ci troviamo bene, in totale solo 7€uro.
Hanno la buona abitudine di riepilogare sempre una ordinazione, per conferma, ed è importante, eppure anche così a volte ci sono malintesi e fraintendimenti dovuti alla pronuncia (e a volte al fatto che non sanno che poche parole in inglese).
In camera la finestra vibra, e il vento si insinua con forti spifferi facendo cadere fogli e cose.
Ci sono ancora alcuni ultimi fuochi d’artificio per la fullmoon.

18° giorno, sabato 21 settembre
Eccomi qui di nuovo al mattino alle 7 e mezza al Pesona per il BF, a guardare il mare blu a righe bianche per l’increspatura delle onde che scorrono veloci lungo lo stretto. Con l’accompagnamento del solito “ammaliante” e soporifero flautino acuto con la sua solita musichetta.
C’è la solita ragazza-madre col suo bimbetto al quale faccio saluti e sorrisi. Già gli apprendisti scuba stanno cominciando gli addestramenti nella piscina. I fiori illuminati dal sole mattutino sono sgargianti nei loro colori che splendono. C’è silenzio.
Questo paesino, “bisnipote” di un villaggetto beat, ora turisticizzato, mi è piaciuto. Sono tutti giovani un po’ spensierati e belli, l’ambiente è casual e semplice, atmosfera da spiaggia. La mancanza di motori e la piccolezza dell’isola ne fanno davvero un luogo da non perdere. Trawangan ha la stessa natura delle altre due, volendo anche qui ci si può facilmente isolare e stare in un posto silenzioso e tranquillo, ma offre anche qualcosa in più per il dopo-tramonto.
Arrivano i primi pesci freschi, i ragazzini vanno verso la scuola, e arrivano i turisti del weekend da Giava.
Vado un po’ sulla parte mercantile della spiaggia, cioè dove c’è l’approdo delle merci, e poi faccio dei giretti per il paesino di Trawangan dove vivono i lavoratori e le loro famiglie. Ci sono moltissimi piccoli waroeng a buon prezzo, e homestays economici e simpatici (o anche molto “spartani”). Ma ci sono anche qua e là belle “private villas” come Exotic, o Nyepi, o Bale sasak, o altri come Rumah spa, (o Fitria homestay, o Dyan’s, Pondok Hadi, Coral voice, Desy, Pondok Vidara, Losmen Eky, e i numerosi Rumah, che menziono se possono servire a qualcuno), dove si spende molto meno che sul lungo mare, a parità di categoria.
Nelle stradine del paese ci sono spesso panche e panchine fatte di tre pezzi di legno per sedersi all’ombra o riposare. La vita quotidiana è quella campagnola, con polli, bimbi cui fare il bagnetto sotto la pompa, cani, punti di raccolta pattume, gatti, galli, trasporti di cose su carretti o contenitori portati sulla testa. Mi piace osservare questa vita modesta e semplice.
Anche qui dunque, come sempre, basta svicolare per poche decine di metri. Sono tutti gentili (vivono soltanto di turismo) ma anche sinceramente, ti sorridono e ti salutano anche se non hanno nulla a che fare con te, gratuitamente, spontaneamente. “Pàpa how are you?” (=ciao come stai papà?),  o “good morning boss” (= buongiorno capo), “need help?” (= hai bisogno di qualcosa?).
Cing-cing-cing, clop-clop-cloppete, pet-pet! Sta passando un cidomo con i suoi paramenti e sonagli, il clacson a trombetta e pompetta, e lo scalpiccio degli zoccoli sul terreno compatto. Bisognerebbe assai rapidamente spostarsi e invece succede che molti, dopo un po’ che camminano spensierati nella stradina pedonale di terra, non se ne rendono conto, non ci pensano proprio ai problemi del traffico, non si accorgono o sono lenti di riflessi. Ma un calesse non è un’auto con i freni e il volante. Bisogna proprio ricordarsi di prestare attenzione.
Così come nelle strade asfaltate delle cittadine, anche se non c’è il traffico delle nostre grandi città, gli scooter e i motorini sfrecciano, e vanno sempre anche contromano, per cui bisogna stare molto attenti e guardare prima a destra e poi da tutte le parti.
I carretti sono spesso decorati con piume di gallo. Si preparano le bancarelle di frutta, e i baracchini con le polpette e i vermicelli o il riso.
Stamane ce la prendiamo molto calma, rilèk o anche rileks (che sta per relax).
Qui nel nostro albergo stanno terminando le dimostrazioni e gli insegnamenti in piscina, e fervono i preparativi dei sub per uscire in mare. In definitiva è più un centro di diving e scuola di scuba, che non un vero e proprio albergo. E’ anche questo un passatempo, lo stare ad osservare mentre fanno il corso e i vari esercizi. Si parla a questo proposito anche di aquaddiction, e di aquaddicteds.
Alla gente qui piace imparare nuove lingue straniere, o almeno alcune parole per attirare l’attenzione o la simpatia. Già ne sanno tante di lingue (almeno alcuni, e comunque poco e male) cioè oltre all’inglese, ancora c’è chi sa un po’ di olandese, ma anche tedesco, francese, giapponese russo, malese, arabo…). Quindi sarebbero contenti di imparare qualcosina di italiano (o anche di cinese), ma l’unica scuola che possono frequentare è la strada, la pratica, grazie alla pazienza e disponibilità di alcuni pochi clienti o viaggiatori.
Anche noi assorbiamo qualche parolina, tipo: buka, cioè aperto, e tutup, chiuso; gula, che è lo zucchero bianco, e gula mera, quello di canna. Mentre kecil kamera significa letteralmente stanzina, cameretta, e si riferisce al gabinetto. Qui la parola warung si trova in molti casi ancora scritta alla olandese (londo), cioè waroeng.
Siamo alla pasticceria “Kayu café”, dove io prendo una fetta di apple cake, e un american coffe e Annalisa un brownie chiamato chissà perché dulce de leche, e uno yogurt bianco; molto buoni. tot. 5€.
A volte non ci si capisce, la cassiera scrive: yogurt extra breakfast, e Annalisa dice: non so, voglio un plain yogurt, non ho preso né voglio prendere alcun breakfast, e lei dice: allora ne vuole uno extra. E Annalisa insiste, ma lo prendo solo se è plain, bianco, senza null’altro… e lei: allora ne vuole uno extra breakfast. Insomma si vede che quello bianco ha quella denominazione lì… e in effetti alla fine ci dice: noi lo chiamiamo “yogurt extra” e di solito lo diamo al mattino ma si paga in più rispetto al breakfast.
In questa “pasticceria” hanno in realtà tante cose, ad es. anche una insalata di lenticchie rosse, e una con halloumi e quinoa, servite con un condimento di yogurt alla menta. Oppure c’è un panino tipo baguette con rendang, jalapeno pickles e lattuga (?). Anche omelette agli spinaci con feta; o fluffy pancake with caramelized banana and maple syrup. Poi maroccan spiced lamb served with couscous and tzatziki. E laksa soup; malaysian spicy fragrant noodles soup; coconut milk soup. O infine roasted pumpkin with carrot. Spesso ci sono questi gran mescolino di culture culinarie intercontinentali miste. Evarie healthy beverages. Dentro nel negozio vendono confezioni di: coconut body oil, Borneo ber poleen, Gheer, Maca Root, Maca Jahva – herbal chai, herbal toothpaste, e anche shampooing, infusioni, creme, repellenti naturali anti-insetti, tisane, eccetera.
Quando uno ha finito di consumare, subito vengono a portar via tutto perché hanno bisogno di recuperare tazze, piatti, posate, bicchieri, che non hanno in numero sufficiente. Prima di portar via il piatto o di sparecchiare ti chiedono sempre: “are you pinis?” (che significherebbe: hai finito?).
C’è gente di tutti i continenti, dal Giappone al Brasile, che pronuncia l’inglese nei più diversi accenti e nei più fantasiosi modi, e usando strane espressioni gergali (magari tipiche -che so- di Singapore…). Gruppi di etnie miste, coppie miste, etero e omo, di tutto un po’. E’ una realtà mondializzata che poi in questi luoghi di turismo è concentrata. C’è comunque una gran presenza del mondo asiatico, nella fattispecie sopratutto indonesiano e malese per il weekend. Loro vengono qui per vedere questo concentrato di occidentali bianchi, e magari anche per assaggiare i piatti europei, e guardare ragazze in bikini, così come noi veniamo in un paese dell’Indonesia. E’ dunque lo stesso posto ma visto con occhi e mente diverse.
Cominciamo a informarci e prenotare per la prossima tappa. Si svolge una telefonata assurda  in cui forse nessuno dei due capisce bene cosa ha detto l’altro, ci sono troppe sfasature nei discorsi. Mi chiede a che ora arriverò a Bali, dico che arriveremo alle 12 e 30 circa; mi chiede conferma se intendo a.m. o p.m., dico ovviamente p.m. Allora mi dice “d’accordo, le mandiamo un driver a prenderla alle 5 e mezza”. “no -dico- no, caso mai arriveremo un po’ dopo, alla una o una e mezza”. “ma lei mi ha detto 5 e 30”. “no, sono sicuro di averle appena detto 12 e 30. Comunque il taxi quanto costerebbe?”. Mi dice: “300 mila rupie (18€) per un viaggio di un’ora e mezza”; le rispondo che sicuramente a Padangbai troveremo a meno, a 250. Se quando arriviamo non troviamo un taxi, allora le ritelefonerò entro un’ora dal nostro arrivo là, per confermare o meno”. E mi risponde: “Va bene allora mi dice che il taxi non lo vuole. E per la camera, lei ne vuole una o due?”. Rispondo: “Siamo in 3 ma siamo una famiglia, quindi se c’è, ci va bene una camera. Anche una matrimoniale se possiamo starci in tre, aggiungendo un letto”. Risponde: “Allora mi dice che non vuole due camere”, e io: “Se c’è posto per 3 in una stanza… e comunque vorremmo un bagno chiuso, non un mandi aperto”. “Dunque la aspettiamo nel pomeriggio per decidere?”, e io: “La richiamerò comunque domani dopo essere arrivati a Padangbai”. “Grazie per aver chiamato”. A questo punto io non ho la certezza di aver riservato, non so se ci terrà una camera sola, non sono sicuro se ha capito che in caso ci deve stare un terzo letto, nemmeno so se il bagno è “chiuso”, né se forse manda un suo tassista a Padangbai.
Andiamo con Ghila a vedere le tartarughine neonate al centro di protezione naturalistica. qui alle Gili ci sono due specie di tartarughe protette, quella chiamata eretmochelys, o embricata o imbricata, e quella definita verde (chelonia mydas).
Gli addetti del Centro, proteggono le uova, e quando queste si schiudono le mettono in vasca fino a che le piccole tartarughine non sono abbastanza robuste per riuscire a sopravvivere in mare agli attacchi dei predatori in cerca di neonate.
Una favola racconta che il pescatore Arya naufragò e svenne. Risvegliatosi si rese conto di essere sdraiato sopra una grande tartaruga e si tranquillizzò vedendo che stava dirigendosi verso terra. Ogni tanto una piccola tartaruga che nuotava accanto a lui gli dava un colpetto sulla gamba per dire “tranquillo! ci siamo noi”. Quando raggiunse la riva si addormentò per il grande stress, e a un certo punto vide che si era radunata gente attorno a lui, e allora raccontò la sua avventura, ma nessuno voleva credergli. Ci furono una volta quattro giorni di forte monsone, con un vento che scoperchiava le capanne e una pioggia più forte che mai, il che interruppe l’attività del villaggio. Poi i venti fuggirono altrove, e quando le onde si calmarono e smise di piovere, la gente vide che dal mare venivano centinaia di tartarughe sulla spiaggia. I figli di Arya chiesero cosa stesse succedendo, e il padre spiegò che disturbate dalla tempesta esse avevano cercato rifugio nella insenatura del loro villaggio, e ora venivano in spiaggia per deporre le loro uova. Tutti guardavano quello spettacolo. Il saggio Arya disse ai ragazzi che tutti dovevano collaborare con la natura e con gli dèi e in particolare i giovani dovranno fare un patto per intervenire in modo che nessuno disturbi le tartarughe in quei momenti, e impedire ai cani e ai serpenti di prendere le uova. Più tardi i piccoli prigionieri nelle uova, iniziarono a picchettare sulle pareti e a uscire. Tutto il villaggio si impegnò a proteggere il percorso dei piccoli. Ora tutti credettero al racconto di Arya sul suo salvataggio dal naufragio.
Stiamo in spiaggia, anche se da queste parti bisogna stare attenti ai piedi a causa dei coralli (e viceversa anche stare attenti coi piedi e le pinne a non rovinare i coralli). Certo qui l’ecosistema è delicato, e il turismo potrebbe già essere giunto a un limite eccessivo, non sostenibile.
Andiamo poi a cenare presto, al “The Beach House” dove prendo un antipasto di verdure, e un veggie pie, con mashed potatoes, a Annalisa un filetto di snapper al latte di cocco, e Ghi delle fettuccine coi gamberi, bibite e acqua più tasse (meno di 6€ a testa).
Il mare diviene un po’ agitato, la cosa piace ai surfisti.
Ci raggiunge Francesca e poi una giovane svizzera di Berna, che è insegnante alle  elementari, e poi si è messa a viaggiare, prima alle Hawaii poi in sud-est asiatico.
Giriamo, ammiriamo la tonda luna giallona appena sorta. Nel ristorante accanto danno il narghilè e la shisha, per attrarre clientela, e trasmettono lagnosi canti con musichetta tipo nenia. Ormai la luna è allo zenit, e un larghissimo lago d’argento sul mare increspato crea la silhouette delle barche. Il tutto genera vaghi ricordi e sensazioni. In strada ci sono molti lumini accesi con lampadine colorate, e intanto c’è una costante brezza di mare che soffia tiepida e sa di acqua salsa. Un languore melanconico mi pervade in mezzo a tutti questi vocii, ai canti, alle musiche, che si sovrappongono, si  mischiano e mescolano un unico indistinto sottofondo. La voce lamentosa, i tamburi con i loro ritmi cadenzati, il flauto da incantatore di serpenti, mi dicono che questa è l’ultima sera in questo gradevole non-luogo giovanile.
Qui si sta a letto in canottiera e senza lenzuolo, abbiamo appena spento alle 11 il ventilatore del soffitto, e intanto penso che a casa è iniziato l’autunno. La luna oramai è bianca ed è come un vero e proprio faro sgargiante che illumina tutto quanto questo mondo notturno.
Non riesco a prendere sonno, la voce del cantante è struggente ed esprime credo le pene d’amore, il battito delle dita sulla pelle tesa dei tamburi non da tregua.
Alcune stelle riescono a baluginare a distanza, nonostante la potenza regale dello specchio lunare; le onde sul mare sono in continuo movimento inarrestabili come quel canto infinito.
Non ci sono rumori di motori, ma solo di qualche zoccolo di cavalli, e i passi della gente che transita nelle due direzioni. Il suono del vento e quello del mare. Sulle acque oscure si fa vedere qualche lampara dei pescatori. Tutta questa costa è brulicante di vita pur circondata dalla oscurità notturna che cela il resto del mondo nel nulla.
Mi assopisco, domattina si parte. Di notte non mi sento tanto bene, è il “Bali belly”.

19° GIORNO domenica 22 settembre
Assembramenti caotici sulla spiaggia, in cui si confondono quelli in attesa della barca per la gita domenicale, quelli che vanno a Lombok, e quelli come noi in attesa della imbarcazione veloce per il rientro a Bali.
Finalmente ci issiamo su per la scaletta metallica verticale, e poi giù nell’abitacolo e partiamo, la barca costeggia G.Meno e G.Air e giunge facilmente al porticciolo di Bangsal a Lombok con il mare riparato, ma poi uscendo in mare aperto si comincia a ballare, su e giù e di qua e di là. Lo stretto tra Bali e Lombok non è uno scherzo, è riuscito a costituire il confine tra specie faunistiche (linea di Wallace) proprio perché è così profondo (250 metri) e con correnti così forti che c’è sempre la possibilità di vento e ondone.
D’altronde c’era da aspettarselo, è un braccio di mare lungo 60 km. e largo al massimo 40, che collega il mar di Giava con l’oceano indiano, e quindi si formano facilmente correnti; la distanza dalle Gili per Bali teoricamente è di 32 km. ma tutto dipende dalle onde.
Ne consegue un viaggio lungo e tormentato in cui solo pochissimi non vomitano, e comunque prima o poi tutti stanno male con nausea e problemini vari annessi e connessi. Quindi il barcone ci mette molto molto di più che all’andata… arriviamo sconvoltini e un po’ stanchini.

Avevo già scritto una mail su questo argomento a Michela chiedendo spiegazioni:
“quesito: in questo stretto di mare che dopodomani riattraverseremo passa la cosiddetta linea Wallace, in nome di uno scienziato che la “scopri”, si tratta di una linea che attraversa il globo, delimitando un al di qua e un al di là, per cui la fauna che prevale da un lato e pressoché assente dall’altro, e le varie specie hanno avuto evoluzioni differenti. Viene spiegato col fatto che la profondità marina dello stretto tra Bali e la vicina Lombok è notevole e non fu colmata nemmeno con l’abbassamento del livello delle acque durante il  pleistocene. Ma non sembra una spiegazione sufficiente dato che furono popolate persino le isole del Pacifico…. e allora?”.
Mi aveva risposto: “Per quanto riguarda la linea di Wallace invece posso solo dirti che la fauna locale deve essersi sviluppata prima della separazione dei continenti, dopodichè neanche le successive glaciazioni devono aver messo in la comunicazione le due terre. Questo ha fatto sì che gli animali rimanessero fisicamente separati. Nelle Galapagos è successo lo stesso, dove la lontananza tra le strisce di terra non ha consentito ulteriori spostamenti, contribuendo invece alla speciazione che caratterizza la biodiversità che osserviamo noi oggi (l’isolamento, dovuto a barriere fisiche o biologiche -queste di solito secondarie alle prime, permetto l’evoluzione di forme con caratteristiche ben adattate all’habitat occupato ma completamente diverse dai “vicini di casa”).
Non so se sono riuscita a risolvere il tuo dubbio oppure ho solo contribuito ad ampliare la definizione che hanno dato a voi, ma credo che questa possa essere una buona spiegazione al fenomeno.”

Beh stamattina tutto questo ci è diventato più chiaro, sia pur tra le nebbie mentali della nausea e del maldimare.
Arrivati al porticciolo di Padangbai esausti e frastornati, andiamo subito al nostro albergo di prima, e lì ci riposiamo, ritiriamo le valige che ci hanno tenuto da parte, e la roba lavata, andiamo in bagno, mangiamo qualcosina. E intanto contratto con un driver che ci porti a Sidemen dopo pranzo. Combiniamo per 16€, telefono a Sidemen per comunicare che arriveremo alle 5 e mezza.
Dopo esserci ripresi e rilassati, partiamo! Passiamo per la periferia est di Klungkung nella parte vecchia di Semarapura, dove fabbricano gli ombrellini utilizzati nei templi per scopi rituali, e per le cerimonie, certi sono molto belli. Fanno anche altri oggettini artigianali molto carini, ci sono pittori e orafi.
Questa è una località importante per la storia di Bali, era la sede del regno di maggior importanza dell’isola, tanto che diversi altri principati rendevano omaggio feudale al re di Klungkung. Era un po’ il centro della cultura tradizionale, sia per quanto riguarda le arti figurative che per la danza e la struttura sociale. Nel 1602 la compagnia olandese per le indie orientali cominciò a prendere piede nell’attuale Indonesia, e nel 1800 iniziò la conquista territoriale. Ma Bali fu l’ultima isola a cadere. Il dominio olandese cominciò a Singaraja nel 1845 e poi si era esteso, oltre che al nord, anche all’est di Bali nel 1894, e dopo al regno di Gianyar, dove c’è Ubud, nel 1900. Nel 1906 decisero di farla finita con gli ultimi baluardi indipendenti, e fu inviata una grande flotta per costringere il re di Badung (cioè Tabanan e Denpasar) ad arrendersi. Ma tutti i personaggi importanti della corte si suicidarono pur di non sottomettersi. Così gli olandesi ripeterono nel 1908 la minaccia di fare guerra al raja di Klungkung, e anche in quel caso ci fu un suicidio collettivo del re, delle sue sei mogli, di tutta la famiglia e di 200 membri della corte, poi uomini, donne, bambini, vecchi, dignitari e bramani, andarono incontro all’esercito invasore e si lasciarono uccidere dai loro fucili. Il sontuoso palazzo reale fu incendiato. Ora c’è un monumento che ricorda questa ecatombe (puputan), e anche l’ultimo territorio balinese fu incorporato dalle Indie Orientali Olandesi. I nobili e i bramani rimasti furono incaricati di conservare e preservare la religione tradizionale, lasciando così una formale autonomia culturale. Nel palazzo di giustizia (Kerta Gosa), che era rimasto in piedi, sono stati restaurati i dipinti e gli affreschi che rappresentano le coppie di visibile-invisibile, giusto-ingiusto, raffigurando il poema epico Bhima Suarga, una sorta di appendice al Mahabharata, in cui si racconta del viaggio dell’eroe Bhima agli inferi e nel regno celestiale, mostrando quali sofferenze e quali beatitudini meritano coloro che hanno agito male o bene in vita.
Forse fu proprio per lo scalpore che suscitarono i puputan, che si diffuse in occidente l’idea che quella balinese fosse una cultura violenta e i balinesi gente pronta a usare il famoso coltello kris, che infatti tutti allora portavano alla cintura. A diffondere questa immagine contribuirono anche film come “L’isola dei demoni” di vonPlessen, e romanzi come “Sangue e voluttà a Bali” di Viki Baum, e persino il sciocco filmetto “La principessa di Bali”, di Walker. Ma ancora le danze ipnotiche kechak in cui un coro di 80 uomini andavano in trance al canto ritmato di “chak-achak-a-chak” e infine rivolgono contro di sé il kris. Come abbiamo visto pure noi in uno spettacolo di un certo impatto.

Quindi giriamo a destra per Paksabali, entriamo nel territorio della reggenza di Karangasem (ovvero Bali-est), e ci inoltriamo nella valle dello Yeh Unda, con una stradina minore. Paesaggi molto belli, una valle davvero incantevole, tutta terrazzata a risaie, ma con vegetazione rigogliosa, alberi da frutta, palmeti di cocco, eccetera. Lo specchio d’acqua delle risaie riflette le nuvole e il paesaggio con begli effetti. Si attraversano piccoli villaggi, Lebu, Sukanaji, Silebeng, Undisan. E’ proprio la campagna balinese, restiamo attaccati ai finestrini a guardarci attorno. Qui è molto venerata Dewi Sri, la dea del riso e della fertilità della terra (quest’ultima rappresentata dal dio Siwà) a contatto con l’acqua (la dea Gangga) e la luce e il calore del sole (il dio Surya). La dea Dewi Sri rinasce da ogni germoglio di riso per nutrire gli esseri umani. Il termine per indicare il seme di riso è il medesimo per riferirsi alle ovaie femminili.
Queste colline terrazzate stanno proprio alle pendici del grande monte Gunung Agung, che si può tradurre anche come il Sovrano delle montagne, si tratta del maggiore vulcano di Bali alto 3142 metri dal mare, dove è posto il principale tempio della religione hindu-balinese, che è in effetti una spiritualità animista su cui si è sovrapposto l’induismo. La denominazione della loro fede, oltre ad Agama hindu Dharma, è detta anche Agama Tirta, cioè la fede nell’acqua santa. Per cui i cinque  massimi vertici del pantheon sono costituiti da terra-acqua-sole, cui si affiancano riso/fertilità, e il vulcano, che fu la potenza da cui originò la scintilla dell’anima balinese.
Un’antica leggenda spiega come mai i balinesi piantino sempre un nuovo campo di riso prima di raccogliere i frutti di quello precedente.
Secondo questa leggenda un gruppo di agricoltori, che da anni non riusciva a trarre nutrimento a sufficienza dal raccolto, promise di sacrificare a Dewi Sri un grosso animale se vi fosse stata abbondanza. Poco dopo questa promessa le condizioni climatiche migliorarono e tutto sembrò favorire un raccolto copioso. Gli agricoltori, felici per quanto avvenuto, iniziarono a cercare un maiale da sacrificare, ma ogni loro tentativo fu vano. Poiché l’ora del raccolto si avvicinava e nessuno di essi era riuscito a trovare un maiale, qualcuno propose di sacrificare un bambino al posto del maiale. Poi ad uno degli agricoltori venne in mente che la promessa era di adempire al voto dopo il raccolto, perciò se vi fosse sempre stato del riso da far crescere e ancora da raccogliere, quel sacrificio non sarebbe stato necessario.
Arriviamo a Sidemen, a 400 metri di altitudine, tutta a terrazzamenti, e alloggiamo al “Nirarta Meditation Centre”, in banjar Tabòla, in un punto magnifico della valle, e nel mezzo di un bel giardino tropicale. Arriviamo proprio quando stanno per incominciare a fare le quotidiane offerte. Parliamo con la proprietaria, Ida Ayu, una giovane signora molto gentile e premurosa. Ci danno una intera casetta immersa nel verde, in cui ci sono due stanze comunicanti e due bagni (chiusi), con una bella lounging veranda davanti, dove beviamo il succo di frutta di benvenuto. Gironzoliamo per il bel giardino, incontriamo Peter, il marito di Ida che è il fondatore di una associazione “for living awareness” cioè per una viva consapevolezza, che sta proprio ora partendo per l’Italia; poi alla sera partecipiamo a una seduta di meditazione thai, guidata da lei, nella sala della casetta che c’è in fondo alla proprietà. E infine andiamo a cena nel ristorantino interno del Centro, da cui si guarda verso delle risaie e un fitto bosco di fronte. Prendiamo una ottima potato&carrots soup e un piatto thai, mentre ammiriamo il panorama della valle prima che si faccia buio. C’è un silenzio assoluto, in cui ogni tanto si sentono i suoni degli uccelli, regna una grande calma.
Approfittiamo del fatto che non c’è nulla da fare perché qui fuori non c’è un villaggio dove poter passeggiare (Sidemen ha 7500 abitanti ma sono tutti in casette sparse in tre vallette di altrettanti ruscelli), e andiamo a letto presto (la doccia perde, e ormai il bagno è già tutto allagato e scivoloso.)

XX GIORNO, lunedì 23 (Sidemen)

Sessione mattutina di meditazione, col richiamo di un discreto suono dai toni bassi, emesso da un tronco cavo battuto, il kulkul. Vado giù per il sentierino in mezzo al parco, dove ci sono stupendi fiori. La seduta mi piace, di più di quella di ieri sera. E intorno c’è il cinguettio del risveglio di tutti gli uccellini. La cagnetta anche stavolta aspetta pazientemente fuori dall’ingresso della sala.
Durante la colazione chiacchiero con l’unica altra cliente presente, Liliana di Lisbona, che è qui da una settimana. E guardo giù verso la valle, dove scorre il torrente.
Partiamo.
Proseguiamo per Iseh-Selat-Rendang, l’autista I Nyoman Mantra fa piccole stradine minori, per farci vedere vari villaggi. Così vediamo risaie, contadini, campagna, chiodi di garofano e semi a terra su stuoie per farli essiccare, mucche Sapì marroncino chiaro…
Tutti sempre ci sorridono, si lasciano fotografare senza problemi. Nyoman ci mostra i vari frutti, le piante, i fiori, le coltivazioni, e ci informa. Ci sono i jeruk o red pomelo, i rambutan, le prugnette kepundung, i salai, i gialli belimbing o starfruits, i mangostini, i jambu air, o rose apple, i jack fruits, i passion fruits, eccetera. Spesso trova dei motivi per ridere, spesso si scusa per qualche cosa. Ora è proprio l’orario in cui gli scolari del secondo turno vanno verso le scuole a piedi. Ci fermiamo a salutare due belle bimbe che stanno andando pian piano con il loro zaino e sotto un ombrellino colorato parasole, e poi le  prendiamo su per accompagnarle fino alla loro scuola, dato che è un percorso tutto in salita. E intanto tentiamo di scambiare due parole con la traduzione di Nyoman, ma loro si vergognano molto a rispondere. Il bidello all’ingresso è sorpreso che arrivino in macchina con stranieri, e alle altre compagne, a vederle scendere dall’auto scappa da ridere. Avranno una avventura da raccontare.
Questa è proprio la vera Bali rurale. In questa vallata o area, sono passati o si sono fermati, alcuni grandi personaggi occidentali, come Walter Spies, un famoso artista tedesco che si innamorò del Paese e di questa gente, e per sfuggire ai troppi turisti che già negli anni Trenta venivano a Ubud, si fece costruire una casa qui. Oltre a lui vennero Colin MacPhee, lo scienziato naturalista Alfred Wallace, i coniugi Maragaret Mead e Gregory Bateson, il pittore belga Jean La Mayeur, e vari altri europei non-colonialisti, che hanno studiato, amato, e difeso questo Paese e la sua cultura. Tra cui non ultima Idanna Pucci nel 1973 e anni seguenti.
Quel che sempre colpisce quando è ben illuminato dal sole è il colore verde squillante delle erbette del riso.

BESAKIH

Continuiamo per una strada secondaria a salire verso Pura Besakih che si trova a quasi mille metri di altitudine ai piedi del vulcano. Lui pronuncia bSakì o bSaké, che è il Tempio-Madre dell’hinduismo balinese. E’ ricco di meru, cioè di pagode a più piani (fino a 11 tetti fatti con la fibra nera di palma). E’ il complesso templare più importante ma anche più grande e venerabile di Bali, contiene 22 templi, in un’area di tre km quadrati. Molto è stato danneggiato da un terremoto nel 1917, e poco invece dalla eruzione del Gunung Agung di cinquant’anni fa, nel 1963. Si paga un biglietto di 1€ per entrare nell’area, ma dopo 500 metri fitti di bottegucce (dove ci soffermiamo per comprare un “turbantino” da regalare a Michele), non si può avere accesso alla parte consacrata dato che la scalinata di ingresso è riservata ai fedeli. E dunque si guardano i templi (dove peraltro non si può entrare) a distanza. Ed è uno spettacolo, “una foresta” di pagode fitte e alte, e una moltitudine di pellegrini in visita che portano offerte. E’ un incessante arrivare di gente che raggiunge Pura Besakih con i più diversi mezzi, in auto, in moto, a piedi, col taxi, in pullman, portando una gran quantità di offerte che non so dove si possano accumulare in così gran quantità.
Il tempio principale è dedicato alle tre supreme divinità hindu, cioè a Brahma, inteso come il fuoco creatore, Wisnu in quanto acqua calma e protettrice, e Siwa come il vento che disperde (mentre in altri casi simboleggia la terra fertile che produce incessantemente forme di vita). Ci avviciniamo ancora un po’ ma poi ci fermano. Salendo sulla destra le statue degli spiriti cattivi fanno la guardia, e sulla sinistra gli spiriti buoni sorridono sereni.
La festa più grande e solenne che si tiene al Tempio Madre è chiamata Ekà Dasa Rudra, e si tiene una sola volta per secolo. Nel Novecento si svolse nel marzo di cinquant’anni fa, e in quei giorni si sentivano i primi borbottii, e rimbombi premonitori del grande vulcano, che dieci giorni dopo l’inaugurazione dei festeggiamenti, il 20 marzo dopo 120 anni di quiete eruttò e la lava mancò Pura Besakih per pochi metri, ma morirono migliaia di persone e decine di migliaia persero tutto, casa, campi, beni.
Quando la Terra aveva soltanto 70 anni di vita, l’isola di Bali soffriva per le piogge torrenziali eccessive, continui lampi e fulmini, e terremoti che duravano mesi, allora il dio Pacupati, che risiede sul monte Sumeru (o Meru) vedendo questa instabilità inviò i suoi tre figli per calmare la situazione. Uno si stabilì sul monte Batur, uno sull’Agung, e uno sulle colline Belibis a Lempuyang, e assicurarono stabilità. Perciò il tempio più antico di Bali è quello di Lempuyang Luhur, dedicato a Iswara, il garante di pace. Ma il più sacro è questo sul monte Agung. Mentre il territorio del Batur è luogo di riposo.
Ora lo spettacolo qui è triplice, il complesso di templi, il gran vulcano subito dietro, e la gente vestita a festa che porta doni.
Riprendiamo il viaggio, quindi riprendiamo a salire verso nord in questa florida campagna. Ora di nuovo è sovrana Dewi Sri, la dea del riso e della prosperità. Risaie, piccoli tempietti famigliari, villaggi e contadini al lavoro.
Ci sono infiniti terrazzamenti, i sawah, il che richiede distribuire molta acqua. Il problema dell’acqua per irrigazione e da bere è sempre più grave, poiché lo sviluppo tumultuoso del turismo (che ha superato l’anno scorso la quota di 2 milioni di presenze a fronte di una popolazione di 3milioni e 900mila abitanti) ha determinato necessità nuove. Si dice che il turismo consumi 40 volte più acqua di quella consumata dagli abitanti, per cui si è dovuta sviluppare molto la capacità di riciclare acqua per irrigare e per gli animali, e si sono scavati molti nuovi pozzi. Dall’epoca di Sukarno (1945-67) -e più recentemente con la presidenza di sua figlia Sukarnoputri (2001-04)-, si sono costituite centinaia di cooperative denominate subaks, che si occupano anche di identificare i terreni più adatti al riso o piuttosto ad altro, e di razionalizzare e potenziare il sistema idrico. Se una cooperativa vuole deviare il corso della irrigazione o distribuire l’acqua di una nuova fonte, deve rivolgersi a un sacerdote (pedanda) e al Klian (amministratore) del locale tempio di villaggio che riunirà una assemblea del banjar nella sala wantilan, e coordinerà le scelte da compiere in accordo con i banjar vicini. Si è ora molto più attenti a evitare lo spreco (water waste) e a rendere più efficienti gli stabilimenti (compounds) con attività miste.
Salendo in montagna si vedono più spesso mucche e anche capre, queste ultime per produrre formaggio di tipo feta, sempre più richiesto. Sempre più fattorie sono ecologiche (organic farms) e producono tofu, tempeh, e melassa, o sciroppo di palma da cocco (molto simile al maple). Si produce ora a Bali anche il cioccolato, e naturalmente prodotti come l’olio di cocco, cinnamon-orange, cinnamomo o cannella all’arancia, cloves, chiodi di garofano, aloe vera, spearmint.
Infine giungiamo a Penulisan, sul bordo del grande cratere spento del Batur, in cui si è formato un grande lago. Ci fermiamo ad ammirare lo spettacolo panoramico. Sostiamo per la seconda volta nei pressi di Penelokan (nel municipio di Kintamani), da cui si vede bene anche il Gunung Satì. Pranziamo al ristorante (cinese credo) “Grand Puncak Sari”, dove c’è un buffet a prezzo fisso, per 6€,50 a testa. Vorremmo stare fuori sulla balconata, ma si alza un vento troppo forte. Prendiamo degli spaghetti integrali alle verdure cotte, che ci mettiamo in un cestino di vimini (cosa che nei posti a self service accade spesso), del pollo, e dei buoni dolci. Passata Kintamani vediamo un grande tempio nero con tante statue di demoni che sono là per proteggere la popolazione dal potere distruttivo del vulcano.
Poi da Penulisan inizia tutto il percorso in discesa verso la costa.
Ci sono molti alberi di mandarini, attraversiamo varie piantagioni, un grande bosco pieno di clop (così pronuncia Nyoman), cioè cloves, chiodi di garofano, che raccolgono a mano con una lunghissima scala a pioli e poi mettono a seccare ai bordi della strada asfaltata su teloni di juta. Il loro profumo è ovunque intenso con questo sole forte.
Entriamo nel territorio della reggenza di Bululeng. Arriviamo giù a Kubutambahan, e a sinistra, passata Sansit, si entra in Singaraja, che è una città grande in via di rapido sviluppo, ha circa centomila abitanti e si estende su un’area molto vasta. Era stata la capitale di Bali durante il dominio olandese, e poi con l’indipendenza il capoluogo della provincia delle isole minori della Sonda, finché l’isola di Bali non divenne provincia a sé stante (con capitale Denpasar, che ora ha mezzo milione di abitanti). Non è turistica, il che però in questo caso non è un pregio in quanto non ha praticamente alcun interesse per un visitatore. E’ caldissima (un po’ tutta la costa nord è più calda del resto) e brutta, un po’ sporca, caotica, con tanto traffico congestionato. Ci vive una notevole minoranza islamica, e anche cinese. Ma in definitiva mi è sembrata insulsa, una piccola “grande città”, era importante un tempo in quanto porto, ed era da qua che per forza passavano tutti i visitatori, una porta obbligata all’ingresso a Bali, oggi è un porto commerciale molto frequentato da mercantili e simili.
Giriamo sulla sinistra e andiamo verso ovest, dopo poco ritorna la calma e la tranquillità di una strada poco frequentata e alberata.

KALIBUKBUK
Arriviamo a Kalibukbuk, un paesino che si affaccia sulla grande Lovina beach. L’albergo a cui avevamo telefonato ha un bel giardino tropicale, ma il giardino su cui danno le camere è chiuso e riparato, quindi soffocante per il gran caldo, e non arriva la brezza, e poi è un po’ troppo lontano dalla spiaggia (con questo sole…). Ci dispiace ma non lo prendiamo. Andiamo a chiedere da un altro. Il Bayu Kartika Beach Resort cui pure avevo mandato mail e provato a telefonare, è qui a fianco, ma è chiuso, evidentemente già da un bel po’ di tempo, e dunque il n. di tel. a cui qualcuno rispondeva è relativo ad un altro utente. Chissà perché non ci dicevano “no, closed”. Ma a soli 50 metri dalla spiaggia, e molto arieggiato, c’è il Rini hotel. Ha camere molto spaziose con mobili in bamboo e rattan, la camera che ci danno ha due gran lettoni matrimoniali, e un grande bagno (chiuso), c’è una lounging veranda, ventilatore e A/C, un bel giardino, la piscina, e se vuoi vengono a farti qui i massaggi; costa 400 cioè 26€ in tre, incluso il BF (cioè 8€ e mezzo a testa). Ci fermiamo per 4 notti.
Andiamo subito in spiaggia, dove c’è in questi giorni un festival, e quindi ci sono bancarelle, stands, negozietti, bar, ristoranti. Ora stanno allestendo un teatrino sulla spiaggia. La spiaggia Lovina beach è grande, vi si affacciano 4 o 5 paesini; è stata chiamata così dalle iniziali di Love Indonesia.
In effetti sembra che siano convenuti qui tutti gli abitanti dei paesini d’intorno, e per noi in realtà anche loro sono parte dello spettacolo (molto seguito anche dai numerosissimi bambini). Una bella ragazza spiega anche in inglese il significato della prossima rappresentazione. Poi inizia uno spettacolo teatrale Barong molto simile a quello che avevamo già visto, ma qui è interessante guardare il pubblico, i piccoli e anche gli adulti partecipano molto agli eventi e sono attentissimi e entusiasti. Intanto c’è un bellissimo tramonto.
Il resto del festival è come una fiera di paese, con le bancarelle delle maschere tradizionali, e i grandi ventagli, o i circoli di gente che si affolla a crocchio per fare puntate in giochi d’azzardo più o meno illeciti. Andiamo a cenare al “Bintang Bali”, con musica live ma che non è proprio di gran livello. Ordiniamo, ma dopo un’ora (=60 minuti) di attesa, ce ne andiamo, nonostante le loro proteste (dicono che entro pochi minuti sarà pronto…). Ceniamo invece da “Astina”, carino, con anche posti per sdraiarsi.
Torniamo in albergo e Ghila si ferma a chiacchierare con una ragazza inglese.
La camera è effettivamente molto grande, in bagno purtroppo ci sono tante zanzare che si annidano negli asciugamani (vengono a spruzzare uno spray); l’aria condizionata non si riesce a regolare, è fissa sui 18°, mentre a noi di notte piace abbassare sui 27°, ma non meno, e alle 3 di notte ci risvegliamo congelati, per cui la spegniamo (ma l’indomani mi spiegherà come funziona quello strano remote control). Il personale è molto premuroso, e discreto.

21° GIORNO, martedì 24 sett. (Kalibukbuk)
Abbiamo le consuete incomprensioni al breakfast, forse per il fatto di aver detto io: “no butter on the toasts”, e Annalisa: “no butter (pausa) but fruit”, e la ragazza deve aver capito: butter and fruit to toast (burro, e per brindare, frutta…) quindi ci porta burro e succhi di frutta da bere. Andiamo sulla spiaggia, che stamattina ci sembra di grana grossa e scura, insomma non invitante, anche l’acqua di conseguenza sembra marroncina. Comunque è tutta piena di barche dei pescatori, e fuori in mare è tutto pieno di grandi barconi e di yacht. Andando più in là verso destra invece l’acqua è bella trasparente e cristallina, ma vediamo che ci sono i tubi con gli scarichi del villaggio. Qui i contadini con il loro orto e la loro campagna, con le galline e i pulcini, si confondono con i pescatori e le loro reti e i motori delle barche da riparare. Bruciano le sterpaglie, assieme anche ai sacchetti di plastica e a tutto quanto. All’ombra degli alberi si sente la bella arietta che c’è, e regna il silenzio. Il mare è piatto come l’olio. Certi pescano a pochi metri dalla spiaggia. Al rientro vediamo anche il tempio del villaggio, il Pura Desa, con i demoni a guardia dell’ingresso. Anche qua (come nei dipinti di Klungkung) ci sono raffigurati il paradiso, e gli inferi.
Ritorniamo in albergo, il tizio mi fa vedere che sul telecomando ci sono solo due pulsanti: uno “too cool”, e l’altro “too warm”, che si riferiscono alla sensazione del cliente. Questi pulsanti erano forse stati concepiti per semplificare le cose e venire incontro alle esigenze dei turisti occidentali, che di solito non capiscono nulla e sempre hanno comunque qualcosa di cui lamentarsi per cose assurde (il che molte volte è vero). Mentre in questo caso noi eravamo portati spontaneamente a premere quello contrario, e così sbagliare comando e attribuire il malfunzionamento alla solita irrazionalità di come “loro” si “organizzano” in modi assurdi, per pura insipienza. Insomma schiacciavamo “warm” per alzare la temperatura del condizionatore di almeno dieci gradi. Per il resto del tempo stiamo in albergo a causa del gran caldo.
Al lunch Ghi prende un sandwich che si chiama sandwich with tomatoes e altri ingredienti, ma chiede che lo facciano senza metterci pomodori, “is it possible?”, e la ragazza risponde: “yes possible”. Quando poi secondo la solita e ottima abitudine la cameriera fa il riassunto delle nostre tre ordinazioni, incomincia dicendo: “one sandwich with tomatoes”, e Ghila: “but I told you without”, e lei: “tomatoes?”, Ghila: “yes tomatoes!”, e lei: “so you want one sandwich with tomatoes”; Ghi: “no without”. A questo punto la ragazza è sconcertata.
Dopo pranzo andiamo a riservare per domani una gita breve (cioè di tre ore) a buon prezzo. “Vogliamo andare a vedere il monastero buddista, e la fonte sulfurea”, “OK -dice- a domani allora, si parte alle 2 pm”, “ah allora no -diciamo- perché noi vogliamo andarci al mattino”, “al mattino??!”, “sì, perché non è possibile?”, “vado e chiedo” e chiama un altro, che viene e ci dice che in effetti questo non è possibile, così noi confermiamo che allora non ci interessa, e stiamo per andarcene a cercare un altro con cui contrattare. Delusi ci chiedono “ma a che ora voi dovete lasciare l’albergo?”, e noi: “?”, “volete partire così presto forse perché poi avete il volo di ritorno?”, noi: “??!!”, “scusate se ve lo chiediamo, ma è per capire come mai volete andare in gita così presto”, “ma noi non vogliamo proprio partire presto, no”; “ma avete chiesto un auto per le 2 a.m. anziché le 2 p.m. …”, “no, noi non abbiamo mai chiesto una cosa simile, anzi noi partiremmo non prima delle 9 a.m.”. Insomma avevano capito che non volevamo partire alle 2 del pomeriggio ma del mattino, anziché genericamente al mattino. Ultimamente mi sono forse attardato un po’ troppo a dare una idea di situazioni di fraintendimento o difficoltà di comunicazione e di reciproca comprensione. Ma poi in effetti questa realtà non è che sia così generalizzata.
Nel pomeriggio abbiamo fatto un buon massaggio balinese, sono venute al bordo della piscina, dove ci sono in fondo sotto una tettoia tre brandine di legno per questo, due tizie brave, la mia, che si chiama Ny Wayan, è stata per me la migliore sino ad adesso. Full body di un’ora, 4€uro.
Sugli alberi davanti alla nostra veranda ci sono due scoiattoli. Ieri abbiamo visto un grande lucertolone con il dorso giallo. E durante una sosta dell’auto l’altro giorno, abbiamo visto delle libellule veramente molto grandi. Poi ricordo delle lucciole, e vari uccellini un po’ strani, certi con un ciuffetto, altri a colori sgargianti. E anche qui al mattino si sentono strani versi e cinguettii.
Andiamo a cena in spiaggia, in fondo a sinistra. Quasi 15€ in tre per un cocktail di gamberi, un chicken “Kiev”, e un fish snapper al vino, e una soup di zucca, più il bere (e le tasse).
Oramai ci si ritrova al momento di pagare, con in tasca pacchi di biglietti vecchi e sporchi da mille,  2mila, 5mila, 10mila… (vi ricordo che ce ne vogliono tra 15.400 a 16.300 a seconda della giornata, per fare un euro).
Anche qui si vedono signore in età (occidentali) che cercano giovani “gigolots” balinesi (e ovviamente viceversa: anziani che cercano delle giovani “escorts”) il che a volte fa un po’ effetto, come è accaduto stasera a cena nel tavolo di fronte a noi, per cui abbiamo sentito tutta la trattativa (ma in quel caso poi la signora non ha accettato la cifra richiesta, o non ha avuto una buona impressione su di lui).
Vediamo alla handycraft exibition dei bei lampadari da tavolo, composti da conchiglie, altri di rafia, o paglia, o listelli di bambù, e poi delle belle cinture intrecciate, e conchiglie o anche pezzi di legno tutti lavorati e intarsiati, sculturine in legno, vassoietti particolari, e insomma tante cose carine. Sanno fare dei bei prodotti dal punto di vista estetico con poco, con materiali poveri. Sono millenni di esperienza, se si considera che è proprio qui che è nato l’essere umano (si pensi alla donna di Flores, appartenente alla specie Homo Floresiensis, e all’uomo di Giava orientale, un Homo Erectus, entrambi trovati nelle isole accanto).

XXII GIORNO, mercoledì 25 settembre (Kalibukbuk e dintorni)
Al mattino me ne sto a scrivere questo diario ammirando questo bel giardino tropicale interno, in mezzo a tanti cinguettii. Mi accorgo di essermi dimenticato di mettere la batteria in carica. In generale si trova disponibile una sola presa elettrica nelle camere, mentre oramai abbiamo vari “aggeggi” dalla fotocamera al cellulare, all’iPad. Le prese negli alberghi comunque sono tutte come le nostre (tranne rarissime eccezioni), comunque è più prudente portarsi un adattatore.
Arriva Wayan Suda, con il suo taxi, partiamo alle 9. Per prima cosa dobbiamo cambiare i soldi, andiamo al vicino “Tip Top” un negozio che fa anche da money changer. C’è un giovane cameriere che sta mettendo cestini di offerte in tre o quattro posti di passaggio e fa i gesti rituali, sparge dell’acqua con una bacchetta, e il fumo degli incensi con una mano. In tutto il mondo ci sono praticamente solo due forme di religiosità: quella popolare, semplice e ingenua, fatta di gesti, di ritualità, di cerimoniali, di parole, canti, melodie, nenie, invocazioni, ed è basata sulla speranza, sulla intercessione nei confronti di una o più entità dai sovrumani poteri, affinché ti protegga, che si prenda cura di te e dei tuoi problemi, esigenze, aspirazioni. E questa religiosità si intreccia con tradizioni, antiche credenze, folklore, eccetera. E un’altra, una spiritualità più profonda, in parte anche astratta, fondata su una sua simbolica, e sopratutto su elaborazioni filosofico-spirituali raffinate, che intenderebbe essere onnicomprensiva, vissuta nella interiorità, e che tende all’armonia, all’accettazione, all’incontro.
Siamo dunque nel territorio della regency di Buleleng, corrispondente ad un antico importante regno balinese, dal nome di una pianta tipo il sorgo, una graminacea endemica simile al grano. Fu fondato all’inizio del Seicento, stando a un manoscritto lontar, a partire dal castello del Re Leone (Singaraja). Attualmente è la reggenza più vasta, comprendendo quasi un terzo dell’isola. Oggi è nota per le sue tradizionali cerimonie di matrimonio, e per quella per i defunti, chiamata Ngaben, e per la gara di corsa dei buoi locali di razza Sapì Gerumbungan. La terra è molto fertile, si coltivano anche alberi da frutta come il durian, il mangostin, il rambutan; l’agricoltura occupa l’80% del territorio, per cui il suo, si dice, è un oro verde.
Si viaggia bene perché c’è poco traffico, guardiamo il paesaggio e le coltivazioni di tragàn.
Si gira a sinistra a Dencarik, verso un villaggio che si chiama Banjar. Eccoci arrivati. Visitiamo il monastero buddista di Brahma Vihara Ashrama, l’unico di Bali (ma in realtà ne avevo visto uno piccolo a Ubud), che si arrampica su per una collina. Ha cinque livelli, in salita. Ogni ripida scalinata ha scritte sui gradini che si riferiscono ad un percorso di ascesi di perfezionamento dei livelli di meditazione e di esercizi spirituali. Ci sono in tutto circa tre piccoli templi, una piattaforma per la meditazione all’aperto, e due stupa (uno piccolo e uno grande). Le stanze dei monaci, e un paio di statue del Buddha Gautama, una in meditazione e una in una replica del boschetto e dell’albero di bodhi sotto cui raggiunse l’illuminazione (ovvero il para-nirvana). C’è una torretta con un grosso cilindro di legno (penso di teak) da percuotere per i richiami alla scansione delle attività orarie, che si chiama kulkul, in effetti ce n’è uno maschile e uno femminile, ovvero con un suono basso e uno più acuto per differenti chiamate, ma anche il ritmo stabilisce quale sia il messaggio che convenzionalmente sta diffondendo. Ci sono un paio di cortili con terrazze, da cui si vede giù l’oceano e su il monte. C’è un gran silenzio, e una bella brezza. Lungo le scale o i perimetri ci sono delle statue di figure protettrici. C’è una bella atmosfera di pace e di serenità.
Questo incanto ad un certo punto viene un pochino interrotto e disturbato da un gruppo di visitatori, che per fortuna poi entro breve tempo se ne vanno. Intanto per arrivare qui e poi per andare alla sorgente calda, attraversiamo dei paesini, poveri, non turistici, templi, negozi, mercati, incontriamo anche qui bimbi che escono da scuola, e ammiriamo come al solito la bella vegetazione e fiori stupendi.
Poi andiamo a visitare una vicina fonte sulfurea di acque calde e tiepide, si chiama “Permandian Air Panas Komala Tirta” (=holy hot spring waters). Qui ci sono tre vasche dove cola da certe imboccature l’acqua di sorgente, che sgorga calda dalle profondità del terreno. Ci immergiamo anche noi in una di queste vasche. E’ un’acqua giallognola e densa, a 32° gradi. Ci sono sia balinesi e indonesiani, che visitatori stranieri (tra cui molti asiatici). E’ nel bel mezzo di una giungla fitta. Questa fonte è considerata  un luogo sacro e dunque quella in cui ci si immerge per loro è acqua santa. Scambiamo due chiacchiere con una guida che sa abbastanza l’italiano, e sta accompagnando una coppia di neosposini italiani in un giro dell’isola. Da qualche tempo è divenuta una moda fare a Bali il viaggio di nozze, o anche venire a sposarsi qui e poi fare la luna di miele in qualche bella spiaggia.
Torniamo all’albergo e prendiamo un lunch un po’ tardivo. Ci sono cinque donne e ragazze impegnate per ore a intrecciare cestini per offerte (come già avevamo visto per due giorni consecutivi a casa di Yande Budyasa). Poi resto in veranda a leggere reportages su alcune altre delle 16 mila isole dell’Indonesia, fantasticando un altro possibile viaggio (noi già avevamo fatto un indimenticabile viaggio a Sumatra tanti tanti anni fa).
Alla sera facciamo di nuovo un bel massaggio. Io chiedo che venga Ny Wayan che è una sorta di mammona scura, sorridente, forte e brava. Me lo sono goduto proprio questo relax, con tutta la esuberante vegetazione tutt’attorno, in quella specie di gazebo di legno sopraelevato col suo tettuccio di paglia scura, e gli uccellini che all’imbrunire esplodono in mille suoni, cui poi si aggiungono i gridi sonar di uno stormo di pipistrelli che volteggiano in ampi e lunghi giri proprio sopra la nostra testa.
A cena la spiaggia è stracolma di gente dei paesi venuti giù per la fiera. Caos, motorini, scappamenti , bancarelle, carretti con cibo, tutti in spiaggia. Mangiamo di nuovo da “Astina”, io prendo pesce (calamari alla griglia) e pancake all’ananas e yogurt con miele, e loro sandwich con ham&cheese, e calamari con verdure, e yogurt con frutta, più la solita gran quantità di acqua e bibite. Chiediamo facendo l’ordinazione dello yogurt con frutta: “which fruit?”, “yes with fruits”, “but which kinds? banana, pinapple, watermelon?”, “yes, yes, with fruits”… Comunque sono quasi 11€ in tutto.
Al rientro in camera c’è un ben grosso-grosso ragno in bagno.

XXIII giorno, Giovedì 26 settembre (Kalibukbuk)
Tirano su petali e foglie da terra per utilizzarli nei cestini delle offerte, e anche per fare pulizia, dato che ne cadono a terra una gran quantità ogni giorno, ma poi magari lasciano lì i mucchietti da buttare per giorni. Anche stamane arriva la signora con fasce di paglia e di foglie per mettersi al tavolino con le giovani a lavorare a fare cestini.
Sleggiucchio un libretto pubblicato dalla Radio Nederland su Rimbaud che si arruolò volontario nella Armée coloniale néerlandaise per poter viaggiare a visitare Sumatra e Giava (J.Degives, F.Suasso, “De Charleville à Java”, préf. A.Borer, RNW, Hilversum, 199).
Il nostro albergo è di una balinese e del suo marito svizzero.
Andiamo per il lunch al “Tropis Bay”, anche qui tutto si svolge con grande calma e tempi lunghi. Alla fine ci si spiega sulle ordinazioni dei piatti. C’è pochissima gente in giro adesso che è finito il festival, e pochissimissimi stranieri.
Forse non l’avevo ancora scritto ma in molti posti, e in molti  casi, si può ricevere anziché un piatto di ceramica, un largo cestino piatto di paglia, o raffia intrecciata, su cui mettono un foglio ritagliato rotondo di carta oleata da un lato, come la carta per avvolgere gli alimenti , e lì ci appoggiano la tua porzione del cibo, per cui poi si butta il disco di carta. In certi casi può essere più igienico di un piatto mal lavato molto velocemente in un secchio o lavandino con acqua di lavatura di piatti, rinnovata troppo raramente. Bisognerebbe guardare anche nei bei posti dove lavano i piatti e le pentole, prima di scegliere dove andare.
Per fare una ordinazione bisogna chiamare espressamente il cameriere e dirgli “ready to order”, se no forse non verrà mai e ti lascerà là col tuo menù in mano. Poi bisogna avere le idee ben chiare, e scandire bene le parole, e facendo l’ordinazione anche indicare intanto col dito la riga dove è scritto quel piatto sul loro menù, e poi ripeterla. Quindi alla fine ripetere il tutto. Il cameriere, o la cameriera, dopo aver scritto le ordinazioni, farà il rituale riassuntino riepilogativo per avere conferma, e intanto, o subito dopo, conviene dirglielo di nuovo. Non pochi comunque, anche se a volte può non sembrare, capiscono, e prendono nota anche delle eventuali richieste di piccole variazioni. Dopodichè  non resta altro da fare che predisporsi ad attendere speranzosi. Magari può convenire ogni tanto fare dei richiami. Però magari consiglierei di non lasciare mai che si superino i 60 minuti.
Si, è finita la fiera, e la spiaggia di Lovina è quasi deserta, e il villaggio di Kalibukbuk è ora un tranquillo e sonnolento paesino. La piazza è vuota, il parcheggio pure. Viene Ny Wayan a farmi un altro bel massaggio balinese full body. Sembra un po’ una mamie negrona della Louisiana, mista con una madrina hawaiana.
Alla sera per cena andiamo al “Rendez-vous – the escape for romantics”, dove suonano vecchie classiche canzoni di bossa nova, o di jazz, o un po’ messicane, sempre anni ’60/’70. Bravi. E così passiamo l’ennesima serata con live music.
Sempre nei warung c’è un lavandino dove lavarsi le mani, spesso indipendente dai bagni. Qui passo, appunto per andare in bagno, vicino alla cucina e vedo che una delle tre cuoche è giù accucciata per terra davanti ai fornelli con un piatto in grembo, che sta mangiando mentre le altre cucinano. Il lungomare, e la spiaggia sono semideserti.

VENTIQUATTRESIMO giorno, venerdì 27 (Kalibukbuk)
Ci siamo alzati alle 6 per andare a incontrare i delfini. In poco più di un quarto d’ora già si giunge in un area dove ci sembra di veder brillare le sagome di tonnetti che saltano, in realtà sono questi delfini di stazza medio-piccola. Poi cominciamo a vedere il primo branco di decine di delfini che ci vengono incontro e che si affiancano alla barca. Poi ne vedremo qua e là, gironzolando per il mare aperto come in un photo-safari. Vari altri delfini di branchi numerosi che ci vengono molto vicino e fanno dei guizzi fuori dall’acqua per farsi ammirare. E’ un grande spettacolo, emozionante. Non verremmo mai via.

Partiamo con Wayan Sudà (sudawayan@hotmail.com), e andiamo su in montagna, in mezzo alla solita, ma sempre sorprendente vegetazione lussureggiante, e a piantagioni di vari alberi da frutta. Il primo lago che troviamo in cima è danau Buyàn, lungo 7,5 km, che ammiriamo dalla cresta di un ex grande vulcano omonimo. Ci fermiamo per ammirare il vasto panorama, c’è una colonia di piccoli macachi. Si vedono giù dei templi. Quindi ci spostiamo verso l’altro lago il Bratan, dove c’è il Pura Ulun Danu Bratan, noto come Water Temple. Ingresso due €uro a testa (!). E’ una grande area con il tempio molto bello sull’acqua, e varie pagode a vari piani, e con attorno un bellissimo giardino molto ben tenuto. E dietro la montagna. Poco dopo l’ingresso c’è un bell’alberone sacro con un intrico di radici. L’insieme da una sensazione di riposo e di serenità, nonostante proprio ora siano arrivati dei pullman con diversi turisti (quasi solo malesi o indonesiani, o cinesi). Ci sono pure dei recinti con dentro due daini, o cervi piccoli, che appartengono ad una razza specificamente balinese (non so se menjangan o muntjak), che si dice sappiano anche nuotare, e quindi sarebbero la specie che per prima ha raggiunto Bali da Java. Ci sono anche un bel tucano di un blu-giallo squillanti, una civetta, quattro allocchi, un paio di uccelloni, una decina di pipistrelli di circa 40 cm. avvolti nelle loro ali come in un sacchetto o in una membrana.
Wayan Sudà ci propone di pranzare qui in un ristorante sul lago, ma è presto e poi il locale, pur bello, non ci attira. Tra l’altro nel frattempo si è tutto rannuvolato. Quindi ripartiamo. Proseguiamo in discesa, Bali è veramente un piccolo mondo, c’è di tutto, dai montanari, ai pescatori, dai contadini, agli allevatori di bestiame, a quelli dei pescherecci di altura, agli addetti al turismo, agli artigiani, gli artisti, eccetera eccetera. C’è pure una gran varietà di flora, a seconda delle differenti altitudini, oppure tutta frammischiata. E tanti vari climi, da quello umido, a quello più secco e ventoso, dal caldissimo con meno vegetazione, al mite, alla giungla, ecc.
Secondo una leggenda hindù, Bali fu il luogo in cui trovarono rifugio gli dèi scappati da Giava; le divinità raggiunsero quest’isola che era insignificante e quindi crearono montagne, laghi, vulcani, campagne, fiumi e foreste trasformandola in un vero e proprio paradiso. Questa piccola isola dell’arcipelago minore della Sonda è un insieme di elementi che si combinano ed intrecciano, contribuendo a renderla davvero un luogo ricco e speciale.
A Pacung (leggi Paciung), siamo oramai entrati nella reggenza di Tabanan, è ora di pranzo, e ci fermiamo ad un buffet (che ci sembra) cinese, “Labhagga”, un self-service a 5€ e 30 a testa.  Ci sono clienti di tutti i paesi del mondo, dalla famiglia araba integralista, in cui lei ha fuori solo gli occhi, e per bere e mangiare deve sollevare con discrezione il velo e passare sotto la forchetta, fino alle ragazze giapponesi spigliate e scatenate, alle malesi che sembrano un po’ le nostre suore, con il collo coperto e la visiera sulla fronte, alle belle balinesi, ai turisti occidentali bianchicci e sudati, a quelli di Java, eccetera fino ai discendenti dei pirati delle Molucche. Gli asiatici preferiscono fare qui in campagna e sul lago le loro vacanze, mentre gli occidentali preferiscono le spiagge. Poi riprendiamo la discesa e attraversiamo vari paesini, e villaggi, con i loro mercatini alimentari, e templi famigliari. E infine rieccoci in pianura, ci dirigiamo verso la costa sud-ovest.

TANAH LOT
Infine arriviamo all’albergo a Tanah Lot. Sembra un albergo che dev’essere stato un bell’hotel vent’anni fa, e ora è stato riattato. Si chiama “Dewi Sintà”, la camera, in cui aggiungono un letto singolo, ci costa quasi 23€ con le tre colazioni e tasse comprese. E’ un po’ particolare, molto orientale per il mobilio pesante e per i bagni (chiusi) in marmino, o granito verdino/giallognolo. Non è tanto grande, ci sono solo 20 camere. Ma è un bell’albergo, con suo ristorante, giardino, piscina, spa. E’ sparso su un’area di un terrazzamento in discesa, vicinissimo all’entrata alla zona del tempio. Ed è uno dei soli tre alberghi di Tanah Lot. Ci fermiamo per tre giorni. (www.dewisinta.com).

Andiamo subito a vedere il tempio Pura Daya Tarik Wisata e il mare (il biglietto d’ingresso, che si paga una volta sola, costa 30 mila per noi stranieri -cioè un €uro e 80- e 10 mila per gli indonesiani). Bisogna percorrere una sorta di viale costellato da bancarelle e negozietti.
Il famosissimo tempio è proprio sull’acqua, in una penisoletta (tanah lot significa terra in mare) contro cui si infrangono le ondone dell’oceano. C’è un casino di gente come finora non avevamo visto mai, balinesi, indonesiani, asiatici vari, essendo giorno festivo e weekend, e anche degli occidentali. E’ un luogo veramente magico e la natura del posto è veramente straordinaria e di forte impatto. Ci può anche essere quanta gente vuole ma lo spettacolo che da la natura non cambia ed è eccezionale. Impressionante l’oceano indiano, il Samudera hindià, a perdita d’occhio (basti solo pensare che di fronte a noi ad angolo retto con la costa, non c’è più nulla da qui che è l’equatore fino al polo sud), e le grandi onde che si infrangono maestose. Molte delle venditrici ambulanti sono bambine (che propongono fermagli per i capelli, o fiori di plastica). Veniamo gentilmente fermati da un gruppetto di ragazze che sono studentesse di 17 anni, che ci vorrebbero fare una intervista per la scuola. Sono praticanti future guide turistiche. Carine.
Fra poco ci sarà il “rito” del tramonto sull’orizzonte. Restiamo, ammaliati dalla potenza delle acque, ad aspettare il momento magico dell’ “inabissamento” di Surya. Inoltre ci sono nell’area ancora altri tre o quattro templi minori, oltre a quello più antico e famoso del 1408, come Puri Kediri, dove si conserva una reliquia, il kris (o keris) di Nirartha, e poi il tempio un po’ più lontano, il Pakendungan.
Finito il tramonto ci riposiamo bevendoci il liquido di un cocco fresco che ci hanno aperto al momento. Poi al bar-ristorante del Dewi Sinta ceniamo molto più presto del nostro solito perché accettano l’ultima ordinazione solo se fatta entro le 8pm. Dal menù scelgo una crema di mais e una teak al pepe nero. Ci sono più o meno sempre le stesse cose. Certi menù completi, cioè con tanti assaggini, vengono serviti nei tradizionali baskets. Ghi e AL prendono soto ayam, una soup di pollo con verdure, e i jaffles, che sono dei triangolini di toast farciti. La zuppa soto ayam, molto diffusa, non è da confondere con i Saté Ayam che sono degli spiedini di pollo con peanuts sauce. La ricetta della zuppa di pollo balinese è questa (dalla già citata rivista “Gili Life”, n.03, september 2013, p.64, ma ripresa su: www.bigfood.it):

INGREDIENTI PER 4 PERSONE:
– 1 pollo disossato e tagliato a – tocchetti
– 400 gr di cavolo bianco
– 4 patate
– 2 cipolle
– 2 coste di sedano
– 2 spicchi d’aglio
– 4 uova sode
– 1 limone
– qualche mandorla sgusciata
– ½ cucchiaino di coriandolo in polvere
– ½ cucchiaino di curcuma in polvere
– ½ cucchiaino di zenzero in polvere
– 2 dl d’acqua
– 1 foglia di limone
– qualche stelo di erba cipollina
– 2 cucchiai d’olio
– sale
1.Sbucciate una cipolla, l’aglio e tritateli con le mandorle, unitevi le spezie e mescolate per bene. Scaldate l’olio in un tegame e rosolatevi il composto. Poi bagnate con l’acqua e aggiungete il pollo pulito.
2.Insaporite con una presa di sale e cospargete d’erba cipollina tritata; unite anche la foglia di limone. Cuocete per 40 min. su fiamma moderata. Intanto, lavate il cavolo e tagliatelo finemente a striscioline, poi sbollentatelo, scolatelo e tenetelo da parte fino al momento dell’utilizzo.
3.Spazzolate le patate e lessatele in poca acqua salata a pressione per una ventina di minuti. Poi scolatele e affettatele sottilmente. Mondate il sedano e affettatelo finemente. Sbucciate anche l’altra cipolla e affettatela; fatela soffriggere in poco olio.
4.Ultimata la cottura del pollo, tagliatelo a pezzettini e distribuiteli in 4 ciotoline individuali; unite un po’ del cavolo, qualche fettina di patata, un uovo sodo a spicchietti, il sedano e coprite con il brodo filtrato di cottura. Cospargetevi sopra qualche anello di cipolla soffritta. Portate subito in tavola.

Andiamo a letto prestissimo.

25° GIORNO, sabato 28
Faccio un giro dalle parti del tempio, al mattino non c’è nessuno. Vedo la sacra grotta sotto al tempio, dove si lasciano le offerte.

TABANAN
Non trovo più le mie pillole, che pure mi ricordo di aver preso in abbondanza a casa prima di partire. Così con un taxi andiamo al capoluogo Tabanan e giriamo tante farmacie senza trovare quelle di cui ho bisogno. Andiamo anche alla farmacia interna dell’ospedale, infine in una cittadina vicina le troviamo. Lo stesso driver avrebbe voluto intanto comprarsi delle mascherine, ma se ne era dimenticato essendo intento ad andare in cerca sempre di altre farmacie, e solamente dopo che ho risolto, gli è tornato in mente e si ferma dunque in una ennesima farmacia, ma per sé. Tra l’altro nel frattempo avevamo telefonato all’albergo per dire a Ghila di controllare in una certa tasca laterale per vedere se le mie pillole erano là. Poi Ghi ci racconta che era venuto uno dello staff in camera e le ha detto “you call”, e lei gli ha risposto: “no, I did not call” (no, io non ho chiamato). Poi ha sentito che suonava il telefono nella camera accanto che è vuota. Infine è venuto un altro a dirle “you, call!”, e allora lei ha intuito ed è andata al banco della ricezione. Eravamo noi, che proprio in quel momento avevamo trovato il prodotto giusto, e lo stavo acquistando, intanto Annalisa le telefonava per dirle di non preoccuparsi. E così lei le ha detto che prima di uscire di stanza le aveva trovate, ma che non era riuscita a telefonarci (qui c’è spesso un campo debole di segnale, oppure che va e viene). Ma oramai la comunicazione avveniva proprio in contemporanea esatta mentre stavo pagando alla cassa. Comunque in questo modo abbiamo girato per Tabanan e sobborghi, che sono luoghi del tutto non turistici, e abbiamo un po’ osservato i loro servizi sanitari, e una città normale (cioè non ci sono sfilze di negozi solo turistici uno dopo l’altro) e la gente che lavora.

MENGWI
A questo punto gli chiediamo di portarci alla vicina cittadina di Mengwi, la capitale dell’antico regno di Badung (ora nella Reggenza col medesimo nome), per visitare il famoso tempio. Il complesso settecentesco di Pura wysata Taman Ayun (=giardino galleggiante), include anche un fossato interno, varie torri meru, ovvero pagode, e anche dei santuari dedicati ai monti, al mare e alle divinità dei campi coltivati. E’ chiuso entro mura di mattoni decorate e giustapposte a secco. Si passa una grande porta principale (ingresso un €uro). Nella corte vi è anche un padiglione giavanese, poiché il regno comprendeva anche l’estremità orientale di Java. L’insieme è contornato dal fiume e da canali, e si tratta del secondo tempio per grandezza, a Bali. La parte più sacra la si vede solo dai sentierini all’esterno della cinta, ma per fortuna nostra il muro è basso.
Fa molto molto caldo, e il cielo ora è sgombro quindi il sole picchia duramente (essendo pure mezzogiorno), ma si possono prendere a lato della biglietteria dei grandi ombrelli-parasole per il tempo della visita. I giardini sono molto belli, e l’atmosfera rilassante. Le torri meru sono affascinanti, e certe raggiungono gli undici piani.
Torniamo un po’ stanchi per il clima, ma non andiamo a Tabanan a visitare il museo del riso, che ci incuriosiva, perché è chiuso dato che ieri c’è stato un incidente ed è rimasto ferito il Presidente della Provincia (che attualmente è in ospedale), per cui ora devono fare delle indagini.
Tornati pranziamo, e poi io sto un po’ in piscina a rilassarmi e rinfrescarmi. Mentre stavamo mangiando viene il tipo della ricezione a dirmi di andare a pagare per il taxi di stamattina, gli dico, sì ora finisco di mangiare e dopo vengo; quando vado mi dice che se voglio posso pagare adesso, se no posso anche pagare tutto assieme con i pasti alla fine facendo il check-out. Poi esco a camminare e prendo il sentiero che sale lungo la costa a sinistra verso un grande campo da golf, e vedo dei bei bar che danno su una grande terrazza sull’oceano.
(Parentesi). Al Dewi Sinta ho preso un foglietto sulla leggenda del tempio, che è scritto in un inglese un po’ strano, ed è raccontato in un modo che per ceti versi pare “bizzarro”. Comunque ho pensato di tradurlo (migliorandolo) per far conoscere questa leggenda, che potrebbe forse anche ispirare qualcuno a scrivere una storia “orientale”.

“Ai tempi dell’antico regno giavanese di Majapahit, viveva un famoso sant’uomo chiamato Dang Hyang Dwi Jendra. Egli era molto rispettato da tutti per i servigi dati al regno e al suo popolo in tutti gli ambiti relativi alla prosperità, al ben essere spirituale, e all’armonia sociale. Era ben nota la sua dedizione al Darma Yatra, ovvero alla divulgazione della religione hindu. Era conosciuto anche come Tuan Semeru, o signore di Semeru, che è un grande vulcano nell’est di Giava. Durante una sua missione a Bali nel XV secolo, il reggente dell’isola a quel tempo, il raja Dalem Waturenggong, diede il benvenuto al sant’uomo con gran rispetto. I suoi insegnamenti si diffusero come il fuoco al vento, quando istruiva e predicava la via del Darma, ovvero il dovere. Egli stabilì anche molti templi per elevare la consapevolezza spirituale e approfondire la comprensione delle dottrine religiose dell’ induismo tra la popolazione di Bali.
Si dice che in quegli antichi tempi, mentre stava svolgendo la sua missione di Darma Yatra a Rambut Siwi, egli venne guidato verso est da una sacra luce. Seguì la luce fino alla sua radiante fonte che era una sorgente di acqua fresca. Non lontano dalla fonte egli giunse ad una località estremamente bella conosciuta dalla gente locale come Gili Beo. In balinese gili significa rocca o roccia, e beo vuol dire uccello. Era una grande roccia a forma d’uccello. Egli sostò in quel luogo per meditare e pregare il dio del mare. Dopo un poco sopraggiunse la gente del vicino villaggio di Beraban, ed egli predicò loro. Il loro capo era noto come Bendesa Beraban Sakti, ovvero il santo leader di Beraban. Fino a quell’epoca le credenze religiose locali erano basate su un monoteismo animista, immediatamente si diffuse la notizia della presenza di Dang Hyang, detto anche Nirartha, insegnante di religione, e molti dei paesani si fecero suoi discepoli. Gradualmente i seguaci di Bendesa Beraban cominciarono ad abbandonarlo per seguire la nuova via. Ciò innervosì Bendesa Beraban e egli radunò i suoi fedeli e andò dal sant’uomo a chiedergli di lasciare quel territorio. Con forza mistica il santo sollevò la grande roccia su cui aveva posto la sua sede, e la scagliò in mare. Quindi tramutò la sua sciarpa in serpenti e ordinò loro di stare a guardia del suo rifugio. In quell’occasione denominò lo scoglio Tengah Lot, cioè terra in mezzo al mare. Alle fine Bendesa Beraban, rendendosi conto dei poteri spirituali di Nirartha, si mise lui stesso ad apprendere la via e le dottrine predicate dal sant’uomo, e divenne il suo più fedele seguace, e fece sapere che dava al proprio popolo il messaggio di aderire alla fede hindu. Come segno della sua gratitudine, prima di partire, il santo mostrò un sacro kris o daga, noto come Jaramenara, al capo del villaggio. Questo sacro kris è custodito sino ai giorni nostri, nel tempio di Pura Kediri ed è considerato una reliquia e un gran tesoro. Ogni anno alla speciale cerimonia di Kuningan si rende o ore al mistico kris, nel giorno noto come Rebo Keliwon Langkir che si festeggia ogni 210 giorni secondo il calendario balinese, con un pellegrinaggio al tempio di Pura Luhur Pakendungan. Questo antico tempio fu costruito proprio a 300 metri dal tempio di Tanah Lot. Questi due importanti e antichi templi sono essenzialmente uno, e sono ora collegati assieme da un sentiero.”

In effetti Dang Hyang Nirartha predicava l’esistenza di un Dio astratto superiore, originario, preesistente alla creazione, l’inimmaginabile vuoto assoluto da cui tutto nacque (anche gli dèi della trimurti, e anche gli spiriti della natura), cioè introdusse il concetto di Brahman (non Brama il dio creatore), che chiamò Sang Hyang Widhi Wasa, il Supremo onnipotente, e diede così fondamento metafisico alla congiunzione tra monoteismo e animismo; per cui favorì la costruzione di un trono apparentemente vuoto (padmasana) come sua raffigurazione.
E’ sempre un gran spettacolo la costa col tempio e poi questo pomeriggio c’è poca gente. Torno a prendere Annalisa, però con lei andiamo invece verso destra in direzione degli altri tempietti, fino in fondo al viottolo. Constatiamo che sono pochissimi gli altri alberghi, cioè tre, e anche altri posti per mangiare, che però oltretutto chiudono alle 7pm. In fondo c’è un albergo e ristorante a lato del quale domani sera si esibiranno nella danza kecak (pron. keciak), con fuoco e con kris col quale mimeranno (in trance) il suicidio collettivo. Torniamo in albergo, saluto l’uccello in gabbia che mi fa sempre dei fischi.
Eccoci a tavola, leggo il menù: Nasi Campur è un tipico piatto indonesiano, di riso fine al vapore, sateh, fried chiken e delle vegetables saltate in padella. Fu Yunghai sono uova strapazzate con piselli, carote, cipolle dolci, servite con sweet&sour sauce. Sateh Ayam, come ho già detto, sono spiedini di pollo con la salsa di noccioline, peanuts sauce. Kare Ayam sarebbe dello stewed chiken marinato con spezie e latte di cocco. Veg. curry, sono bean cirds, beancake, e veg. misti in salsa di curry. Terminata la cena chiamiamo a casa con Skype, e ho fatto salutare i micheli dai camerieri e impiegati portando in giro l’iPad, e si sono tutti divertiti da matti.

26a GIORNATA, domenica 29
Il tipo della Reception mi insegna ad usare Blue Tooth per i video sul cellulare e a scaricarli da Play store. Questo perché mi aveva visto registrare col cell. la musichetta col flauto che ci ossessiona ogni giorno. Mi dice che per risentirla una volta tornati in Europa, basta cercare “rindik Bali” su YouTube.
A loro piace davvero il gioco del bargaining, del contrattare anche duro, e poi ci guadagnano pure. Questo tizio si chiama I Putù Ekà e cioè Primo n°1, per distinguerlo dal Putuh che è venuto dopo di lui. Viene poi a darmi la ricevuta del pagamento del taxi che ieri non mi aveva fatto. Paghiamo il tutto e poi con un taxista diverso, che arriva accompagnato da quello di ieri che è venuto qui solo per presentarcelo e assicurarci che è un suo amico di fiducia, salutiamo e partiamo. Breve trasferimento di un’ora e mezza, giusto il tempo per lasciare la Bali reale ed entrare in una vacationland nel sud dell’isola. Anche se in realtà la nostra destinazione, cioè a sud dell’aeroporto, è meno frequentata di Legian.

KEDONGANAN
Ultimo posto del viaggio: un albergo moderno di stile balineggiante a Kedonganan, sulla baia della grande Jimbaran beach. Si chiama “Puri Bambu”, cioè luogo, sede, di bambù. Una standard room per tre, con bagno, veranda, breakfast, e plus plus di tasse, qui viene circa 22€ a testa, la cifra più alta di tutto il viaggio. Ma ora la camera non è stata ancora rifatta e quindi c’è da aspettare.
La spiaggia è vicina, ci si va a piedi, e là ci sono vari warung, e altro. Ci dicono che chiedendo, quelli di un warung vicino vengono anche a prenderti gratuitamente con un auto. E così combiniamo e viene uno con un van che ci porta in due minuti al suo ristorante, il “Ganesha”- live-fresh grilled & fried seafood. Così intanto guardiamo il mare dalla finestrona, naturalmente anche qui non può mai mancare la carta igienica in tavola, serve per pulirsi le dita. La tavola di marmo, non è proprio pulitissima, ma il posto è gradevole. Prendiamo riso, pollo, e pesce, i piatti sono saporiti e il pesce fresco, porzioni abbondanti, e bibite, acqua, due succhi di papaia, tot. quasi 9€ a testa.
Poi dopo mangiato ci mettiamo in spiaggia all’ombra a guardare le onde infrangersi, e la spiaggiona deserta. In fondo a destra (=nord) c’è il porto dei pescherecci, la maggiore attività di Kedonganan. C’è anche ovviamente un Fish Market di vendita diretta.
Siamo proprio a fianco dell’aeroporto e un’altra “attività” è quella di guardare gli aerei atterrare, ne arrivano ogni momento, è un continuo. Intanto arrivano arrancando nella sabbia rovente 5 desperados a cantare malino belle canzoni messicane, tipo “hay si te pego”: il primo sembra il leggendario “pennarossa” che si è oramai ritirato da ogni battaglia, il secondo un po’ più pasciuto sembra uno che è stato ex cuoco di brigantino d’alto bordo, e di un paio di altri vascelli pirata nel mar delle Molucche, ecc., poi c’è un peruviano rotolato giù dalle Ande, ecc. Quando finalmente se ne vanno, il più impacciato è quello con l’alto tamburo e il piatto-batteria, che sono troppo pesanti.
Ci sono vari altri ristorantini anche belli lungo la spiaggiona, e anche un tempietto.
Ora c’è qui con noi Mathias, l’ungherese, che è venuto apposta dalla vicina Kuta per ritrovarci. Domani partirà per il suo viaggio a Sulawesi (Celebes). Resta un po’ a tenerci compagnia, e azzarda un bagno tra le ondone, per cadere rovinosamente travolto ogni volta che ne arriva una. Al pomeriggio torniamo a prendere possesso della camera, e a farci un bagno in piscina. C’è un bel giardino tropicale interno.
Ceniamo in albergo.

Lunedì 30,  27° GIORNO
Il cambio oggi è di 15600, avremmo proprio bisogno di un po’ di rupie. Vedo che il nostro albergo sta in via jalan Pengera Cikan, il che mi fa un certo effetto, per l’assonanza con Pancera, e vedo che nel 2012 ha avuto il riconoscimento da Trip Advisor come migliore rapporto qualità/prezzo. Combiniamo con il driver Madé Juena e ci facciamo portare a fare un giro della penisola di Bukit (Bukit Badung). Andando verso sud si incontrano molti alberi di kapòk, e anche molte mucche Sapì. I balinesi mangiano, oltre a ortaggi, verdure e frutta, soprattutto pesce, ma anche carne di pollo un paio di volte alla settimana, mentre sono rarissime le persone che mangiano carne di vacca, invece un piatto tipico è il maialino “da latte” allo spiedo (baby Guling).

ULUWATU

Poi si comincia a salire in collina, a circa 200 metri sul livello del mare. Molto suggestiva la località dove c’è il tempio di Ulu watù (Pura Luhur Uluwatu). Per fortuna arriviamo di primo mattino e quindi prima dei pullman dei gruppi turistici organizzati dalle agenzie. In effetti alla fine della visita arriva un gruppone di ragazze australiane, e tutto cambia. E’ la posizione che è spettacolare, su un’alta rocca, a picco sull’oceano infinito, stagliato nel cielo azzurro con le grandi onde che si infrangono sotto.
Qua e là lungo il ns percorso vedo che ci sono varie scritte, soprattutto dove ci sono dei templi o luoghi con istituzioni o sedi religiose, in caratteri dell’alfabeto corsivo antico balinese. Ora lo insegnano anche nelle scuole. Made è contrario, dice che secondo lui è meglio utilizzare sempre solo l’alfabeto romano (così lo chiama) perché è uguale in tutta l’Indonesia e anche in Malaysia, e nelle Filippine, e in Vietnam, e anche in Australia ecc.
Poi vediamo la stupenda spiaggetta e golfetto di Padang Padang Beach, dove ci sono vari warung, e molte homestay, (e ci sono anche diversi muslim warung con cibo hallal), e si vedono molti surfisti, che girano in scooter con lo speciale porta-surf. Ma oramai anche qui stanno costruendo un grand hotel. Che ne sarà di qui a pochi anni di Bali?
Andiamo per vedere la famosa spiaggia di Dreamland, ma è un luogo orribile con una specie di piccola autostrada d’accesso, dove il ricco figlio del defunto dittatore Suharto, sta costruendo un mega posto con resorts a 5 stelle o più, e sta stravolgendo la conformazione fisica del luogo, oltre che aver cambiato tutto l’ambiente sociale, modifica proprio lo stesso paesaggio. Non riusciamo nemmeno a posteggiare, né a vedere la New Kuta beach per ricchi indonesiani e malesi. A quanto pare in un prossimo futuro non ci sarà più nemmeno il paese di Pecatu (pronuncia Peciatù), ma al suo posto un enorme “Indah Resort”.
Che cosa mai vuole dire “sviluppo”? e per chi? che cosa vorrebbe dire in certi casi l’aggettivo qualificativo “sostenibile”? è sconcertante: fra poco tutta questa vasta area non sarà più nemmeno accessibile ai comuni mortali.

PANDAWA beach
Andiamo allora a Kutuh, alla spiaggia di Pandawa beach, bella, con bell’acqua, e ci fermiamo un po’ a fare il bagno e stare sulla sabbia bianca. Ma anche qui si prepara una “sviluppo” distruttivo e sconvolgente, che annienterà la collina retrostante. (il parcheggio costa 5 mila, più 5 a testa per l’ingresso, quindi in totale spendiamo 1€). Si va giù per una strada ricavata nella roccia, con nicchie in cui ci sono una infilata di dèi hindu e personaggi mitologici. Poi giù c’è un bar, dei ristoranti, un tempio, un posto in spiaggia per fare massaggi all’aperto, con statue colorate di eroi leggendari.
Made ci dice a proposito della ripetitività dei nomi, che oramai tutti hanno un secondo nome, che è quello personale e “libero”, come Ema, Ana, Ary, o il suo Juena, eccetera, e poi un ulteriore elemento distintivo sono i soprannomi. Poi c’è la questione delle caste, che oramai non hanno più nulla a che fare con gli strati socio-economici, e sono solo validi per gli aspetti religiosi cerimoniali.
Vedo che nei paesi della penisola anche certe case e alcuni edifici grandi sono a pagoda, con due o anche tre tetti.
Passiamo il pomeriggio in piscina, e poi a farci fare un full body massage di un’ora (5€ e 30). Qui  al sud parlano meglio l’inglese e capiscono abbastanza bene le richieste o le domande che facciamo. Chiedo alla ragazza a che profumo è l’olio che adopera, e mi dice che c’è una essenza di pagni-pangi, che poi scoprirò essere il fiore frangipane col bordino rosso, che qui è diffusissimo.
In serata andiamo in spiaggia, dove (come a Mirissa in SL) ci sono i tavoli sulla sabbia con una candela sopra, e fanno alcuni spettacolini e complessini che suonano. Ci sono danze tradizionali, e alcuni balli moderni con l’uso spettacolare di torce.
Per un pacchetto (paket), ovvero menù fisso, di circa 30€ in tre, ci facciamo per cena una abbuffata di pesce fresco supersovrabbondante al “Balikù café”. Bella atmosfera.

28° giorno,  1° ottobre
Anche stamattina mi intrattengo un pochino con la bimbetta di una inserviente che se la porta sul lavoro; tutti/e i/le bimbi/e balinesi sono bellissimi/e. Ci sono i soliti cinguettii che tengono compagnia e fanno sentire “a casa”.
Per oggi andremo con lo shuttle bus gratuito dell’albergo a vedere Kuta per comperare dei regalini da portare a Ferrara. Oggi il cambio è tra 15999 e 16295 a seconda dei money changers. L’autista vuole imparare il francese e allora prova ad avviare una improbabile conversazione con una coppia (di cui lei è evidentemente di origine vietnamita o indocinese), e lei ride, ride e si diverte tanto, e poi resta sempre sorpresa. Alla fine della corsa tutti noi oramai contagiati ridiamo, e l’autista stesso pure ride di cuore. Si ferma a fare delle consegne o delle commissioni, per cui il tragitto dura molto più del necessario. Non si fa scrupoli anche in stradine strette a fermarsi e scendere, bloccando tutti quanti, e poi ritorna tranquillo.

KUTA
Andiamo per negozi, e ce ne sono di molto belli e di buon gusto. In uno, il bel “Handmade Balinese Lace”,  c’è sul tavolino un librone fotografico con immagini e disegni di Bali negli anni Trenta, di Arthur Fleishmann, D.Fleishmann, e P.deBont, a c. di F.Jansen, con reviews di M.Covarrubias, H.Powell, Georg Krausen, B.Zoete, e W.Spies, Theo Meier, e Willem Hofcker, per le Pictures Publishers. Molto interessante, sia per la parte dovuta al suo soggiorno a Bali, sia per le riproduzioni delle sue sculture, che per l’antologia di brani di autori che visitarono l’isola ottant’anni fa.
In questo bel negozio, dove Ghila si prova e si compra un bel vestitino estivo bianco, vedo che dal camerino fugge un topo che si precipita dentro ad un impossibile buchino che non avevo neanche notato.
Gironzoliamo per jalan Pantai, jalan Legian e dintorni, alla fine ci fermiamo in Kuta square e pranziamo al moderno “Bali Colada” perché ha l’aria condizionata. Prendiamo un club sandwich, Nasi Campur veggie, un pancake, e un piatto di penne alla puttanesca veramente buone e ben fatte, acque e coke, più tasse =15€ in tre. Poi loro due proseguono, e io resto là ad aspettarle, prendendomi un ottimo crème caramel. Ghila riesce a trovare  al Matahari a buon prezzo gli smalti per unghie (kutek) che cercava.
Quel che stiamo facendo oggi è shopping (ovvero i balinesi lo chiamano sopì), ma il fatto è che, da quel che si può vedere e che ascoltiamo, molta gente è venuta qui a Bali a Kuta proprio per fare shopping o anche per fare shopping. E i balinesi e gli indonesiani sanno bene che a loro garanzia c’è il basso costo locale della produzione, e un cambio a noi molto favorevole, e dunque non possono fare a meno di cercare ad ogni costo di piazzarti la loro merce. Il che è del tutto comprensibile, campano di quello, comunque lascia un po’ costernati rendersi conto di questo, cioè che questo è il dato base, che sta a fondamento di tutto lo sviluppo economico del paese. Perciò tutto è qui finalizzato a quell’obbiettivo, per dare loro quel che cercano, chiedono, desiderano, cioè i mezzi per illudersi di poter vivere come gli occidentali, o i cugini orientali più sviluppati. A tutti quanti piace praticare lo sport nazionale del bargaining, del contrattare, è una specie di gioco popolare che giocano volentieri, e di solito combinano dei buoni affari, sopratutto con chi non sa che deve contrattare, non ha voglia di farlo, o è comunque ignaro del vero costo delle cose e quindi paga i prezzi richiesti (che sono sempre molto inferiori ai “nostri”). Invece bisogna subito controproporre meno della metà di ciò che dicono, o un terzo di quel che a prima battuta ti chiedono. Poi il prezzo “vero” verrà eventualmente fuori quando avranno capito che a noi davvero la cosa non interessa poi talmente, e che per davvero stiamo andandocene via (e non ripasseremo mai più di lì).
Fa un caldo tremendo, con un sole spaccacranio. In una spa vediamo che si fa il pediluvio in un catino con pesciolini che ti smangiucchiano le pellicine dei piedi, si chiama “fish spa”. Compriamo delle cosine e alla fine dovremo cambiare dei soldi, ma troviamo bene, a 16250, e contrattando col money changer otteniamo un cambio migliore: a 16295.
Sbirciamo in un paio di templi, e edifici del locale banjar.
Ci fermiamo a un bar all’angolo vicino alla fermata del nostro shuttle, per refrigerarci. Chiacchieriamo con due giovani spagnoli, e una coppia di francesi, che sono carini e bravi, appassionati gran viaggiatori.
Torniamo con lo shuttle che senza le soste dell’andata, e non facendo stradine strane, ci mette davvero pochissimo. Poi stiamo in piscina e infine andiamo a cenare al MahiMahi, dove prendo un chiken pandanus, cioè cotto nella foglia.

2 ottobre, 29a giornata  (Kedonganan)
Anche stamane vado a fare un giro nelle vie qua attorno, vie non dedicate al turismo, ma di traffico di lavoro. Negozi popolari, minimarket, officine meccaniche, piccoli opifici, e altro. Continuo il giro per le zone popolari. Ma ci sono pur sempre bei fiori e frutta, che rendono colore e bellezza. Per certi versi sono posti brutti, perciò senza turisti, ma sono comunque interessanti perché significativi della realtà che c’è dietro la facciata di negozi e negozietti di souvenirs o di oggetti d’artigianato, o di ristoranti e hotels. Diverse volte ho visto topi passare, e mi sembra che sia molto carente un servizio pubblico di nettezza e igiene urbana. Spesso bruciano gli scarti con dentro di tutto, anche molta plastica, di qui i fiumi grigi e certi odori acri.
Camminando sui marciapiedi (di solito molto rialzati) bisogna sempre stare molto attenti a dove si mettono i piedi, perché ci sono buche, crepe, e a non fidarsi di rappezzature, chiusure, tombini, grate, botole, ponticelli in legno.
Nei prossimi giorni ci sarà a Bali la riunione dell’APEC (Asian-Pacific Economic Community) con l’intervento anche di Obama. E già c’è molta attesa. Obama è cresciuto a Giava da ragazzino, nel 1969/70, e quindi ci si aspetta un particolare interessamento per i problemi dello sviluppo dell’Indonesia.
Ripensando al giro di ieri, gli oggetti di artigianato venivano originariamente prodotti solamente per finalità concrete, pratiche, in quanto oggetti di uso quotidiano, come ceste o cestini, o ceramiche, o oggetti per  offerte e cerimonie. Quel che si compra ora non sono esattamente le stesse cose di trent’anni fa.
Ci sono a Bali vari musei, a Ubud, a Denpasar, come in altre località. Sono dunque consapevoli di dover preservare la loro cultura. Nei musei si vedono gli originali, che sono divenuti dei prototipi per tutto ciò che anche ora si produce, ma si produce per altri fini. Non fanno quasi altro che riprodurre, ma ci sono stati alcuni cambiamenti a contatto con le arti occidentali. Sono comunque ulteriori variazioni sul tema di riferimento che rimane quello tradizionale, cioè il modello di ciò che è tipico locale. In certe botteghe c’è una scritta del tipo: “antiques made to order”, antichità fatte su ordinazione, riferita alla manifattura di oggetti che sono proprio come quelli tradizionali. Per i balinesi (e non solo per loro) è antico tutto ciò che in qualche modo appaia tale. E poi comunque anche in botteghe con cosucce da poco, è d’obbligo contrattare. Pochi e rari i negozi a prezzo fisso. Li abbiamo visti solo qui a Kuta, oppure nei grandi centri commerciali moderni, o nei supermarket, dove anche la gente del posto va a comprare, e lì i prezzi sono commisurati al costo della vita e al reale valore della rupia. Come sono soliti dire: quando con la contrattazione si raggiunge una cifra che tu acquirente giudichi un buon affare, e a chi vende, anche, allora quello è il prezzo giusto in quella situazione.
Mi piace quel monumento che c’è all’ingresso in città, con Arjuna e la biga coi cavalli guidata da Lord Krishna, che riproduce l’immagine dell’inizio della battaglia di Kurukshetra, descritta nella Bhagavad Gita. Qui anziché Arjuna, dicono che era l’eroe Bima.
A Bali nel suo particolare induismo (Agama Hindu Dharma), si considera che Wisnu e Siva siano manifestazioni dell’Unico-Tutto, o Tutt’in Uno, cioè Sang-hiyang Widi Wasa, o Acintya (non-figurabile), che risiede sul monte omonimo (2100 metri, sopra alla regione dei laghi), ed è il dio invisibile del mondo superiore, protettore degli spiriti degli antenati, e rappresentato dal trono vuoto (padmasana) con a volte una figura solare, di solito il trono è avvolto nel poleng a quadri bianco/neri, e protetto dall’ombrello tedung (vedi la puntata 26); mentre la divinità più venerata è Dewi Sri, consorte di Wisnu, dea della fertilità, della vita, e dei prodotti della terra in primis il riso;  e Saraswatù la dea delle conoscenze, consorte di Brahma; e Durga, la Morte, consorte di Sivà; poi ci sono i vari spiriti della natura, eredità dell’animismo prehinduista, come la personificazione dello spirito dell’acqua, Dewi Danu, presente nelle fonti sacre, o la già citata Dewi Sri, dea del riso, o Dewa Bayù, dio dei venti.
A Bali c’è spesso vento, essendo un’isola, il che è la sua salvezza altrimenti il sole sarebbe troppo forte e farebbe troppo caldo. E’ una gran cosa, è stata proprio graziata dagli dei della natura. E inoltre è ricca di acque, e il terreno vulcanico è particolarmente fertile. Perciò la chiamano paradiso terrestre o isola degli dei.
Ghila in questo viaggio ha parlato con tante persone, e ora sta chiacchierando con una giovane svizzera e le sue due bimbe. Poi andiamo a pranzo su al primo piano che è tutto aperto ai lati, creando un unico salone senza pareti, di almeno 40 metri, con belle statue moderne di danzatrici.
Non manca un duetto sonoro di gamelan, con la solita musica, che nella sua nenia ritmata a volte mi fa tornare in mente la canzoncina dei personaggi disneyani di Gwendaline e Adelina Bla-bla, le due oche inglesi negli Aristogatti del 1970, e in effetti qui a fianco del ns tavolo ci sono proprio delle statue di due gooses…!
Prendo un ottimo sweet&sour chicken, Ghi fried noodles, e AL un ottimo tonno bianco. Intanto chiediamo alla cameriera che cosa contiene quella grande zuppiera del tavolo più in là, e ci dice che è fuori menù, espressamente per il boss e i suoi due ospiti di lavoro. Il signore in questione se ne accorge e dice alla cameriera di portarci la zuppiera, così finché non saranno servite le nostre ordinazioni potremo gustare un piatto tipico che si fa raramente nei ristoranti. E’ una zuppa di pesce, ed effettivamente il brodetto è molto buono e saporito. Ringraziamo tantissimo per la cordiale cortesia.
Nel pome facciamo il solito full body massage di un’ora, poi facciamo la conferma del volo via internet, e alle sei andiamo in spiaggia per il tramonto. E’ tutto rosa, anche la sabbia e l’acqua. In lontananza si vede che mettono in mare delle barchettine con luminarie.
Ci sono diversi spettacolini di danze balinesi con ballerine adolescenti, e anche con bambine di circa 10 anni, certe sono proprio brave. Ogni ristorante ha allestito un suo teatrino, e si va dall’uno all’altro.
Poi restiamo lì per cena, ai tavoli del “New Langsam café’s fresh grilled seafood”, dove prendiamo un pesce snapper, una soup, patatine fritte, acqua, bibite, e succhi spremuti di frutta, una birra, per circa 23€ (qui nel sud tutto è più caro).

3 ottobre, TRENTESIMO GIORNO
La camera va lasciata entro le dodici, e noi andremo all’aeroporto non prima delle 18, ci sentiamo un po’ come tra color che son sospesi. Facciamo le valige che poi lasceremo in ricezione. Mi riguardo foglie e fiori, e un bell’uccellino, e riascolto richiami e cinguettii: Avrò certo nostalgia non solo di questi suoni ma anche della vegetazione così straboccante, e anche dei loro sorrisi.
In definitiva, la grandissima parte di chi viene a Bali ci viene solo per le spiagge, per abbronzarsi, per fare shopping, e per passare le giornate tra piscina e ristoranti, con un intermezzo di massaggi o sauna. Poi viene per gli intrattenimenti dei locali dove passare la serata. Tutte cose che anche noi abbiamo pur fatto. Una gran parte dei rimanenti vengono per fare surf, e/o diving, scuba, snorkeling, e altri sport, come rafting, eccetera. Negli intervalli liberi ci infilano magari una gita organizzata in pullman.
Tutte cose piacevoli che qui si possono trovare e combinare, quel che volevo dire è che per molte persone andare ad Aruba nei Caraibi, oppure venire qui, in fondo fa poca differenza.
Ma a Bali non mancano certo anche quei viaggiatori (che di solito prediligono soluzioni economiche e che sono disponibili ad adattarsi) che sono incuriositi proprio da Bali e dai balinesi.
Dopodichè conta anche il fatto che qui, oltre alle bellezze del paesaggio e della ricchezza della cultura locale (quindi visitare dei templi o vedere il teatro delle ombre, ecc), si può anche ritrovare un ambiente da backpakers, o similari, dove poter incontrare gente con cui chiacchierare e stare in compagnia di altri viaggiatori indipendenti, parlando e sognando anche di altri bei viaggi.
Dopo pranzo scambio due parole con Ema della reception, le dico che mi ha fatto piacere conoscerla, perché lei è sempre cortese e sorridente, e mi dice che i balinesi che son dovuti andare per lavoro fuori dell’isola hanno tutti una grande nostalgia della loro patria, e anche se nella vicina Java c’è sviluppo e lavoro nelle città, però molti si trovano male a causa del contesto islamista a volte oppressivo verso i comportamenti, e invasivo anche nel privato. Lei ritiene che per questo qui tutti sorridono e hanno un atteggiamento più leggero.
Andiamo infine all’aeroporto e l’autista gratuito dell’albergo ci lascia al nuovo settore delle international departures, ma si tratta di quello riservato ai soli voli “Garuda” (la compagnia nazionale indonesiana)! Così con le valige dobbiamo ritornare indietro e andare da tutt’altra parte, ed è lontanissimo. Per fortuna certi addetti a cui chiediamo informazioni, si preoccupano di noi e uno ci accompagna con il car elettrico…! (e poi non vuole nessuna mancia).
Ceniamo qui.

4 Ottobre 2013
Bali-Singapore, durante la breve sosta bighelloniamo un po’ guardandoci in giro in quell’enorme aeroporto, e poi si riparte per Amsterdam. La tratta Bali-Amst è di 17mila km. pari in tutto a 18 ore.
Infine c’è Amsterdam-Bologna, e poi da Bologna a Ferrara ci viene a prendere con la nostra macchina Michela. E finalmente a casa a Vigarano, dove apriamo le valige tirando fuori gli acquisti, con i loro densi profumi e colorati ricordi balinesi.
Che nostalgia… e oltretutto qui in questi giorni fa freddo, ci sono 11 gradi! e c’è umido, la nebbia, e tutto è grigio… 🙁

ciao Bali bella
E’ proprio il paradiso degli dèi, come dice una favola:

“I Gusti era un gran cacciatore e se ne stava acquattato nel folto della vegetazione in attesa, quando scorse un bellissimo uccellino con piumaggio multicolore. Lanciò un sottile dardo con la sua cerbottana, quando corse là per vedere, trovò un magnifico mantello morbido e soffice di piume colorate. Mentre lo accarezzava sentì una dolce voce femminile dire “che te ne pare? è bello vero?”, alzò lo sguardo e vide una attraente fanciulla che poteva solo essere una principessa o una dea. Emozionato le disse “te lo restituirò solo se accetti di sposarmi”. Lei con un sorriso rispose: “va bene pur che tu non mi chieda né il mio nome né la mia origine”. Vissero felici e contenti nella sua capanna e dopo un anno nacque un bel bimbo. La sola presenza di lei e del piccolo riempiva di gioia le giornate. Ma da allora lei sembrava assorta e sospirava. Intanto cuciva tutto il giorno piume di uccelli e fece due splendidi mantelli. Tornando a casa li vide ultimati e chiese cosa fossero, allora lei gli disse di essere la figlia del dio dei venti, e che questi mantelli avrebbero permesso a lui e al figlio di raggiungerla in cielo. La sera dopo, al suo ritorno la sua sposa non c’era più.  Passarono dei giorni in cui il bambino ripeteva di volere la sua mamma, e allora Gusti prese la decisione di indossare lui e il figlio i due mantelli. Si sentì leggero e prese il volo verso le nuvole, al di sopra di esse apparve un etereo castello, e Deva Bayù, il dio dei venti, apparve sulla soglia, e dietro la sua figlia sorridente. Madre e bimbo si abbracciarono, e lei gli disse che il figlio sarebbe tornato a trovarlo quando avrà imparato dal nonno i segreti che regolano i venti e le stagioni. Anni dopo il figlio tornò da suo padre e gli spiegò tutto quel che gli uomini devono sapere sulle fasi lunari, sulle tempeste, sui germogli e sulla generosità degli dèi che provvedono amorevolmente alla vita degli esseri umani sulla terra. E questo perché Bali è un divino paradiso dove gli dèi hanno dimora.”

http://viaggiareperculture.blogspot.it/2013/10/bali-1.html

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